Camminare per non pensare

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[MI187 - Fuori concorso] L'inizio di tutto - Costruttori di Mondi


Camminare per non pensare

Camminare per non pensare, per liberare l’anima dalla zavorra dell’essere.
Camminare per temprare il corpo: perché lunga è la strada del gioiello di luce.
Camminare nel silenzio, per udire la melodia del flauto di Krishna:
il suono che creò l’universo
.”




Aveva quattordici anni quando scoprì lo yoga e la suggestione delle filosofie indiane.
Quella dimensione mistica, incontrata nelle pagine di un libro tascabile, lo colpì come una rivelazione interiore, una conversione senza religione.
Si sentì investito di luce, come nella Vocazione di San Matteo del Caravaggio, quando il Cristo chiama il santo nella penombra di un’osteria.
Si chiamava George Thozhuthumkavayalil Dharmarama: impossibile da pronunciare.
Tutti lo chiamavano semplicemente Giorgio, come lui preferiva.
Veniva dall’India, era un valente biologo e un maestro di yoga; all’epoca del loro incontro, aveva un’età stimabile intorno ai quarant’anni.
Era bruno, con un incarnato olivastro, una testa di capelli fitti e lucidi, tagliati corti e già brizzolati.
Possedeva un sorriso illuminante e una cortesia pari solo alla modestia e all’umanità dei suoi modi.
Rama è la settima incarnazione di Visnù, sostanza stessa del Dharma: il percorso della verità, la strada della perfetta conoscenza.
Il suo nome richiamava la via da perseguire per liberare l’uomo dal ciclo ininterrotto del Samsara, le perenni reincarnazioni.
Insegnava all’Associazione Italo-Indiana di Torino, al secondo piano di un’elegante casa d’epoca nel quartiere Crocetta: un’area di uffici notarili, studi legali, fiscalisti, banche d’affari e luminari della medicina con facoltosa clientela privata, la stessa che frequentava le sue lezioni.
L’interno comprendeva un numero sterminato di grandi stanze, con soffitti altissimi, lucidi parquet e vetrate cloisonné in stile Liberty.
Arredato in maniera sobria ed essenziale, con antiquariato di pregio e preziosi mandala colorati alle pareti, l’ambiente era impregnato dal profumo di cera al miele, usata per lucidare pavimenti e suppellettili, mescolato all’aroma degli incensi indiani che bruciavano in grandi piatti di terracotta.
All’interno di una delle grandi sale dell’Associazione, su una delle ampie pareti campeggiava, nelle tonalità del seppia, una grande gigantografia. Nell’immagine era raffigurato un vecchio guru indiano, con lunghi capelli e barba bianchi, seduto nella posizione del loto, con alle spalle un banyan (Ficus benghalensis), considerato una pianta sacra nella tradizione indiana.
Quel vecchio yogi era il padre di Giorgio.

Un impianto hi-fi diffondeva in ogni stanza un piacevole sottofondo di musica indiana; fu lì che sentì suonare per la prima volta un raga e conobbe Ravi Shankar.
Una pace di gesti e parole misurate regnava fra quelle stanze; un silenzio sereno e meditativo accompagnava l’esecuzione delle posture.
Il suono di quella musica soave colmava lo spirito e disegnava nella mente spazi di luminosa astrazione.
L’Associazione era frequentata dalla crema della buona borghesia torinese.
Egli comprese subito che la grande maggioranza dei frequentatori era attratta dall’idea di praticare una sorta di ginnastica salutista divenuta di moda, al pari dell’emergente voga vegetariana.
Lo yoga era più facile che seguire una dieta e meno faticoso del sudare in palestra o correndo nel parco; inoltre, faceva figo da matti.
Nulla a che vedere con le motivazioni che lo avevano condotto lì.
Quelle persone, all’apparenza modeste e disponibili, erano le stesse che parcheggiavano le loro Porsche Carrera in doppia fila davanti all’esclusivo bar Platti o, tirate a lucido, consumavano costosi cocktail esotici fra gli stucchi di Mulassano.
Le stesse che, incrociandolo per strada con i suoi capelli lunghi e l’eskimo, cambiavano marciapiede, evitandolo come un lebbroso.

Nel suo primo colloquio con Giorgio, gli rivelò che si era avvicinato allo yoga perché sognava un giorno di andare in Tibet e diventare un asceta in un monastero buddhista.
Giorgio sorrise con un’espressione dolce e indecifrabile.
Poi disse:

- Non so se potrò esserti utile in questo tuo obiettivo. Ma, se ti accontenti, posso insegnarti qualche utile asana, le tecniche di respirazione o come rilassare mente e corpo meditando. Per il resto, devi rivolgerti a Dio.
Come inizio non gli sembrò molto incoraggiante: aveva sperato, come si enunciava nei Veda, che fosse giunto per lui il momento di incontrare il suo Guru, colui che lo avrebbe guidato, con il suo saggio insegnamento, lungo la strada dell’illuminazione interiore per raggiungere il nirvana.
Ma pensò che i suoi insegnamenti tecnici fossero sempre meglio della pratica appresa da un libro e decise di restare.
Più avanti nel tempo, crescendo e maturando, comprese quanta saggezza e compassione “vedica” erano servite a quel sant’uomo per non scoppiare a ridergli in faccia.
Gli bastarono alcuni mesi per impratichirsi con gli esercizi fondamentali, poi decise di lasciare l’Associazione: era impossibile per lui sentirsi a suo agio in quell’ambiente di agiati borghesi che nulla avevano a che spartire con la sua condizione sociale e le motivazioni che lo avevano spinto in quel luogo.

Da quel momento dedicò ogni giorno almeno un’ora del suo tempo a eseguire le posture, ottenendo risultati che lo soddisfacevano e motivavano.
Non aveva soldi per comprare LP di musica indiana, quindi, sul piatto del vecchio giradischi a valigetta, per avere un sottofondo musicale mentre eseguiva gli esercizi, alternava due trentatré giri che possedeva: Emozioni di Lucio Battisti e Patty Pravo di Patty Pravo.
Usava i vari brani contenuti nei dischi come unità di tempo per i diversi asana.
Sicuramente non c’erano molti vagabondi del Dharma che impiegavano Il tempo di morire di Battisti o Per te della Pravo come sottofondi sonori per le proprie sessioni yogiche.

Aveva quella che si dice una crisi esistenziale.
Certe mattine, l’idea di entrare in classe al liceo gli appariva insopportabile.
Frequentava il secondo anno del Liceo Artistico, disegnava bene e amava le materie artistiche, meno quelle scientifiche che pure accompagnavano obbligatoriamente il programma di studio.
Ma non era quello il problema: in realtà, non si sentiva più parte della vita che stava vivendo, era un pesce fuor d’acqua che cercava di sopravvivere boccheggiando nell’aria.
Si sentiva alieno alla struttura sociale, al governo, al mondo occidentale.
Essere parte attiva di quella enorme macchina che produceva ricchezza a discapito della povertà di milioni di esseri umani gli creava un rifiuto interiore che non riusciva più a contenere.

A scuola sentiva di perdere il suo tempo di vita; doveva rompere la catena dei doveri e degli obblighi, impiegare la sua mente e i suoi sforzi nel ricercare la “liberazione” dal desiderio e dal bisogno di avere, per trovare il suo essere divino primigenio.
In conseguenza di questo stato interiore, molte mattine marinava la scuola.
Usciva di casa come se si recasse al liceo, ma non vi andava.
Fuori, vagava senza una meta precisa, a piedi o su un mezzo pubblico, alla scoperta di angoli ignoti della città in cui era cresciuto senza rivelazioni.

In quell’errare senza meta si estraniava, svuotava la mente e si lasciava trascinare come una foglia caduta dal ramo nel flusso della vita.
Saliva su un mezzo pubblico a caso e si lasciava trasportare fino al capolinea, osservando il paesaggio urbano che non aveva mai visto prima, con lo spirito di un turista in un viaggio nuovo.
Scopriva periferie della città che non aveva mai visitato, con occhi di forestiero o lo stupore di un bambino.

Certe volte sedeva sulle panchine della stazione a osservare quell’umanità ansiosa di destinazioni lontane che riempiva i treni in partenza.
Il gracchiare rauco degli altoparlanti, che annunciava gli inizi imminenti o il termine di viaggi, era la colonna sonora di quei momenti di sospensione dal presente.
Altre volte scendeva in riva al Po a seguire i voli dei gabbiani sull’acqua del fiume.
C’erano equipaggi di canottieri in allenamento sulle lance basse e filanti, che scivolavano leggere nella temperatura rigida di quelle mattine, fino alle cinque campate del Ponte Isabella, lasciandosi dietro, nel rigore dell’aria, scie bianche di fiati, come fumaioli di battelli in navigazione.
Quella situazione non poteva durare.
Presto avrebbe dovuto rendere conto di quel numero enorme di assenze, per le quali aveva già consumato tre blocchetti di libretti, con la firma di sua madre contraffatta a perfezione.
Quando sarebbe arrivato quel momento, sarebbe stato il “giorno del giudizio”.
Il pensiero di quella conclusione apocalittica gli sovveniva a tratti, rendendolo inquieto e talvolta togliendogli il sonno.

Non vedeva vie d’uscita: ormai il danno era irreparabile, e anche volendo non c’era più modo di rimediare. Confessare qualcosa per cui non provava alcun pentimento poteva solo abbreviare l’agonia, ma non generare salvezza.
Comprendeva la logica del tossico, ne capiva a fondo il letale meccanismo: conscio di uccidersi a ogni nuovo buco in vena, continuava in quel suicidio inevitabile, perché quel buco era la sua unica ragione di vita.

Sovente si immaginava come una pietra che precipitava nella tramoggia di un tritasassi che lui stesso aveva avviato.
Meglio chiudere gli occhi e spegnere la mente, vivere quel presente nella maniera più intensa: assistere alla fine senza emozione, come un eroico capitano che, dall’alto della plancia, guarda la sua nave affondare nei flutti senza abbandonarla.
Dicevano che si muore una volta sola, inutile quindi morire cento volte per la paura, nell’attesa di quell’unico momento.

Camminare respirando lentamente, accumulando Prana attraverso il ritmo: quattro-sedici-otto, mistico riverbero della vibrazione dell’Om.
Camminava ignorando la nebbia e il freddo, la pioggia quando veniva e gli bagnava il viso, inzuppandogli gli abiti e i capelli, perché non usava mai un ombrello.
Un monaco buddhista affrontava gli elementi climatici vestito solo del suo kaṣāya, il saio ocra che vestiva il Buddha, con la ciotola per l’eccedenza in una mano e il Mala, il rosario di centotto grani per recitare i mantra, nell’altra; il parapioggia non era contemplato dalla regola monastica.
Sua madre diceva che gli mancavano dei venerdì per bagnarsi in quel modo assurdo e che avrebbe pagato quegli stravizi in vecchiaia, quando l’artrite lo avrebbe reso invalido.
Nella, la ragazza che aveva e con la quale le cose andavano molto male, si prendeva gioco di lui, diceva che era scemo.
Lei era sportiva, con la squadra del suo liceo gareggiava nei cento metri piani. Era energica e atletica e considerava lo yoga una “stronzata da mammolette”.

Poi, una volta, l’aveva portata con sé al Valentino, alle otto del mattino.
Aveva nevicato per tutta la notte, e i prati del parco erano coperti di una neve vergine e farinosa, l’illusione di un paesaggio finnico nella luce cruda del primo mattino.
Le aveva chiesto di seguirlo, e lei l’aveva fatto senza chiedere la ragione: avevano lasciato le loro impronte, profonde più di venti centimetri, sulla coltre immacolata, tracciando un sentiero che saliva verso un rilievo del terreno.
Lì si erano trovati a sprofondare nella neve fino alle ginocchia, come cacciatori lapponi sulle tracce di un caribù.
In cima al dosso si era tolto il giaccone di montone rovesciato: sotto aveva solo un maglione portato sopra una T-shirt.
Lei sbuffava per il freddo e iniziava a essere molto irritata.
Non comprendeva la ragione di essere lì a battere i denti con quella temperatura sotto zero.
Senza dire una parola, lui aveva steso a terra il giaccone, calpestandolo per appiattire la neve sottostante.
Poi si era liberato del maglione, restando solo con la T-shirt, aveva sfilato gli stivali texani che portava ai piedi e li aveva posati al margine del giaccone.
Si era seduto sul giaccone a terra, assumendo la postura del loto.
Aveva giunto le mani in posizione di preghiera e iniziato una profonda respirazione Tummo, riempiendo i polmoni di ossigeno e dell’energia vitale presente nell’universo.

- Sei sicuro di sentirti bene? – aveva chiesto lei, sconcertata.
Lui aveva risposto con una pausa della respirazione:

- Benissimo, amore.
Era rimasta a guardarlo allibita, scuotendo scettica la testa.

- Ma non senti che freddo fa? Ti prenderai un accidente.
Le aveva sorriso e continuava l’esercizio di riscaldamento, senza risponderle.

Tra le pratiche di noviziato dei monaci tibetani vi è quella di meditare, alla temperatura di meno venticinque gradi, sulla superficie di un lago gelato durante l’inverno himalayano, coperti solo di un lenzuolo bagnato che, scaldando il corpo attraverso la respirazione Tummo, riescono ad asciugare su di sé.
Si dice che l’esercizio comporti l’asciugatura fino a venti lenzuola.
Quando aveva terminato la pratica, l’aveva invitata a posargli i palmi delle mani sul petto: la sua pelle era calda, le mani di lei gelide.
Leggendo lo stupore nei suoi occhi, divertito le aveva detto:

-Dai, spogliati e fai una delle tue corsette, può darsi che ti scaldi anche tu.

Questa strana situazione che stava vivendo aveva nel fondo due ragioni.
La prima, di ordine fisico, legata al suo rapporto con Nella; la seconda, di ordine spirituale, legata al suo rapporto col Dharma e il Buddha.

La prima l’aveva risolta nella primavera di quell’anno, lasciandola.
La seconda si è rivelata più complessa e la sta ancora cercando di risolvere, dopo quasi sessant’anni.

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