L'Olmo della discordia
Quello che aveva davanti agli occhi non era logico, era senza senso. Il vecchio aveva scavalcato il recinto che separava il suo giardino da quello di Matteo e stava annaffiando la siepe, la sua siepe, con tutta la tranquillità del mondo.
Doveva aver scavalcato, perché il cancelletto era ancora chiuso come l’aveva lasciato, nessun segno di effrazione. Non pensava che il vecchio fosse capace di forzare una serratura, ma se è per questo, non lo faceva neanche così fisicamente agile da scavalcare.
“Scusi.” Avrebbe voluto sembrare più calmo, ma la voce gli si incrinò. Pensò che, se l’avesse sentito lo psichiatra con cui era stato costretto a incontrarsi per le ultime tre settimane, sarebbe rimasto sorpreso: non gliel’aveva detto esplicitamente — non gli cavi nulla, a quelli lì – ma era chiaro che fosse l’apatia di Matteo a preoccuparlo. E invece eccolo lì a provare un’emozione, anche facilmente identificabile. Rabbia.
Per quanto spiacevole, era qualcosa. Sentire le orecchie andare a fuoco quando Olmo — che nome ridicolo, lo pensava ogni volta che lo vedeva e lo pensò di nuovo — si girò, un sorriso serafico stampato in faccia, fu quasi simpatico. “Mi spiega che cazzo sta facendo?”
“Non si vede?”
Matteo si frugò nelle tasche in cerca delle chiavi. Per un attimo temette di averle lasciate in ospedale, ma erano solo seppellite da un mucchio di scontrini, che non poteva buttare a terra in quel momento: Olmo gli avrebbe attaccato un pippone sull’ambiente, la raccolta differenziata, le tartarughe morte. Per i suoi anni — sicuramente sessanta, forse addirittura settanta — era sorprendentemente al passo coi tempi.
Aprì, entrò, e constatò con orrore che il problema andava oltre la siepe. Il vecchio gli aveva rivoluzionato il giardino. Non c’era traccia di erbacce, il prato era paro-paro che quasi pareva finto, e negli angoli erano comparsi dei fiori — piantati da poco, si capiva dalla terra pulita e umida tutto intorno.
Il limone non gli era mai sembrato così felice, se una pianta si può definire tale. Come se in assenza di Matteo avesse finalmente abbracciato il suo ruolo nel mondo, aveva persino prodotto un frutto. Pendeva, piccolo ma tondo e lucido, piegandone un ramo sottile. Guarda che ho fatto, sembrava dire l’alberello. E infatti Matteo si fermò a guardare.
“Pensavo fossi morto,” gli arrivò la voce lapidaria del vecchio, alle sue spalle.
Magari. “È violazione di proprietà privata,” mugugnò Matteo, senza convinzione, adesso abbattuto davanti all’evidenza che perfino le sue stupide piante potessero sostituirlo da un giorno all’altro.
L’altro lo ignorò, spense l’acqua e si mise placidamente a riavvolgere il tubo. “Per un paio di giorni non serve annaffiare.”
“Lo vedo questo. Ma poteva anche non scomodarsi.”
“Non volevo questo povero giardino sulla coscienza.” Fece un cenno col mento a indicare il trolley di Matteo. C’erano i vestiti che gli aveva portato sua sorella in ospedale, e infatti era un’ironica coincidenza che il vecchio non si fosse accorto di quel passaggio, lui che vedeva tutto. Mara doveva aver fatto di fretta. Era anche riuscita a pescare proprio le poche cose nell’armadio che gli stavano strette, e che non aveva ancora buttato per pigrizia. Non l’aveva rimandata indietro, comunque, e aveva sofferto in silenzio. “Ovviamente non tutti ne hanno una. Bella vacanza?”
“È stata improvvisa.” Un modo come un altro per dire: mi hanno impedito di buttarmi da un ponte, e la settimana obbligatoria di TSO s’è trasformata in tre. Ma se ti impegni tanto tanto, forse ci riprovo e stavolta ci riesco.
“La prossima volta lasciami la chiave. Io evito le acrobazie e tu le effrazioni.”
“Lo terrò a mente.”
La conversazione poteva finire lì, ma Olmo doveva insistere, come suo solito: “Un amico da chiamare non ce l’avevi?”
Adesso era veramente troppo. Matteo scoppiò a ridere. “Sono stato in ospedale. Mi hanno tolto il telefono e, anche se ce l’avessi avuto, non avrei chiamato qualcuno per farmi curare le piante. Contento adesso?”
Nessuna reazione. “In ospedale non tolgono il telefono.”
Si fissarono senza dire niente. Matteo dibatté con sé stesso se dire la verità o lasciare che pensasse che era un bugiardo, o qualunque altra cosa volesse pensare. “Sì. In psichiatria.”
Una reazione, adesso. Piccola. Olmo alzò le sopracciglia. Sembrò voler dire qualcosa, ma si limitò ad un “ah”.
“Ah,” gli fece il verso Matteo. Si guardò di nuovo intorno. Notò solo allora la gatta del vecchio che pisciava indisturbata dietro al cassonetto dell’immondizia. Aveva scavalcato anche lei, nonostante fosse vecchia almeno quanto lui. “Ma grazie per avermi sistemato il giardino e avermi tolto anche l’ultima scusa per uscire di casa. Siccome amici non ne ho, dico.”
Era una provocazione. Olmo avrebbe potuto rispondergli che usciva solo perché glielo chiedeva lui. Anzi, non chiedeva, martellava: ogni volta che beccava Matteo sull’uscio, o anche solo alla finestra, si lamentava dell’incuria, della mancanza di decoro, del fatto che faceva sembrare la schiera di villette in cui vivevano un campo profughi. Senza offesa per i profughi, specificava sempre, perché loro sono costretti a vivere così e mancano di mezzi, mentre Matteo aveva l’acqua corrente, gli attrezzi che Olmo avrebbe potuto prestargli, e perfino un tosaerba.
Per inciso, il tosaerba gliel’avevano dato insieme alla casa.
Matteo quindi alla fine usciva, toglieva le erbacce a mani nude e spesso in pigiama, staccava le foglie gialle e dava l’acqua a sentimento, o fin quando non sentiva il grugnito di approvazione di Olmo dall’altro lato del recinto.
Odiava che il sole, l’aria e l’odore dell’erba bagnata lo facessero sentire meglio. Odiava che avessero tutti ragione, che la depressione si alleviava stando all’aria aperta, ma soprattutto odiava che quel vecchio pazzo fosse l’origine del suo sollievo.
Olmo non gli rinfacciò niente di tutto questo, però. E per la prima volta da quando lo conosceva, non sembrava irritato dalla sua stessa esistenza. “Non sapevo che fiori ti piacevano, quindi li ho presi uguali ai miei,” borbottò.
Matteo lanciò un occhio al giardino di Olmo. L’erba del vicino è sempre più verde, nel suo caso in particolare, ma c’erano anche altri colori. I fiori non li riconosceva, ne capiva molto poco di botanica. “Gerani?” Tentò, ma solo perché ricordava di averli visti sul carretto fuori dal cimitero, l’ultima volta che era andato a trovare sua madre. Gerani a tre euro, c’era scritto, e quelli nel giardino di Olmo parevano simili. Li aveva presi? Non ricordava. Aveva preso dei fiori, ma non era sicuro di quali.
“E ortensie.”
Matteo annuì. “Grazie. Ora sono stanco.”
Annuì pure lui. Chiamò la gatta con due schiocchi di lingua, e quella gli andò incontro a coda alzata e si lasciò prendere in braccio. A Matteo soffiava sempre. “Scusa per la pipì.”
Stanco lo era davvero, perché quando cercò la forza di lamentarsi anche di quello non la trovò, nemmeno sotto tutti gli scontrini. “Non fa niente.”
Passarono due giorni. Al lavoro gli avevano detto che poteva lavorare da casa per tutto il tempo che riteneva necessario. Ci tenevano alla salute mentale dei dipendenti. Matteo la vedeva come una punizione. Si chiese se lo stessero esiliando perché non sapevano più come interagire con lui, o magari perché la sua situazione — la sua salute mentale — era una macchia sul manuale immacolato delle policy aziendali, un’inconfutabile prova che sparavano cazzate.
Non era stato il lavoro a farlo ammalare, ma sicuramente non si sentiva supportato, e loro di supporto si riempivano la bocca.
Suonò il campanello. Matteo pensò subito che Olmo non potesse essere — aveva detto due giorni. E di certo non era sua sorella, che se n’era tornata a Bologna a metà della sua seconda settimana in ospedale. Non poteva lasciare da soli i bambini per troppo tempo. C’era suo marito, avrebbe voluto dire Matteo, e lei avrebbe potuto trattenersi. Ma non le aveva detto niente. Colpa dell’apatia.
Quando aprì la porta, però, era proprio il vecchio. Aspettava in silenzio dietro al cancelletto, e a Matteo fece strano, sia visto il loro ultimo incontro, sia perché di solito non si disturbava a bussare e gli urlava appresso e basta. Aveva ritrovato l’educazione, tutt’a un tratto? Forse si era impressionato a scoprirlo mentalmente instabile, e avrebbe cominciato pure lui a trattarlo coi guanti. Un po’ gli sarebbe dispiaciuto. Gli piaceva litigare con lui.
Aprì e scese le scale per andargli incontro. Aveva una pianta tra le braccia, anche se chiamarla pianta era fin troppo generoso: poco più di un paio di bastoncini secchi, che sbucavano dal terriccio come se qualcuno ce li avesse infilzati dentro a forza. L’unica traccia di vita era un rametto verde, con un germoglio ancora chiuso: forse una foglia, forse un fiore, ancora non era dato sapere.
“Che è successo?”
“A lei qualcosa di brutto, senza dubbio,” fece lui, con un cenno alla pianta.
E quindi? “Cos’è, è per me? Sta cercando di fare una metafora?”
“Non faccio metafore.” Come se fosse un’accusa. Olmo si impettì. “Ti ho tolto un passatempo, adesso te lo ridò.”
Era un gesto inaspettatamente carino. Quasi dolce. “Non so cosa farci, con quella. Non sono abbastanza bravo da riportare in vita le piante morte.”
“Non è morta, non vedi? Vuole vivere.” Olmo indicò il rametto, poi sospirò di frustrazione e gli sbatté il vaso in petto, forzandolo a prenderlo. “Va bene, forse sto facendo una metafora.”
Bisognava porre fine all’imbarazzo. Matteo guardò la pianta, poi Olmo, e a una metafora rispose con un’altra: “questa devo annaffiarla tutti i giorni?”