Traccia n° 1: Tutto può capovolgersi
Aurelio Giangrandi si era appropriato con il suo solito rituale circospetto di una poltrona di vimini sotto il terrazzo coperto e si accingeva a leggere il giornale, quando vide una piccola folla entrare nel salone dell’ospizio. C’era una valigia, ne dedusse trattarsi di un nuovo ospite. Mise gli occhiali per lontano, facile indovinare chi poteva essere il nuovo inquilino: c’era solo una candida vecchina che guardava dal basso in alto ora uno ora l’altro due giovanottoni barbuti che le sorridevano confortanti, di certo i figli, con avvinghiate al loro fianco due donne, le mogli, l’aria abbastanza scocciata e i tacchi schioccanti sul pavimento appena passato a cera.
Aurelio seguì dalla sua poltrona tutti i preamboli, dall’accoglienza della direttrice e successivo invito nel suo ufficio, brevissima permanenza e uscita con accompagnamento al primo piano dov’erano le camere. Aurelio si accodò senza darlo a vedere, era curioso quando arrivavano nuovi ospiti. Alla nuova arrivata fu assegnata una camera singola.
Nei giorni seguenti Aurelio seppe che la donna era di poco più giovane di lui e che si chiamava Gabriella Soldani.
Quel nome gli rievocò qualcosa, ricordi immersi in una nebbia, dopo ottanta e più anni ormai. Quel nome gli diede l’impressione di cominciare ad addentrarsi nella muraglia oltre la quale stavano i ricordi.
Si sentiva agitato, cercava di concentrarsi, specie la notte, ma Armando, il suo compagno di camera, russava come un trombone e non ci riusciva.
Nella mensa dell’ospizio andò a sedersi il più vicino possibile a Gabriella, eludendo la sorveglianza di Lukas, un energumeno di due metri fuggito dalla guerra e dalla fame nel mondo per venire a strattonare i vecchietti in un ospizio, in cambio di uno stipendio.
Aurelio riteneva di avere un’età che gli consentiva di dire quello che pensava davvero di ciò che vedeva intorno a lui. Che potevano fargli? Soltanto toglierlo di mezzo. Tanto, non aveva più nessuno al mondo. Ma contava sul fatto che ci tenessero ancora a incassare la sua pensione all’ospizio, più i contributi statali.
Ma Gabriella lo interessava. Oh, non perché ci fosse il colpo di fulmine, no. Quelle stupide storie di ottantenni che si innamorano e che vedeva alla televisione per far ridere la gente. No. Niente del genere. Quel cognome.
Piano piano riuscì a entrare un po’ in confidenza con la donna, ci volle un po’ perché i primi tempi lei aveva ancora la testa alla sua casa.
─ Ma sai: avevano bisogno di spazio, io avevo quasi un appartamentino, i ragazzi volevano una cameretta e uno studio…
─ Certo, certo ─ assecondava Aurelio.
─ Poi verranno a trovarmi: mi basta vederli e sapere che stanno bene.
─ Certo, certo ─ annuiva pensieroso Aurelio chiedendosi per l’ennesima volta che senso avesse vivere così.
Per un po’ i parenti vennero a trovarla, poi le visite cominciarono a diradarsi, a limitarsi alle feste e talvolta nemmeno a quelle.
─ Hanno tanto da fare. I nipoti studiano, i ragazzi lavorano… Non hanno sempre tempo.
─ Ehh! Capita! Capita ─ asseriva Aurelio.
─ È successo così anche a te?
─ Anche a me.
Ma Aurelio non raccontava la sua vita. Gabriella era del posto come lui, aveva vissuto in diversi paesi del circondario con il marito professore che poi era morto una ventina d’anni prima. Era sicuro di non averla mai incontrata, ma il cognome Soldani gli ricordava qualcosa. Senz'altro.
Cominciò ad avere degli incubi. Un paio di volte si svegliò urlando in un bagno di sudore. Sognava di trovarsi sulle rive di un fiume dove galleggiava qualcosa. Forse qualcuno. Ma non riusciva a vedere. Non voleva.
Avvenne una svolta.
Un giorno si sentì del trambusto negli alloggi, Gabriella veniva accompagnata fuori dalla sua camera singola e assegnata a una camera doppia. La vecchina seguiva stupita e obbediente Lukas che la dirigeva nei corridoi come una bambola, trascinando la sua valigia.
─ È per avere compagnia e poi mi sentivo sola. Almeno scambio un paio di chiacchiere ─ disse Gabriella in mensa ad Aurelio, intento a inzuppare crostini nel minestrone.
─ Giusto, giusto. Basta che la tua compagna non russi, eh!
I due si erano messi a ridere, complici. Era bello ridere vicino a un'altra persona.
Aurelio per scendere al piano terra usava spesso l’ascensore, ma quel giorno decise di scendere le scale per fare un po’ di esercizio, erano solo una rampa. Vide incastrato qualcosa tra le ringhiere, un pezzo di carta.
Lo prese e vide che si trattava di una vecchia foto in bianco e nero che ritraeva un bambino d’altri tempi con occhi scuri, il grembiule nero della scuola e un enorme fiocco sul petto. Dietro c’era una scritta con la stilografica: Martino Soldani, il mio fratellino. 1949.
─ Glielo dico sempre di prendere l’ascensore. Gli sforzi possono…
─ Ma lasciatemi stare! Sto benissimo! Piuttosto aiutatemi ad alzarmi! Cosa è successo? ─ sbraitava Aurelio che non riusciva a capire perché fosse sdraiato a terra con tutta quella gente intorno.
─ Devi avere avuto un calo di zuccheri, per fortuna che eri già arrivato alla fine delle scale. Stai così Aurelio, abbiamo chiamato il dottore ─ disse una ragazza assistente.
─ Non voglio dottori!
─ Stai giù ─ gli disse dolcemente Lukas inchiodandolo a terra con un sorriso che voleva essere gentile.
Venne il dottore, si appurò che non aveva niente di grave, fu fatto alzare e accompagnato nella sua camera.
Aurelio si guardò intorno ma non trovò la foto. Chiese se qualcuno l’avesse vista.
─ Me l’hanno data ─ disse Gabriella avvicinandosi, tenendola in mano. Era caduta da una scatolina mentre cambiavo camera, non me ne ero accorta. Ti ringrazio per averla trovata. Mi dispiace per la caduta. Stai…
─ Sto bene. Ma chi è quel bambino?
─ Oh! ─ disse Gabriella con uno sguardo dolce alla foto.
─ Mio fratellino. Era più grande di me allora.
─ Dov’è adesso?
─ Morì qualche mese dopo la foto.
─ Oh! Mi dispiace. Come morì?
─ Annegò nella Columbrunella durante una gita scolastica… Santo cielo! Che hai? Aiuto! Aiuto!
─ Questa volta dovrai stare a letto! ─ disse la direttrice, la dottoressa Zambon. ─ Il dottore ha detto che devi stare a letto, capito? Ti abbiamo prenotato per una tac all’ospedale, ma si dovrà aspettare. Ci andrai con l’ambulanza. Se ti alzi prima Lukas ti riporta a letto!
Aurelio si assoggettò a tutto quello che gli dicevano di fare, purché lo lasciassero in pace e gli permettessero di pensare. Si accorgeva che, distratto da quelle persone non riusciva a pensare.
Gabriella veniva a fargli visita, gli portava il giornale e del the preso alla macchinetta automatica nell’androne.
─ Però non berlo subito: è troppo freddo. Come ti senti?
─ Abbastanza bene.
─ Ma ti ha turbato la foto forse? Perché?
Aurelio rimase soprapensiero. Guardò Gabriella negli occhi ─ Molto semplice: conoscevo Martino. Adesso non essere tu a sentirti male eh! Ne ho abbastanza di questi vecchi e di quest’ospizio!
Gabriella si era seduta su una sedia vicino al letto, visibilmente pallida.
─ Dimmi: come lo conoscevi?
─ Stessa età. Stessa scuola. Stessa classe. Eravamo compagni di banco. Sono passati quasi ottanta anni, avevo dimenticato il nome, ma sentendo come ti chiami qualcosa mi è tornato in mente. Pensavo di non riuscirci, ormai... Un muro… ─ disse mettendo una mano avanti come a toccare qualcosa. ─ Ma ci sono riuscito. Non credevo ma… ci sono riuscito.
─ Ma tu c’eri quando è annegato?
─ No. Ero nella gita con gli altri. Lui… Non mi hanno fatto vedere niente.
─ Ma com’è successo? Non abbiamo mai saputo davvero, ci dissero che si era allontanato, che era scivolato. Un grande dolore per mio padre e mia madre! E per me! Lo ricordo ancora! Era il mio fratellino.
─ Posso solo immaginare, Gabriella.
─ Vedo che sei affaticato. Tornerò quando starai meglio e se ti va mi parlerai di Martino. Ne sarò contenta, ma solo se ti andrà. Non è giusto che soffri anche tu.
Quando Gabriella se ne fu andata Aurelio sospirò.
Chiuse gli occhi. Era tutta la vita che soffriva con quella sensazione. Per molti anni aveva ricordato il nome e il cognome del suo compagno di banco. Poi lo aveva dimenticato. O cancellato, o nascosto, che poi è lo stesso. Forse era intervenuto Dio per non farlo impazzire. Ma prima o poi Dio chiede il conto, e ora stava per chiederlo.
Aurelio si era sempre stupito di aver vissuto così tanto senza meritarlo, ma doveva esserci un motivo.
Rubò un quaderno e una penna dal comodino di Armando mentre dormiva, strappò e buttò nel cestino alcune pagine con disegni elementari di soggetti sconci, scuotendo il capo con uno sguardo di compatimento e si mise a scrivere.
Subito dopo aspettò l’orario delle visite, si vestì, scese le scale mischiandosi alla piccola folla di parenti e senza dare nell’occhio uscì dall’ospizio.
Non aveva molti soldi, prese un tram a caso senza pagare il biglietto, nessuno lo controllò. Viaggiò in piedi, i ragazzi e le ragazze che erano seduti avevano la testa china sui loro cellulari e non lo videro. Giunto in centro andò alla stazione dei bus, lesse i cartelli partenze. Trovò “Lido Columbrunella”, non era lontano e ci arrivava con i soldi. Durante il viaggio si avvolse nel suo giaccone, amava il caldo, ma si sentiva rabbrividire. Attraversando la città sentiva suoni di sirene, ambulanze, forse anche polizia. Cercava di rincantucciarsi nel suo posto per non farsi notare; di sicuro avevano già scoperto la sua assenza, il quaderno lasciato sul letto, con scritto a caratteri giganti su un foglio: “Urgente per Gabriella Soldani”.
Arrivò al capolinea del lido. In tutta la sua vita c’era passato tante volte, ma senza mai addentrasi sulle sponde, trasformate d’estate in una sorta di stabilimento balneare di fiume. Si addentrò nella piccola pineta fino a sbucare davanti all’acqua verde scuro.
C’erano alcune persone sedute, ragazzi, coppiette e qualche famiglia a prendere il sole di quella primavera. Ne fu infastidito. Ma non aveva più importanza. Camminò lungo la riva raccogliendo sassi levigati, quelli più grandi, mettendoli nelle tasche del giaccone. Rimase a guardarne uno, nero e lucido con venature rossastre. Era molto bello. Non lo prese, rigettandolo in acqua.
Qualcuno si divertì a vedere quel vecchietto strambo che si metteva i sassi di fiume nel giaccone.
Poi diverse persone si alzarono in piedi quando si accorsero che il vecchietto entrava nell'acqua, prima bagnandosi solo le scarpe, poi avanzando fino alle ginocchia, al petto e lasciandosi andare con le mani e la testa in alto, in silenzio.
Aurelio si guardò intorno e capì di essere in un ospedale.
─ Come si sente? ─ disse un ragazzo in camice bianco.
Aurelio lo guardò senza rispondere.
Si sentì rumore di passi, delle voci, persone si avvicinarono al suo letto. C’erano due carabinieri, uno con una cartella in mano, la direttrice dell’ospizio Zambon. C’era anche Gabriella, con la faccia affranta.
─ Hai letto il quaderno? ─ le chiese subito Aurelio.
Gabriella annuì tra le lacrime. Un carabiniere si mosse, nella sua cartella c’era il quaderno.
─ Bene ─ disse Aurelio. ─ Adesso sapete. Ho vissuto tutta la vita con la paura e il rimorso per quello che avevo fatto. Non sono stato nemmeno capace di farla finita, è giusto che paghi. È troppo giusto così. Sono tanto stanco. Mi arrendo.
Porse le mani, una bucata dall’ago di una flebo, per farsi arrestare. Un carabiniere gliele abbassò in silenzio.
Aurelio sorrise triste, scuotendo la testa. ─ Nemmeno capace a farla finita! Che uomo che sono! Avevo paura di ricordare, avrei dovuto andarmene prima. Ma sono un vigliacco. E sono davvero stanco, di tutto. Potevo salvare Martino. Potevo. Eravamo bambini. Ero arrabbiato con lui quel giorno perché aveva deciso di non essere più il mio compagno di banco. Voleva cambiare. Questo non lo sopportavo. Ci conoscevamo da sempre. Io… Ecco: sì! Io gli volevo bene e volevo che restasse sempre con me. Sempre. Eravamo bambini. Non ho spiegazioni per questo.
Gabriella piangeva.
─ Non ho spiegazioni, Gabriella. Ma potevo salvarlo! Camminavamo lungo il fiume, cercavo di convincerlo a non lasciarmi, lui correva felice senza ascoltarmi ed era scivolato sul bordo cadendo in acqua. Aveva allungato le mani verso di me, gridando di aiutarlo. Era convinto che lo avrei preso. Ma io non l’ho preso. Pensavo di fargli un dispetto, volevo solo spaventarlo, non l’ho aiutato. Non sapevo niente della morte e nemmeno lui, fino a quel momento. È andato sotto l’acqua piangendo, guardandomi con quei suoi occhi scuri, incredulo perché lo lasciavo morire. Lui aveva capito che stava morendo per colpa mia. Lo so. L’ho sempre saputo. Non ho mai più vissuto da allora. Ho fatto di tutto per cancellarlo dalla mia testa, di non pensare… Il suo nome… Ma certe cose rimangono dentro, ti tormentano, non ti fanno vivere. Sono sempre stato solo nella mia vita. Me lo sono meritato. Ora è giusto che paghi. Mi dispiace di aver fatto soffrire una famiglia. Mi dispiace di aver fatto soffrire te, Gabriella, di averti tolto il tuo fratellino. Sono rimasto solo anche io. Dovevo morire io, sono io che non funziono. Nessuno mi ha mai amato nella mia vita. Un anticipo della mia condanna. È stato giusto così. Non merito niente. Mi dispiace disturbarvi con la mia triste vita disgraziata.
Ci fu un lungo silenzio da parte di tutti nel vedere quel vecchio piangente e distrutto disteso sopra un letto che spostava lo sguardo su di loro, cercando disperato qualcosa.
[MI186] Un pianto dal passato
1Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)
(Apocalisse di S. Giovanni)