La svolta
Ero sposato da più di vent’anni, avevamo una figlia, ormai ventenne anche lei.
Da due anni avevo un’amante segreta dell’età di mia figlia.
Con lei facevamo sesso senza implicazioni sentimentali, solo un possesso di corpi, senza impegnare le anime.
Amavo mia moglie, non avevo intenzione di rompere il nostro matrimonio, né di abbandonarla per un corpo più giovane.
Questo, in parte, mi liberava dal senso di colpa del tradimento.
Con mia moglie andava bene, con la mia amante, idem.
La mia vita professionale procedeva spedita, il futuro si mostrava allettante.
Avrei potuto invecchiare, mettendo la firma a questa situazione esistenziale.
Tutto pareva filare senza problemi, tutto tranquillo, nessuna tensione.
Una situazione ideale. Troppo ideale per durare.
Dirigevo l’ufficio pubblicità di un’azienda con sede in una traversa di Corso Unione Sovietica.
Una piccola via, costeggiata per tutta la lunghezza dal ramo ferroviario, tra la stazione di Porta Susa e quella di Porta Nuova.
Di là dalla ferrovia, una via parallela, gemella per lunghezza, ospitava due palazzi di tre piani ciascuno: condomini di edilizia popolare.
Bruna l’avevo conosciuta quando ancora abitava con i suoi, in uno di questi edifici.
Avendo un lavoro, si era trasferita a vivere da sola, in una traversa di Corso Unione Sovietica, in un piccolo alloggio arredato come una bomboniera, a meno di un chilometro dalla casa paterna.
Me ne aveva parlato solo quando aveva completato la sistemazione.
Entusiasta, mi ci aveva portato: l’arredo era minimale, ma questo non importava; la cosa eclatante era avere un nostro nido d’amore, dimenticando gli anonimi alberghetti a ore della collina o il sesso in macchina.
Era molto orgogliosa, e se avessi offerto di contribuire alle spese si sarebbe certo offesa.
Avevo scelto di dotarla di utili e costosi elettrodomestici e qualche tela d’autore per decorare le pareti.
Qualche volta mi invitava a pranzo da lei: era felice di cucinare per me.
Credo amasse quel clima di coppia ufficiale, pur non essendolo.
Bruna era carina, non bellissima, come molte ragazze della sua età baciate dalla giovinezza.
In un confronto, mia moglie ne sarebbe uscita trionfante per avvenenza e fascino.
Mi chiedevo: perché la stavo tradendo?
Oggettivamente, non ricavavo da quella relazione qualcosa che mi mancasse nella mia vita matrimoniale.
Anche il sesso non aveva aspetti più motivanti; era solo il possedere un corpo diverso.
Ritenevo che la ragione fosse narcisistica: essere ancora ambito da una donna con metà dei miei anni.
Mi convincevo che, in fondo, un tradimento solo fisico non fosse tanto grave come male in sé.
Quasi ogni sera, dopo il lavoro, passavo da lei per un’oretta: la trovavo ad attendermi con la gioia negli occhi.
Non sempre facevamo l’amore, non ne sentivamo più l’urgenza, sapendo di poterlo fare con comodo quando ne avevamo voglia.
Si premurava, sollecita geisha, di farmi trovare un aperitivo con due tartine o una bibita fresca per dissetarmi.
Mi coccolava come una chioccia col suo pulcino, ci teneva a farmi stare bene quando eravamo insieme, e questo dava la misura di quanto tenesse a me.
Talvolta mi sentivo in colpa, come se prendessi più di quanto dovuto, dando poco in cambio, come un profittatore o un ladro.
Durante le nostre chiacchierate a letto, mi aveva chiesto:
-
- Ami ancora tua moglie, anche se fai sesso con me?Domanda delicata, ma avevo risposto sincero: - Sì, lo sai. Te l’ho sempre detto. Che noi si scopi non cambia la cosa.
-
Era rimasta in silenzio, poi aveva aggiunto: - Per me cosa provi?La domanda era insidiosa.
-
- A te tengo molto. Sarebbe impossibile dopo tutto il tempo che stiamo insieme.
-
- Quindi ami anche me?
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- No, è diverso. Amore è una parola che uso solo con mia moglie. Con te è un sentimento importante, ma diverso.
-
Dopo una pausa, aveva replicato: - Allora vuol dire che mi vuoi bene?
-
- Certo, diciamo che ti voglio bene.
-
- Sai – disse a bassa voce – a volte un “ti voglio bene” può significare un “ti amo”.
-
Si strinse a me, accoccolandosi tra le mie braccia, felice di un dono desiderato a lungo.
-
- Io posso chiamarti “amore”? – chiese.
-
La cosa mi pareva prendere una china pericolosa.
-
- Ok, se ti fa piacere, chiamami come vuoi.
-
L’avevo baciata per chiudere l’argomento.
-
- Me lo fai un regalo? - Se posso, molto volentieri. Cosa desideri?
-
- Solo che ogni tanto mi dicessi un “ti amo”. Non importa che lo pensi davvero. Ma sentirtelo dire mi farebbe felice.
Dovevo abbassare il vetro per darle l’ultimo bacio di saluto.
Era una sciocchezza, un vezzo, ma dava l’idea di quanto amasse prolungare il momento del nostro distacco.
Da questi segni temevo che la nostra relazione si stesse complicando; intuivo che il suo affetto stesse mutando in qualcosa di più profondo e pericoloso: l’amore.
Questo era un danno; l’amore avrebbe potuto generare disastri dall’esito esiziale.
Iniziavo a chiedermi se non fosse giunto il momento di scrivere la parola fine alla nostra storia.
Con questi pensieri cupi, iniziavo a guardarla come un possibile pericolo per la mia famiglia e, più in generale, per la mia vita.
Ma facevamo l’amore, e finivo col ridimensionare le mie ansie.
Nei suoi occhi trovavo solo uno sguardo innamorato e mite, così mi alzavo dal nostro letto rincuorato e con una visione meno oscura del futuro.
Una sera in cui Bruna era ospite a cena dai suoi genitori, come altre volte mi aveva chiesto la cortesia di accompagnarla fin da loro.
L’avevo fatto volentieri; per altro pioveva a dirotto, non le avrei permesso di arrivarci a piedi.
Il traffico era congestionato: gente che col sole sfrecciava in città a centocinquanta all’ora, con due gocce di pioggia diveniva bradipo timoroso.
Fumavo un mezzo toscano col finestrino abbassato di un terzo; Bruna, al mio fianco, nel suo impermeabile bianco, giocava con l’alzacristalli nel tentativo di eliminare la condensa sul suo finestrino; la radio passava un pezzo rock.
Nel procedere a passo d’uomo, finalmente eravamo prossimi alla destinazione.
Il traffico sul controviale era più esiguo e rapido di quello sul corso; molti lo sceglievano, abbandonando la coda del primo.
Vi ero entrato anch’io per raggiungere l’angolo della via in cui abitavano i genitori.
C’era un bar su quell’angolo, nel quale mi fermavo a mangiare un panino quando ero di fretta col lavoro.
Sulla facciata, in corrispondenza dell’accesso al locale, vi era, al primo piano, un lungo balcone che faceva da tettoia all’esercizio.
Tre clienti erano fermi lì sotto a fumare una sigaretta, riparati dalla pioggia.
Nell’auto ci eravamo dati un bacio di saluto; poi Bruna, recuperato il suo ombrellino pieghevole e la sua borsa dal sedile posteriore, si era accinta a uscire.
Scesa dall’auto, si era cimentata nella consueta circumnavigazione per prendersi l’ultimo bacio al mio finestrino.
Nell’attenderla, mi ero voltato ad abbassare il volume della radio, distogliendo per un attimo lo sguardo.
In quell’istante, lo stridio di una frenata, seguito da un colpo sordo alla mia sinistra, mi aveva fatto voltare di scatto.
Poi tutto prese ad avanzare nello slow motion di una moviola.
Nella sequenza rallentata, una sagoma bianca si librava in aria, in una posa innaturale, come un fantoccio di pezza.
Un ombrello pieghevole e una borsetta accompagnavano il volo.
La sagoma aveva compiuto una giravolta su di sé, per accasciarsi davanti al cofano della mia auto.
Ero pietrificato; nella mente esplodeva un urlo muto: “Bruna!”.
Mille aghi di ghiaccio mi trafiggevano il cervello.
L’auto della frenata e dell’urto aveva indugiato un attimo davanti al bar, poi era ripartita con un’accelerata rabbiosa.
Nel parabrezza, le sagome tremolanti dei tre uomini, con le mani ai capelli, si erano mosse, sconvolte, verso il corpo a terra.
Tutto si era chiuso in pochi secondi.
Nel tempo di un respiro ero fuori, in ginocchio, accanto al corpo di lei.
Bruna, col viso rivolto a terra e le braccia stese lungo il corpo, sembrava minuta come una bambina, avvolta nell’impermeabile madido di pioggia.
Non si muoveva, non si lamentava; un fiore rosso di sangue, che l’acqua dissolveva, le sorgeva sotto il viso.
L’orrore mi stordiva; i tre uomini, chinati accanto, non parlavano; ne avvertivo la presenza senza guardarli.
Le scostai dalla fronte i capelli intrisi d’acqua.
Aveva la bocca piena di sangue filamentoso, forse labbra spaccate nella caduta o denti rotti.
Speravo ardentemente che quella fosse la causa e non il segno di una lesione interna.
Era immobile, pareva non respirare; l’idea del peggio mi atterriva.
“Dio, no! Ti prego, Dio, questo no!”, pregavo.
-
- Roberta! – la chiamavo, sfiorandole il capo, tremante. - Roberta, respira, ti prego.
-
Aveva emesso un gemito soffuso: “È viva – pensavo – Dio, ti ringrazio. È un miracolo.”.
-
- Roberta, parlami, come ti senti?
-
Respirava con fatica, sputò un grumo vivido di sangue.
-
- Ho male. Al petto, al braccio, al fianco – bisbigliò dolorante.
-
- Amore, sono qui. Non muoverti, ti prego. Ora chiamo un’ambulanza.
-
- Ho paura, non lasciarmi – tornò a biascicare disperata.
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- No, amore, sono qui.
-
Uno degli uomini mi aveva detto che uno di loro, dal bar, stava chiamando il 118.
-
Lo ringraziai; ero in panico, pioveva a dirotto.
-
Ricordavo che nel bagagliaio dell’auto tenevo un plaid e un telo di plastica, utile se avessi dovuto inginocchiarmi per cambiare una gomma forata.
-
Ero corso a recuperarli, avevo acceso i blinker per segnalare la sosta e posizionato il triangolo d’emergenza alcuni metri dietro la macchina.
-
Mi ero tolto la giacca, piegandola, per farne una sorta di cuscino da posare sotto il capo di lei.
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L’avevo coperta col plaid e steso il telo su di lei per ripararla dall’acqua.
-
Mi ero rannicchiato accanto, tenendole la mano sul capo per farle sentire che c’ero.
-
Avevo pensieri lugubri, temevo avesse un’emorragia interna o una lesione spinale; ogni secondo trascorso pareva un’eternità.
-
L’uomo di poco prima mi aveva dato il suo biglietto da visita: - Tenga – aveva detto – le lascio il mio nominativo e il telefono. Sul retro le ho appuntato la targa di quel criminale. Mi chiami per la denuncia, se servirà un testimone.
-
Ringraziandolo, avevo messo in tasca il biglietto. - Quella bestia andava a ottanta all’ora sul controviale – aveva detto. – Chissà dove guardava quel pazzo.
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Erano trascorsi una decina di minuti quando la sirena dell’ambulanza si era udita alle nostre spalle.
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Oltre il corso sorgeva l’Ospedale Mauriziano; facile provenisse da lì, avevamo avuto fortuna.
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- Amore, c’è l’ambulanza. Coraggio, ora finisce tutto.
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Dall’ambulanza erano scesi due sanitari che, con efficienza, si erano apprestati al corpo di lei.
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Con perizia avevano rilevato i parametri vitali, l’avevano dotata di mascherina per l’ossigeno e di un collare rigido, a scanso di lesioni cervicali.
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’avevano adagiata su una tavola spinale e sulla barella mobile.
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Aveva risposto con fatica alle domande di procedura per accertarsi che fosse vigile.
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A loro avevo lasciato i dati necessari e il numero telefonico dei genitori, per avvisarli dell’incidente e del luogo di ricovero.
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Prima che partissero, mi ero avvicinato a lei sulla lettiga del veicolo.
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- Amore, ti portano all’ospedale e tutto andrà bene – l’avevo rassicurata
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- Ho paura. Non lasciarmi sola – aveva risposto.
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- Non ti lascio, amore. Ti portano al Mauriziano. Ho chiesto di avvisare i tuoi.
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- Vieni anche tu – invocò con un filo di voce.
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- Ti seguo, amore. Vengo al pronto soccorso.
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L’ambulanza, con sirena e lampeggianti accesi, era ripartita, alzando scie d’acqua sul controviale.
-
Il tipo del biglietto da visita si era fermato; eravamo fradici d’acqua come due naufraghi.
Credeva che Bruna fosse la mia ragazza; mi aveva udito chiamarla più volte “amore”, ovvio lo pensasse.
L’avevo ringraziato con una stretta di mano nel salutarci.
Avevo recuperato la giacca, il plaid e il telo di plastica, riposto il triangolo d’emergenza in macchina.
Tremante di freddo e dello shock subito, avevo avviato il motore.
Per ritrovare il controllo e calmarmi, mi ero acceso mezzo sigaro.
Ero uno straccio; quel mio stato e il ritardo nel rientro a casa mi assillavano.
Pensai che, anche al pronto soccorso, non sarebbe stata una cosa rapida: radiografie, TAC, magari necessitava di ingessature, o che non dovesse subire un intervento chirurgico.
Che casino. Mi colse lo sconforto.
E se fosse morta, per qualche grave danno subito o durante l’intervento?
Tutto, al momento, era drammaticamente possibile.
Iniziarono a scendermi lacrime di tensione e dolore.
Quel bastardo l’aveva investita mentre veniva a prendersi il mio ultimo bacio.
Pazza ossessione di una bambina innamorata, giocarsi la vita per un mio bacio.
Piangevo per essere stato la ragione di quest’ultimo orrore.
Se fosse morta, sarei stato il suo carnefice.
Il sigaro si era consumato tra le dita; mi riscossi.
Presi il biglietto da visita, lessi il nominativo dell’uomo e la targa: non era una macchina della regione.
Se fossi andato all’ospedale, avrei dovuto passarci la notte.
Non era facile inventarmi qualcosa così, all’improvviso, per un’assenza del genere.
All’ospedale sarebbe venuto fuori che avevo visto l’incidente; avrei dovuto firmare un verbale dei vigili urbani o della polizia stradale.
C’era un ferito grave, una fuga con omissione di soccorso, un reato serio; la cosa entrava nel giudiziario.
In caso di processo e di pratiche di risarcimento, sarei stato chiamato in causa come testimone principale.
Tutta la dinamica della cosa sarebbe stata resa pubblica; mia moglie ne sarebbe stata informata nei dettagli.
Sarebbe venuto fuori che Bruna era in macchina con me a quell’ora, che eravamo intimi; mi avevano sentito chiamarla “amore”.
La notizia, forse, sarebbe apparsa sulla cronaca cittadina.
A maggior ragione, che Dio non lo volesse, se fosse morta.
Si sarebbero informati su come erano andate le cose; avrebbero sentito i testimoni del bar e i tre uomini.
Nel bar ero conosciuto, lo frequentavo da anni.
Sapevano chi fossi, della mia azienda al di là della ferrovia.
Conoscevano il mio ruolo, il mio nome e la mia macchina.
Qualcuno avrebbe certo ricordato di avermi visto lì davanti con Bruna diverse volte.
Lei in macchina con me, a quell’ora di sera, non potevo giustificarla.
In ospedale, non avrei potuto sostenere di averla soccorsa senza conoscerla.
Era un casino serio; se fossi restato a farle compagnia, trovando una scusa convincente con mia moglie, alla fine, la storia sarebbe comunque venuta fuori.
Restare con Bruna quella sera significava rinunciare a mia moglie, a mia figlia, al matrimonio.
Tutta la mia esistenza era un castello di menzogne che crollava; mi sentivo un topo in trappola.
Posai il biglietto da visita sul sedile accanto.
Avviai la macchina per raggiungere l’incrocio e immettermi sul corso; dovevo scegliere se svoltare verso l’ospedale o proseguire verso casa.
Le lacrime riempivano gli occhi, quasi non vedevo la strada.
Il semaforo era rosso.
Il tetto dell’auto tamburellava per l’acqua battente.
Bruna o mia moglie e la mia famiglia.
Svegliandosi dai narcotici, mi avrebbe cercato.
Cercandomi, avrebbe compreso che non l’avevo seguita.
L’avevo lasciata sola, abbandonata.
Si sarebbe sentita devastata dal dolore e dalla delusione.
Avrebbe pensato che fossi uno stronzo, un bastardo.
E questo era quello che ero sempre stato.
Presi il biglietto da visita.
Nel calare il finestrino, una sferzata di pioggia gelida mi investì il volto.
Per il ritardo e gli abiti fradici, avrei detto di essermi fermato per cambiare una gomma forata.
Il biglietto appallottolato giaceva sulla strada.
Al verde, avevo svoltato lungo il corso.