[MI186] Le solitudini imperfette

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  [MI186] Traccia n.1: Tutto può capovolgersi 


Quel giorno m’ero svegliata di malumore, forse perché era una mattinata fosca, forse perché sentivo freddo, forse perché era domenica, forse perché avevo superato da un pezzo i quarant’anni, e sentivo di aver buttato la mia vita nella tazza del cesso, forse perché mi sentivo sola, pazzescamente sola. 
Me ne ero uscita la mattina presto e avevo pensato di anticipare la messa in modo da non incontrare compaesani, che magari avevano pure tirato tardi la sera precedente, che era quella del sabato prima di Carnevale. E invece sul sagrato di Sant’Eustachio chi si presenta? Agostino Caloscurò, proprio lui in persona, di professione idraulico, elettricista, montatore di condizionatori e caldaie, insomma impiantista, non uno qualsiasi ma il più ricco e ricercato del paese, che pare niente e invece è tutto, e che subito mi restituisce la mia occhiata sbieca con un’altra che mi immagino voglia significare: ma tu cosa vuoi da me?
Ma io da lui non volevo proprio niente: quell’occhiata era capitata e basta. Non per cattiveria, pure se mi passavano tanti di quei cattivi pensieri per la testa in quei giorni, né per malizia, anche se ci avevo posato gli occhi sopra al suo bel culo sodo, ma per caso, perché quell’occhiata profonda non era stata affatto voluta. O forse sì, perché pure se lo conoscevo da quando giocavamo ragazzini all’uscita della scuola nella calle di Sant’Isidoro, pure se lui s’era sposato da quanto... saranno stati minimo quindici anni, qualche volta io a lui ancora ci penso, ci penso come quand’ero ragazzina, anzi ci penso come una donna che pensa a un uomo.
E mi salgono i sensi di colpa, perché a sua moglie Melissa la conosco anzi siamo quasi amiche, e mi assalgono i sensi di colpa perché nonostante padre Simon, colla sua malalingua e la malafede e le polemiche gratuite a ogni omelia, io sono cattolica e pure apostolica e romana, e ogni mese ci tengo ad andarmi a confessare, a svuotare la coscienza per evitare l’Inferno, Dio me ne guardi e liberi, dove invece capiterà quell’alito fetente e quelle occhiatacce gratuite attraverso la tenda del confessionale.
E adesso a don Simon che ci racconto? Minchiate, come al solito.
E solo dopo che Agostino mi aveva restituito l’occhiata mi sono fermata a pensare che quando ero ragazzina col grembiule pensavo oddio quant’è bono, e lui pareva che mi leggeva nel pensiero e con quei suoi occhi azzurri profondi e intensi ricambiava la battuta e mi diceva bella a me — a me, capite? — nonostante io bella proprio non mi ci sentivo, — e non mi ci sento manco adesso — per via delle gambe lunghe e un poco storte, e dei miei denti che mi sporgono all’infuori e della bocca stretta e senza labbra e degli occhi rotondi e quasi a palla e di un verde scolorito che pareva un’alga morta. E mentre ci guardiamo mi domando se pure lui qualche volta aveva pensato a me come un maschio pensa a una femmina.
Ah, quarant’anni, e la fine s’avvicina diceva don Baldassare Speranza, ed è proprio vero, sapete: perciò è meglio levarselo prima qualche capriccetto, prima che sia troppo tardi, o prima che i rimpianti facciano a pezzi quel che rimane della nostra, anzi della mia autostima. E pazienza se poi dovrò convivere coi rimorsi. Chissenefrega! 
E siccome non riesco a togliergli gli occhi di sopra, lui che fa? Si avvicina a me  — maledetto lui —, e pure se lo stavo squadrando da capo a piedi è come se sia arrivato di soppiatto e mi abbia scoperto a fare cose che non si possono fare, e tanto meno dire, mentre il mio è solo un guardare senza giochi doppi, senza pensamento, senza turbamento di sorta. Che pure c’è, mannaggia se c’è.
Guardinga, lo saluto e gli porgo la manuzza, che ritraggo subito, perché mi piglia la paura che la consideri piccola e brutta, e pure molle e sudaticcia, e invece lui mi afferra le dita, che rimangono dentro la sua manona bella callosa, dura e forte; era talvolta in queste occasioni che mi pigliava la paura, fin da che ero ragazzina, che qualcuno trovi le mie dita fredde e ossute e anche inconsistenti, oppure si accorga dei miei denti storti e all’infuori. E allora faccio per sfilarle le mie dita, e invece lui le insegue e le trattiene, ancora tra le sue, e mi sorride, e io trovo che lui invece ha proprio dei bellissimi denti, dritti e bianchissimi. Mi sento all’improvviso sopra e sotto — sarà la sua aria malmostosa — e quel profumo d’acqua di colonia da quattro soldi che spande fragranze ai quattro venti di fiori di campo, in mezzo a un tramestio di rose e finocchietto riccio, e di sottecchi mi sembra adesso che sia lui a squadrarmi da capo a piedi, e mi viene l’ansia a pensare a come sono vestita, e se qualche cosa magari mi sta fuori posto. E comincio a stirarmi la giacchetta e a sistemarmi i capelli stinti e cerco di pensare a cosa ho messo stamattina, se forse ho sbagliato outfit nella fretta, pure se io sono vestita nel solito modo in cui sempre sono vestita per la funzione domenicale, per fare gracchiare padre Simon, con una gonna lunga a coprire le ginocchia grosse e una giacca dello stesso grigio scolorato a coprire una camicetta azzurrina che mi serra il collo fino fino perché ho sempre paura che stia iniziando a raggrinzare.
«Che hai, Agostino» ci domando senza alzare la voce. «Ce l’hai con me? Lo so che avanzi tanti di quei soldi per tanti di quei lavori che ti ho fatto fare... I tubi sono tutti fradici» provo a scusarmi.
Mi fece segno che no e pure mi chiede perdono per avermi fissata, e con un fare lamentoso mi racconta che si trovava sopra pensiero, perché ha un’infinità di problemi per la testa, che i soldi non c’entravano niente, che lo sapeva che casa mia era stata un malaffare. 
«Hai problemi con Agatina?»
Di nuovo scende con la testa a dir di sì, e io sospiro soddisfatta, e mi viene il coraggio e me lo tiro di fianco alla scalinata, sotto all’atrio coperto della chiesa madre, di modo che nessuno dalla piazza ci possa dire cosa, ci possa spiare.
«Quella ragazzina mi fa diventare scimunito. Ora dice che la domenica mattina, prima di alzarsi dal letto...»
E così mi racconta che Agatina vuole fare quell’affare che vogliono fare tutti i ragazzini su tictac e che ogni mattina appena alzata, in pigiama e mezza nuda col culo di fuori, deve fare la diretta per i suoi... come si chiamano?
E per sì e per no mi faccio un rapido segno della croce e gli dico che ho capito.
«Ah, ‘sti benedetti ragazzini» mormoro, come a consolarlo e veramente mi pare afflitto da questa solenne minchiata.
E mentre mi aspetto che lui se ne esca con qualche parola di circostanza prima di allontanarsi e di lasciarmi sola colla mia vita buttata nel cesso anni prima, lo vedo invece farsi cupo, più fosco di quella fosca mattinata domenicale in attesa della messa di Nostro Signore, pure se recitata da quel pederasta maligno di padre Simon, e quel silenzio, quell’attesa, m’accende l’anima di desiderio.
«E quella disgraziata di mia moglie...» dice.
«E che ha fatto Melissa» ci domando, mentre il cuore mi si accendeva di speranza.
«Invece di dirci a quella scervellata che si spicciasse a pigliare il diploma da estetista che il papà le mette su una bella attività con tanto di insegna luminosa a Latisana, ecco lei...»
E questa volta si sfoga, mi dice che si sente solo, anzi solissimo, perché sua moglie è una cretina e una pettegola, e alla figlia le ha messo in testa che farà l’attrice, la cantante o una star con l’influenza.
«Con l’influenza?»
«Ma sì, quelle cose dei ragazzini su trictrac» dice mandandole a quel paese col bel braccio nerboruto di chi svita e avvita mille tubi al dì.
E anche questa volta faccio cenno di aver capito, mentre non ho capito un anonimo tubo e di più non me ne frega niente di Melissa e manco di Agatina, e me lo guardo tutto da vicino il mio Caloscurò, che Agostino è stato da sempre proprio bello, anzi un adone, il più figo del paese.
«Così per non avere la testa rintronata dalle loro urla e dalle riprese del culo di mia figlia me ne sono uscito, che magari forse per la messa di mezzogiorno ce la fanno a uscire da quel grande fratello che è diventata casa mia. Ah, come mi sento solo» e mi pare che se ne è pentito subito di avermi fatto quella che pare una confessione di colpa e di mancanza di paterna autorevolezza, e di umana debolezza.
«Se mi vedesse Umberto Bossi, qual è la colpa...»
Ma quale colpa? Sei bello, ricco e scimunito. Di quale colpa via cianciando? E nervosa nera apro la borsetta e ci frugo dentro finché nella mano non ci rimane il portasigarette lucido del papà dal quale afferro una sigaretta ri go ro sa men te senza filtro. Gliene ne offro una, e lui la sua l’accende dalla mia con le sue mani tra le mie, come a fare un nido di colomba innamorata, e ne aspira il fumo che sordido esce dalle sue labbra carnose per entrare dentro alle mie pittate di un rosso tumefatto, e mi viene da pensare che è vero quel che si sussurra in paese, che fuma come un turco, quaranta o sessanta sigarette al giorno, e poi non so per come o perché mi ricordo che mormorano delle corna fattegli da Melissa, quando lui si trova fuori per i suoi giri da impiantista indefesso e senza orari.
È la medesima vocina mi sussurra di non avere sensi di colpa. 
«Pure la vita mia è stata un inferno» gli dico sibilando come una biscia.
E non so perché anche a me mi scaturisce la voglia di confessarmi e ci racconto che quand’ero piccola di soldi a casa non ce n’erano, che quel disgraziato di mio padre si beveva tutti i quattrini a grappe e zammù e pensava solo a bottiglia e bicchiere e così a me mi era venuta la certezza della vocazione.
«Per questo ti chiamavamo la monaca, a scuola?»
Gli faccio cenno di sì e gli rispondo che ci avevo provato a mantenermi fedele a questa vocazione, anche ormai grandicella.
«Per non venir meno al mio volto continuamente ispirato, io che poi ero bruttina...»
«Ma che dici, Clé? Da ragazzina io ti trovavo bellissima. Distante ma bellissima. E anche ora.»
Sento come una mano che mi porta su nel cielo, sempre più in alto, e quest’ebbrezza non fa altro che accelerare la mia confessione.«Così ogni notte, dopo la rimboccatura delle coperte, iniziavo a recitare le mie preghiere, ma immancabilmente gli occhi mi si perdevano sul soffitto bianco che mi sovrastava come un paradiso perduto, che però rimaneva bianco, senza cristi senza madonne senza cherubini, tranne quando pensavo a te, Agostino mio, bello come un angelo, buono come un santo, comprensivo come un padreterno, forte come un Maciste.
E lo vedo che sorride e mi pare che mi voglia regalare un bacio, che però non arriva.
E così gli racconto che mai una volta, dalle tante preghiere notturne, avevo sentito scaturire una fiamma, dell’ardore, il calore della fede, quando invece l’unico tepore mi veniva dalla borsa d’acqua calda stretta al petto.
Il ricordo mi mette di malumore, Agostino mi fissava, l’attimo era sfumato e non sapeva cosa dire, faccio spallucce e a labbra strette, tra un’aspirata e l’altra della mia senza filtro, ci confesso pure che mi rivolgevo a Sant’Antonio e a San Vincenzo e invocavo la loro protezione, oltre a quella di un gruppetto di santi che allora sentivo più affidabili e vicini, affinché mi mantenessero pura e mi allontanassero le tentazioni di questo mondo.
«Tutte minchiate» dico, riempiendo di voce e fumo l’aria del sagrato, che si colorò d’inferno.
È ad Agostino che mi rivolgo ora: gli afferro la mano e gliela stringo forte.
«I santi, Gesù Cristo, la Chiesa, le messe domenicali, padre Simon… sono tutte minchiate.»
«Ma che dici, Clé» mormora il pupo, e pare sinceramente scandalizzato.
«Quando più grandicella passeggiavo nel corso, gli occhi socchiusi e il capo chinato, spiavo gli uomini; e me li ricordo tutti gli sguardi colmi di lascivia dei miei coetanei maschi, che deviavano in modo inesorabile all’indirizzo delle amiche di fianco.
Erano occhi abituati a spogliare, tutte tranne me» dico, colma di rammarico, carica di rancore, stremata dal livore.
«Solo tu facevi eccezione, eh Agostì? Solo tu mi guardavi come gli altri guardavano le meglio amiche mie.»
«Che vai pensando, Clé. A quel tempo eravamo giovani e cretini e vero è che io ci pensavo a te. Ma tu stavi sempre sulle tue e dicevi che quella notte avevi parlato con Dio e mi pareva di far sacrilegio a parlarti pure io, che a Dio ci ho creduto e ci credo come allora. Poi arrivò Melissa e, seppure adesso ci voglio bene, non la amo più come a quei tempi; lei non mi capisce, non ci siamo mai parlati veramente io e lei, non ci siamo mai capiti né compresi… siamo due estranei che vivono insieme» infine mi rivela.
E con la sua mano scivola a stringere la mia, che ricambia quella stretta.
«Ma con te è diverso, con te non sono solo e sento di poterti rivelare il mio segreto.»
Si gira e stringe il suo corpo al mio, serrato stretto al mio. E sento che se solo mi baciasse io farei l’amore con lui là, in quel momento, di fronte a santi e babbuini, pure dentro la chiesa di Nostro Signore, davanti a tutti, se me lo chiedesse pure davanti a quello zozzone isterico di padre Simon.
«Dimmi tutto quello che vuoi, Agostino. Io ti saprò ascoltare, io ti saprò capire… Liberati dei tuoi rimorsi, alleggerisciti l’anima dei tuoi segreti.»
«L’hai voluto tu, Melissa» e sbaglia nome. O forse no, che a pensare male si fa sempre centro. Mi bacia profondamente con la sua lingua tra la mia e poi avvicina la sua bocca al mio orecchio e soavemente mi sussurra: «A me mi piacciono gli uomini, Clé, mica le donne.»

Re: [MI186] Le solitudini imperfette

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Simona M. wrote: che quando ero ragazzina col grembiule pensavo oddio quant’è bono, e lui pareva che mi leggeva nel pensiero e con quei suoi occhi azzurri profondi e intensi ricambiav
Il pensiero, secondo me, puoi metterlo in corsivo
Simona M. wrote: e dei miei denti che mi sporgono all’infuori e della bocca stretta e senza labbra e degli occhi rotondi e quasi a palla e di un verde scolorito che pareva pare un’alga morta. 
Simona M. wrote: e invece lui mi afferra le dita, che rimangono dentro la sua manona bella callosa, dura e forte; era talvolta in queste occasioni che mi pigliava piglia la paura, fin da che ero ragazzina, che qualcuno trovi le mie dita fredde e ossute e anche inconsistenti, oppure si accorga dei miei denti storti e all’infuori. 
Simona M. wrote: outfit
le parole straniere le metterei in corsivo
Simona M. wrote: «Che hai, Agostino» ci domando senza alzare la voce.
Subito, volevo dirti di correggere, ma poi ho capito che il parlato dei personaggi è proprio così, ed è giusto quel "ci".
Simona M. wrote: Mi fece segno che no e pure mi chiede perdono
Perché passi al passato remoto?
Simona M. wrote: che si trovava sopra pensiero,
soprappensiero
Simona M. wrote: «E che ha fatto Melissa» ci domando, mentre il cuore mi si accendeva di speranza.
Anche qui è giusto il "ci".
Simona M. wrote: Il ricordo mi mette di malumore, Agostino mi fissava, l’attimo era sfumato e non sapeva cosa dire, faccio spallucce e a labbra strette, t
Anche qui, alterni il presente all'imperfetto.
Simona M. wrote: «Tutte minchiate» dico, riempiendo di voce e fumo l’aria del sagrato, che si colorò colora d’inferno.
ti correggo il passato remoto
Simona M. wrote: «A me mi piacciono gli uomini, Clé, mica le donne.»
Il finale mi ha preso alla sprovvista. Ma ci sta. 
Ti ringrazio per la gradevole lettura. @Simona M.  :libro:

E per la partecipazione!  :)
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: [MI186] Le solitudini imperfette

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Ciao, e grazie per l'attenta recensione. Ne approfitto per inserire un paio di coordinate per la lettura del racconto. Innanzitutto il lessico e il registro adoperato dalla protagonista nel susseguirsi di pensieri diretti liberi e di pensieri indiretti liberi è il medesimo di quello adoperato dall'io narrante. Quindi gli errori di sintassi sono voluti.  Ho immaginato un susseguirsi ininterrotto (tranne che dai discorsi diretti segnalati dai caporali) di pensieri, dialoghi e riflessioni e quindi non ha molto senso il corsivo a indicare/incasellare il pensiero indiretto libero. Detto questo, la protagonista dà il la anche al pendolo dei tempi verbali che transita da forme al presente a forme al passato nel medesimo periodo anzi nella medesima proposizione. Il pendolo è voluto (e capisco che debba essere digerito, ho faticato anch'io), in quanto è la protagonista a parlare e pensare in questo modo e l'io narrante la imita. È un tentativo di sincronizzare l'intero discorso narrativo sul modo di esprimersi e pensare della protagonista (solo in apparenza facile). Dopodiché quel pareva un'alga morta è un errore, dovrebbe essere pare. Ma la successiva indicazione "pigliava la paura" per me è esatta perché si riferisce a un momento passato in cui la protagonista è ragazzina. Perciò una regola esiste, ma è la regola di Clé. Quel sopra pensiero che hai indicato come errore, la forma staccata è corretta anche quella, l'avevo verificata sulla Treccani. 
E questo è tutto, grazie Poeta zaza. 

Re: [MI186] Le solitudini imperfette

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Ciao @Simona M.


Mi piacciono queste “piccole” grandi storie di provincia, così lontane, così diverse dalle metropoli.
Un mondo chiuso in un cortile mi verrebbe da dire, forse in un eccesso di retorica, ma io amo i cortili, che talvolta ricorrono nelle mie storie.
Mi piace l’ambientazione; dai modi di dire e dai nomi mi pare siciliana, ma a un certo punto nomini Latisana per una eventuale attività da estetista per la figlia di Caloscurò, se male non ho capito. Che rapporti ci sono con Latisana? Qualcosa mi è sfuggito, non ho interpretato bene.
La protagonista, Clè, ha innumerevoli complessi, rimorsi e pensieri nonché desideri repressi in un luogo caldo, permeato da un cattolicesimo eccessivo, sbagliato a tutti i livelli, dai preti ai fedeli. Una mentalità arcaica, la conosco bene, non la condanno: talvolta amo rappresentarla come antitesi, rifugio ribelle alla follia odierna, pur con un recondito, oserei dire anche atavico senso di ribellione, di trasgressione sempre insito sotto il caldo sole del Sud.
Nei due protagonisti si respira un’aria sensuale, calda, parole dette e non dette, specie da parte di Clè (Clementina?), una certa rudezza da parte di Caloscurò, nei suoi gesti sensuali, financo nelle sue espirazioni di fumo di sigaretta senza filtro.
Mi piace quest’atmosfera imperante che sembra invitare al peccato, il caldo, anche se non rappresentato, pare di avvertirlo, deve esserci, dominare, fare uscire di testa.
Così come sembra di sentire il fresco sapore dissetante dello zammù alternato alla grappa evocato da Clè nei suoi ricordi delle bevute del padre.
Ho trovato particolare, nel soliloquio iniziale di Clè, il suo rivelare di essere cattolica e addirittura apostolica romana. Forse non l’avrei messo facendolo risaltare però dalla sua comprensione di questo fatto, dalle sue pastoie morali, da una certa ipocrisia codificata e accettata, facente parte del suo mondo.
Anche la notazione del prete pederasta, le parole sussurrate con alito fetente nel confessionale, notazioni evocative, interessanti, dai mille risvolti descrittivi e romanzeschi che sarebbe interessante approfondire.
Come pure la scioccante rivelazione finale di Caloscurò che dopo tutti i preamboli descrittivi sulla vita del personaggio uno non si aspetterebbe mai. Pare di vederlo questo tipico maschio abbronzato e muscoloso, magari con dei baffi, nascosto in un portale con una donna in una giornata torrida di paese, con il frinire delle cicale affermare una simile roba, rivelazione fantastica, degna di Camilleri. Si apre un nuovo mondo, fortemente intrigante, materiale per un romanzo direi.
Una scrittura essenziale la tua, precisa,  studiata, piena di infinite strade che a seconda dei tratti portano a scoprire ulteriori sentieri, forieri di altri mondi vicini e tutti collegati fra di loro.
Piaciuto molto. Complimenti.
Spero di leggere molto altro di te.
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [MI186] Le solitudini imperfette

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Ciao, Alberto e grazie. 
Certo, l'ipocrisia e la doppia e tripla morale sono sottolineati dal racconto. Un mondo dove tutto è vietato, dove nulla si può fare, ma dove tutto si fa di nascosto, dietro le finestre al riparo di porte chiuse. Ho inserito quel zammù e quel Latisana, dalla Sicilia al Friuli, un po' per confondere e non lasciare intendere un luogo preciso, che va dalla Sicilia al Friuli passando dal Lazio e dalla Puglia. Volevo tentare un ritratto della provincia italiana senza dover sottostare alla dittatura della collocazione geografica che, mai come in Italia, ha il potere di classificare e definire soggetti e propositi, azioni e sentimenti. A leggerti ci sono riuscita solo in parte e credo che la responsabilità sia del linguaggio, forse troppo rivolto a Sud. Ma il nostro nord è stracolmo di meridionali che ormai si esprimono in una specie di pidguin che nasce dalla mescolanza e che è compreso pienamente solo nei luoghi ove si sviluppa. Ecco, il modello era quello. 

Re: [MI186] Le solitudini imperfette

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@Simona M.

Avevo intuito che volevi spaziare in diversi luoghi, nulla di male.
Ho vissuto in diverse parti d'Italia, fra cui anche il Friuli, nei pressi di Latisana, ecco perché mi è saltato subito all'occhio e capisco cosa intendi  per pidguin. Nella mia vita ho avuto diverse esperienze con dialetti italiani e  anche lingue straniere con le loro differenze dialettali locali, molto interessanti. 
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)

Re: [MI186] Le solitudini imperfette

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Ciao @Simona M. e bentrovata, te e il tuo racconto. Intelligente, velenoso e tenero allo stesso tempo, in poco più di tredicimila caratteri tutti i Vorrei ma non posso, potrei ma non voglio di un mondo guizzante di vita.
Struttura, lessico, persino il titolo, tutto m'è piaciuto. 
Brava (y)
https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/gia ... ataccia-2/
https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/gia ... /mens-rea/
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Re: [MI186] Le solitudini imperfette

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aladicorvo wrote: Ciao @Simona M. e bentrovata, te e il tuo racconto. Intelligente, velenoso e tenero allo stesso tempo, in poco più di tredicimila caratteri tutti i Vorrei ma non posso, potrei ma non voglio di un mondo guizzante di vita.
Struttura, lessico, persino il titolo, tutto m'è piaciuto. 
Brava (y)
@aladicorvo 
Ti ringrazio per il benvenuto. Eheheh, velenoso di certo e ci aggiungerei anche un bel rancoroso. Beh, in fondo siamo tutti un po' così sotto le belle facciate armoniose e a trentasei denti. La struttura alla Muccino prima maniera, di corsa e in presa diretta, è una gentile concessione del mio alter ego ben posato e amante di schemi classici. Ma per farsi conoscere ho pensato che il ritmo fosse indispensabile. Pochi concorrenti, ho scelto la traccia più semplice tra le tre, perché permetteva di non irrigidirsi su di un genere e lasciava spazio al fioccare di quella gamma di emozioni che più mi attira. Se non erro era la tua. Poeta Zaza è stata senza dubbio più coraggiosa e con un pizzico di tempo in più quello suo potrebbe divenire un ottimo racconto. Anzi, potrei anche tentare di scriverci su qualcosina io. Alberto è invece un'ottima penna. Il suo è per certi versi il migliore racconto della terna, ma forse gli mancava un po' di pepe.  
La prima partecipazione a un contest su Costruttori di Mondi è stata strana. Strana per l'assenza di partecipanti, strana perché non riuscivo a collegarmi al sito e ho postato ed eseguito i passi necessari solo grazie a una pagina rimasta aperta da cui grazie ai link sul campanellino sono riuscita a far quello che dovevo. 
Un ringraziamento di cuore a te per la preferenza e la bella traccia, ad Alberto per il voto e la stima nella sua recensione (oltre che per la sua traccia molto stimolante) e a Poeta Zaza per il coraggio e la disponibilità. Ma anche la gentilezza.  

Re: [MI186] Le solitudini imperfette

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Ciao @Simona M. 



Il racconto mi è piaciuto molto soprattutto per il suo contenuto narrativo.
Visto che per refusi e ortografia hai già ricevuto altri commenti, mi orienterò
a considerare il racconto per quanto esprime e comunica al lettore.


Questo racconto è un monologo interiore intenso, denso di emozioni, conflitti e rivelazioni, scritto in una lingua viva, colloquiale e intrisa di un forte senso di autenticità.
una narrazione che si sviluppa attraverso i pensieri e le riflessioni di una donna, Clé, che si trova in un momento di profonda crisi esistenziale e personale, e che culmina in un colpo di scena finale che ribalta le aspettative.


Temi principali


  1. Solitudine e crisi esistenziale: Il racconto si apre con un’immagine potente della protagonista, Clé, che si sveglia di malumore, sopraffatta da un senso di vuoto e insoddisfazione. La sua vita le appare come “buttata nella tazza del cesso”, un’espressione cruda che riflette il suo disprezzo per se stessa e il suo passato. La solitudine è un tema centrale: Clé si sente “pazzescamente sola”, un sentimento che permea ogni sua azione e pensiero, spingendola a cercare un contatto umano, anche solo attraverso uno sguardo, con Agostino.
  2. Conflitto tra desiderio e morale: Clé è una donna cattolica, apostolica e romana, ma il suo desiderio per Agostino si scontra con i suoi principi morali e religiosi. Questo conflitto è evidente nel suo timore del giudizio di padre Simon, il prete del paese, e nel senso di colpa che prova per i suoi pensieri peccaminosi. Tuttavia, il racconto suggerisce un progressivo rifiuto di queste imposizioni morali: Clé arriva a definire “minchiate” la religione, i santi e la Chiesa, un atto di ribellione che segna un’evoluzione del suo personaggio verso una liberazione dai vincoli imposti.
  3. Nostalgia e rimpianto: Il passato gioca un ruolo fondamentale nel racconto. Clé ricorda con nostalgia la sua giovinezza, quando era attratta da Agostino e si sentiva, nonostante la sua insicurezza, guardata da lui in modo speciale. Questi ricordi si mescolano al rimpianto per una vita che sente di non aver vissuto appieno, amplificando il suo desiderio di cogliere l’attimo con Agostino prima che sia “troppo tardi”.
  4. Identità e accettazione di sé: Clé è profondamente insicura del suo aspetto fisico, descrivendo le sue gambe “lunghe e un poco storte”, i denti sporgenti, la bocca stretta e gli occhi “scoloriti”. Questa insicurezza la accompagna fin dall’infanzia, quando veniva chiamata “la monaca” per la sua presunta vocazione religiosa. Il racconto esplora il suo desiderio di essere vista e desiderata, un bisogno che si scontra con la sua percezione di sé come poco attraente.
  5. Rivelazione e disillusione: Il colpo di scena finale, in cui Agostino confessa di essere attratto dagli uomini, rappresenta un momento di disillusione per Clé. Le sue speranze romantiche e il desiderio di connessione vengono infranti, ma la confessione di Agostino è anche un momento di vulnerabilità condivisa, che sottolinea il tema della solitudine universale. Entrambi i personaggi, pur in modi diversi, si sentono incompresi e isolati.


Stile narrativo


Il racconto è scritto in prima persona, con un flusso di coscienza che immerge il lettore nei pensieri più intimi di Clé. Lo stile è colloquiale, ricco di espressioni dialettali e di un linguaggio schietto, a volte volgare, che riflette la sincerità e la visceralità delle sue emozioni. L’uso di termini come “minchiate”, “pazzescamente” e “scimunito” dà al testo un sapore autentico, radicato in un contesto rurale e popolare, probabilmente del Sud Italia, come suggeriscono i nomi (Sant’Eustachio, Sant’Isidoro) e i riferimenti culturali (Carnevale, messa domenicale).
La narrazione è frammentata, con frasi lunghe e spezzate da incisi, che rispecchiano il caos interiore di Clé. Questo flusso di pensieri è interrotto solo dai dialoghi, che però sono riportati in modo indiretto, come se fossero filtrati dalla percezione della protagonista. La punteggiatura e la sintassi irregolare contribuiscono a creare un ritmo incalzante, quasi febbrile, che accompagna l’escalation emotiva del racconto.
Un elemento stilistico degno di nota è l’umorismo amaro che permea il testo. Clé si prende in giro, ironizza sulla sua vita e sul suo aspetto, ma questo umorismo nasconde un profondo senso di dolore e insoddisfazione. Anche il ritratto di padre Simon, descritto come un “pederasta maligno” con una “malalingua”, aggiunge una nota satirica che critica l’ipocrisia religiosa.


Personaggi


  • Clé: La protagonista è una donna complessa, tormentata da insicurezze e desideri repressi. La sua voce narrante è il cuore del racconto, e attraverso di lei il lettore percepisce il peso di una vita insoddisfacente e il desiderio di riscatto. Clé è un personaggio universale, che rappresenta chiunque si sia mai sentito inadeguato o escluso, ma è anche profondamente radicata nel suo contesto culturale e sociale.
  • Agostino Caloscurò: Agostino è il simbolo di un ideale irraggiungibile per Clé, un uomo che incarna bellezza, successo e forza. Tuttavia, la sua confessione finale lo rende umano e vulnerabile, rivelando che anche lui vive una solitudine simile a quella di Clé. La sua omosessualità, nascosta in un contesto tradizionale e probabilmente ostile, aggiunge un ulteriore strato di complessità al personaggio.
  • Melissa e Agatina: Sebbene siano personaggi secondari, rappresentano il mondo esterno che opprime sia Clé che Agostino. Melissa, la moglie di Agostino, è descritta come frivola e incapace di comprenderlo, mentre Agatina, la figlia, incarna la superficialità della modernità, con le sue aspirazioni da influencer. Entrambe servono a evidenziare il senso di alienazione dei protagonisti.
  • Padre Simon: È una figura caricaturale, un prete ipocrita e moralista che incarna l’oppressione religiosa. La sua presenza nel racconto serve a rafforzare il conflitto interiore di Clé e a criticare l’istituzione ecclesiastica.


Contesto


Il racconto è ambientato in un piccolo paese, probabilmente del Sud Italia, dove le dinamiche sociali e religiose sono ancora molto radicate. La messa domenicale, il sagrato della chiesa e il Carnevale suggeriscono un contesto tradizionale, in cui la comunità ha un peso significativo nella vita dei singoli. Tuttavia, il riferimento a TikTok e alle ambizioni da influencer di Agatina introduce un elemento di modernità, creando un contrasto tra il mondo tradizionale di Clé e Agostino e quello più superficiale e globalizzato delle nuove generazioni.

Impatto emotivo


Il racconto è un viaggio emotivo che passa dalla malinconia alla speranza, fino alla disillusione finale. La narrazione cattura il lettore grazie alla sua sincerità e alla capacità di rendere universale il dolore di Clé. La confessione di Agostino, pur essendo un colpo di scena, non è solo un momento di shock, ma un’occasione per riflettere sulla complessità delle relazioni umane e sull’impossibilità di conoscere davvero gli altri. Il finale lascia un senso di amarezza, ma anche di empatia: Clé e Agostino, pur non potendo realizzare i loro desideri reciproci, condividono un momento di vulnerabilità che li rende più vicini.

Conclusione


Questo racconto è un ritratto potente e struggente di una donna in lotta con se stessa, con i suoi desideri e con le aspettative della società. Attraverso uno stile vivido e un linguaggio che mescola ironia e dolore, l’autore esplora temi universali come la solitudine, il desiderio e l’accettazione di sé, collocandoli in un contesto locale che aggiunge autenticità alla narrazione. Il colpo di scena finale, lungi dall’essere un semplice espediente narrativo, arricchisce il racconto di un ulteriore livello di complessità, invitando il lettore a riflettere sulla natura dell’amore, dell’identità e della connessione umana. È una storia che, nonostante la sua brevità, lascia un’impronta duratura per la sua intensità e la sua capacità di parlare al cuore.

Complimenti a presto rileggerti. (y)

Re: [MI186] Le solitudini imperfette

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[font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Beh, mai letta una recensione tanto precisa ed esauriente. Ti faccio i miei complimenti, hai scritto una sorta di metatesto partendo dal mio. Viene quasi il dubbio che tu lo faccia per mestiere. [/font]
L'unico appunto che mi sento di farti è che le vicende narrate non si svolgono in un remoto paesino del Sud, ma in una splendida realtà del Nord. 
A rileggerti, e grazie.

Re: [MI186] Le solitudini imperfette

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Simona M. wrote: [font="Open Sans", "Segoe UI", Tahoma, sans-serif]Beh, mai letta una recensione tanto precisa ed esauriente. Ti faccio i miei complimenti, hai scritto una sorta di metatesto partendo dal mio. Viene quasi il dubbio che tu lo faccia per mestiere. [/font]
L'unico appunto che mi sento di farti è che le vicende narrate non si svolgono in un remoto paesino del Sud, ma in una splendida realtà del Nord. 
A rileggerti, e grazie.
Perdonami, non sono insolito a questi errori.
Ancora complimenti  (y)

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