
Gli altri ora gli erano affianco. Si congratulavano. Videro le dita di Drakai, le unghie come punta di freccia. Lo squarcio nel ventre della bestia, la sua lingua una bistecca informe tra i denti acuminati. Gli occhi morti.
Grande Drakai, grande.
La bestia era il lupo, un grosso lupo grigio che aveva predato un bambino del villaggio. Erano in pieno inverno, sarà stato molto affamato. Ritrovarono le ossa scheggiate e le cartilagini giallastre del piccolo poco fuori le ultime capanne. La testa appena più in là, nulla di più. Raccolsero quei resti e li portarono al villaggio. Lo seppellirono.
Il capo villaggio, dopo la restituzione alla terra, aveva fatto chiamare Drakai, era il cacciatore migliore. Riusciva a seguire tracce invisibili. Fiutava. Toccava, percepiva. Drakai trovò il lupo in poco tempo e lo squartò a mani nude, staccando di molto gli altri uomini.
Eccolo ora, Drakai, che ritorna con la carcassa della bestia in spalla. Gli uomini attorno a lui esultano. La condensa del suo fiato lo precede mentre avanza nella neve. Piccole gocce di sangue come traccia dietro di sé.
Raggiunge le capanne, entra nello spiazzo con il grande fuoco al centro. Arriva fino a quella del capo, lancia la carcassa a terra. È alto mezzo uomo in più rispetto agli altri, Drakai. Parla poco, guarda molto. Il capo villaggio a volte ne ha paura, ma è il cacciatore migliore e li ha messi al sicuro. Il fuoco guizza, il capo si congratula. Tutti ridono, è ora di mangiare carne cotta.
Carne cotta per tutti, tranne che per Drakai. Lui la toglie quasi subito dalla fiamma. Gronda ancora sangue e liquidi. Lascia la scia, mentre Drakai si allontana dal gruppo di capanne. Va in mezzo al bosco, con il suo pezzo di carne rossa, Drakai. Lo nota solo il capo, nessun’altro. Troppo presi dal giubilo.
***
Non è più inverno e Adruk sta giocando con Tosh. I fiori sono cresciuti, i ruscelli sfrigolano nei loro bassi letti.
Tosh è un nuovo nato. Gli adulti hanno deciso di tenere più in considerazione i cuccioli dei canidi, cercando di farli sopravvivere dandogli più cibo. Non solo i più forti, come avveniva prima, ma ora più esemplari possibile. Dopo la morte del bambino sbranato dal lupo, lo scorso inverno, non possono rischiare il futuro del villaggio, il riciclo delle vite. Più cani, più occhi, più latrati. Più controllo.
Tosh corre da poco, ma da quando lo fa non si può contenere. Per questo Adruk lo segue costantemente. Non gli pesa farlo. Sente un legame con quel cucciolo, si sente responsabile, nonostante anche lui possa essere definito un cucciolo a sua volta, in un certo senso. La prima volta che Tosh aveva superato i confini delle capanne stava per morire. Aveva mangiato delle bacche che Adruk sapeva benissimo non essere commestibili, gli era stato insegnato dai suoi genitori.
Non vedendolo tornare, dopo che aveva finito di stendere i tendini di una carcassa per farli seccare, era corso a cercarlo.
Lo chiamava, forte, ma non rispondeva. Per fortuna Tosh era giovane e quindi poco attento. Aveva lasciato tracce ovunque. Rami spezzati, foglie smangiucchiate. Grazie ai suoi genitori, Adruk era in grado di leggere quei segnali, anche se né lui né loro erano bravi quanto Drakai. Nessuno era come lui.
Ad ogni modo lo aveva trovato, lo sterno peloso che si allargava e stringeva affannosamente, la piccola bocca piena di schiuma bianca mischiata alla polpa viola delle bacche, sull’arbusto lì dietro.
Adruk non era nuovo alla morte. Molti neonati morivano o non sopravvivevano. Alcuni, i grandi li uccidevano durante l’inverno, perché c’erano troppe bocche da sfamare.
La prima volta che lo vide pianse molto. Non riusciva a crederci che i grandi lo facessero. Quei piccoli vagiti soffocati, compressi. Poi però gli venne spiegato che loro non sono come noi. Loro sono troppo piccoli per essere davvero esseri umani, parte del villaggio. Anche io sono piccolo, disse Adruk. Ma tu cammini, e ti nutri da solo e corri. Usi le mani. Tu sei sopravvissuto a quella fase, sei un essere umano adesso, non sei come loro. Loro sono come bruchi. Tu sei una pupa. Noi, disse suo padre indicandosi il petto, farfalle. Noi salvaguardiamo le pupe, i bruchi forti, quelli che fanno la corazza, capisci? Non c’è posto per tutti, lo comprendi?
Adruk non comprese bene, ma comprese che lui era dalla parte di chi ormai veniva tutelato e questo era un bene. Non fece più tanto caso a certe morti, erano il ciclo della natura. Fece diversi inverni senza pensarci.
Vedere Tosh così, però, gli accelerò il battito. Il petto su e giù come quello del cucciolo. Freddo, formicolio alle mani, agli occhi. Corse da Tosh, un canide, un essere grande quanto un neonato. Ma Tosh camminava, si nutriva da solo e correva. Era come lui, non poteva morire, non doveva morire. Doveva essere tutelato.
Così lo prese in braccio e tornò alla sua capanna. Quando li vide, la madre capì subito la situazione e prese del verde che liquefece nell’acqua. Lo diede da bere a Tosh. Il canide vomitò schiuma densa. Singulti, odore acre.
Adruk rimase tutta la notte al fianco del cucciolo. Una mano sopra il suo ventre tremante. Al fuoco domestico, loro due.
La mattina dopo Tosh si riprese. Camminò, si nutrì e corse come prima. Da allora Adruk lo tiene sempre d’occhio e continuano a giocare assieme. È l’inizio dell’estate, dove i demoni affamati dell’inverno non arrivano e nemmeno i neonati vengono soppressi, perché qui c’è nutrimento per tutti.
***
Fu un giorno di prima neve quando Adruk trovò Tosh appeso a un albero.
Il cadavere scarnificato lo guardava dall’alto.
Senza una parola lo tirò giù e lo portò alla tenda. Rimasero lì per un po', così, senza fare nulla davanti al fuoco domestico. Poi lo raccolse e lo portò al capo villaggio.
Gli adulti parlarono. Dai segni dei denti sulle ossa conclusero che era stata ancora la bestia, il lupo. La carcassa era stata spolpata con cupidigia.
Adruk si chiese come mai, se fosse stato davvero un lupo, Tosh era finito su un albero. Ma nessuno ci pensò più. Stava arrivando l’inverno, la fame; bisognava fare provviste. E poi Tosh era solo un canide. Ne avevano allevati tanti altri, tanti abbai.
***
Arrivarono mesi duri. Qualcuno scomparve. Qualche bruco venne ucciso.
***
Quello che dava più fastidio in quella situazione erano i fiocchi di neve che arrivavano come spilli sul viso. Con il loro gelo, pungevano per un momento e poi si scioglievano al contatto con la pelle calda di Turuk-ai. Era la sua prima caccia grossa, in pieno inverno. Erano lontani dal villaggio e stavano inseguendo un grande mammut.
Correre tra la neve con pellicce pesanti. Sudore acre sotto il pellame. Dovevano farlo, per la sopravvivenza.
Era buio e solo con le fiaccole potevano vedersi tra loro, in mezzo a quella tempesta di ghiaccio.
I canidi latravano, correvano e morsicavano la preda alle possenti zampe.
Barriti. Non di dolore, no. Perché la sua pelliccia era troppo folta per i loro denti. Il colosso barriva paura, folle terrore. La loro tecnica era quella. Non erano veloci, non avevano le zanne della bestia e non erano nemmeno invisibili come i demoni. Ma erano resistenti.
Si erano attaccati come zecche a quell’animale da giorni, ormai. I canidi erano come uno sciame d’api, attaccavano in gruppo. Gli uomini incitavano, lanciavano un bastone appuntito o una freccia. Volevano sfiancarlo.
Anche adesso il colosso barriva, nella notte, con il sangue delle ferite che lasciava una scia sulla neve, illuminata solo dalle torce resistenti al vento.
Fu in quell’inferno che Turuk-ai si ritrovò il mammut davanti.
Inaspettato.
Ma fu un solo attimo di terrore per il giovane cacciatore, perché, vedendo il fuoco, l’animale cambiò subito direzione. Turuk-ai vide un lampo di orrore nei suoi occhi, prima di perderlo. Un canide gli si era attaccato alla proboscide e squassava la mandibola con rabbia, odio, se fosse stato possibile.
Vogliono compiacerci ad ogni costo, quei piccoli bastardi. Questo pensò mentre il colosso spariva nel ghiaccio turbinante.
C’era anche Drakai in quella spedizione, ovviamente.
Drakai era sempre stato il più vicino alla preda, tra loro. Infatti Turuk-ai vide anche lui nel lampo del movimento del mammut. Fu solo un attimo, in mezzo a quella tormenta. Ma gli sembrò che Drakai, per un battito di ciglia, lo avesse fissato. Uno sguardo feroce.
Ne andò fiero. Lui, la sua prima caccia grossa. Un po’ timoroso vero, ma guardato dal più grande cacciatore di sempre. Gli diede forza, in mezzo a quelle urla e quel buio interrotto solo da veloci lampi arancioni.
Erano ormai esausti anche loro. Però ora il mammut era accerchiato. L’animale si era scontrato contro un grosso muro di pietra, un dislivello che formava una nicchia. Frastornato, venne subito assalito dallo sciame dei canidi. In mezzo alla tempesta di neve, il vento fischiava e Turuk-ai sentiva i lamenti dell’animale che provava a ribellarsi. Ma i latrati erano più forti.
Illuminato a sprazzi, il mammut cominciò a sbattere il proprio corpo contro la roccia, nel tentativo di liberarsi di quei fastidiosi insetti. I canidi esplosero in mezzo ad alti guaiti. Turuk-ai vide le strisce di sangue dei loro corpi, compressi tra la carne del colosso e la parete di roccia fredda. Una pittura di morte.
I fuochi delle torce drappeggiavano la scena, che sfarfallava tra il visto e non visto.
Fu il turno dei cacciatori. Come un tuono, Drakai lanciò una potente e pesante asta acuminata nella gola del mammut, proprio mentre si alzava sulle zampe posteriori per schiacciare un canide.
Il colosso lanciò un barrito gorgogliante.
Fu un attimo e una pioggia di lance finì su di lui. Le lanciarono nel buio, seguendo l’immagine residua della direzione di Drakai.
E fu in quel buio che anche Turuk-ai lanciò la sua arma.
Fu in quel buio che si sentì cacciatore, esplodendo di gioia.
Fu in quel buio che sentì l’ultimo, grande verso dell’animale, ormai morto. Le grida degli altri cacciatori.
Ma quelle grida Turuk-ai non le udì mai, perché gli venne artigliata via la mandibola dalla faccia e fu strappato con forza lontano dai suoi compagni. Venne trascinato nell’oscurità della foresta, tra quella neve fredda e dura.
Non si rese nemmeno conto di tutto ciò, tanto fu veloce. Ma l’ultima cosa che vide, nel delirio, fu un’enorme figura di pelo grigio che gli apriva la pancia e si metteva le sue budella fumanti in bocca.
***
Adruk correva. I rami secchi gli frustavano le gambe, il viso, graffiandogli gli occhi. Ma doveva continuare a correre. Il petto era una camera vuota, non aveva più fiato, ma doveva muovere quelle gambe.
La bestia gli era dietro. Era pelosa, forte, veloce. Un qualcosa di non reale. Non poteva esistere.
Il suo passaggio distruggeva i tronchi, schiacciava le rocce, spazzava via la neve.
Come avrebbe potuto sfuggirle? Non era possibile.
Venne toccato.
In un attimo gli si bloccò il respiro. Per sua fortuna però, la gravità lo salvò. Era scivolato sulla neve e sotto di lui c’era solo un pendio. Con una velocità irreale slittò a valle.
La bestia rimase un momento interdetta, a guardarsi gli artigli. Nessuna preda, solo un rivolo di sangue. L’aveva sfiorato.
Il mostro, dalla cui bocca usciva il vapore del fiato, lo guardò dall’alto. Due piccoli occhi bianchi.
Adruk la osservò. Non era qualcosa di questo mondo.
All’improvviso, con un grido furibondo, la bestia si mosse e iniziò a scivolare giù, ineluttabile. Era incorporea, tra la nube di neve che sollevava. Il vento a valle fischiava.
Adruk sentì caldo tra le gambe. Un rivolo di paura e piscio, ma doveva rialzarsi. Per Tosh.
Era a metà del pendio quando Adruk riprese a correre, infilandosi tra la foresta nera. La bestia fu un grande masso che si infranse dietro di lui, facendogli volare schegge impazzite tutt’attorno.
Che senso avrebbe avuto continuare a correre? Nessuno.
Nessuno, perché sentì il marcio del suo fiato. Carne putrescente tra i denti. Tosh. Turuk-ai. Bambini, gli scomparsi del villaggio.
Bestia immonda, avrebbe preso anche lui.
Davanti a sé Adruk vide una corda. La afferrò.
Fece un lungo volo. Il mondo si capovolse. L’afrore del mostro era scomparso. Rami spezzati, un grido. Poi sbatté al suolo.
Il capo villaggio lo chiamava. Svegliati. La bestia è in trappola. Svegliati.
Adruk rimise a fuoco il mondo. Il cielo bianco. I tronchi neri che si lanciavano verso l’alto, a sorreggere il cielo.
Le gambe ripresero forza. La ferita sulla schiena era appena un graffio.
Doveva vederla. Lui e gli uomini del villaggio si radunarono attorno alla grande buca. La bestia era lì in fondo.
Ringhiava, sbavava. Ma era in basso, molto in basso. Era molto più piccola vista da lì.
Si muoveva, comunque, nonostante la caduta vertiginosa. Avevano preparato la trappola con delle punte di legno sul fondo. La più profonda e larga mai realizzata.
Ma la bestia non aveva risentito né delle punte, né dell’altezza. Lei era più forte, ma adesso era in trappola.
Gli uomini del villaggio, tutti attorno al buco gridavano felici. Le lanciavano insulti, si abbracciavano, le sputavano contro. Adruk era in silenzio, dietro di loro.
Fu un lampo.
Un artiglio emerse dall’ombra del buco. Trascinò giù un uomo che si era sporto per sputare di sotto. Gli strappò la pelle della faccia e nella nuvola rossa lo trascinò giù. Gli altri urlarono.
Lo strazio del loro compagno li raggiunse subito, ma fu un attimo perché videro, dall’alto, che venne slabbrato in due. Le gambe dell’uomo da una parte e il busto dall’altra, strette tra le zampe del mostro. In mezzo, le calde budella. Poi fu rosso e non videro più nulla.
All’unisono, senza nessun comando, tutti iniziarono a lanciare lance in quel buco nero.
Sentirono grida umane, poi versi animali. Non si limitarono alle armi, no.
Iniziarono a lanciare qualunque cosa in quella trappola urlante. Sassi, rocce pesanti, torce accese per l’occasione. E più lanciavano più si alzavano le grida dal buco. Laceranti.
Scagliarono rami per alimentare il fuoco, in quella trappola d’inferno. Cinque uomini presero un grande macigno e lo spinsero dentro.
Sentirono un rumore goffo, soffocato. Poi ancora grida disumane.
Allora ricominciarono a lanciare di tutto. Terra, fuoco, i loro stessi vestiti. Persino il cielo lanciarono. Andarono avanti così, tutta la notte… tutta la notte…
La mattina dopo non udirono più nulla, solo il silenzio. Ormai a furia di lanciare, quello scavo lo avevano riempito di nuovo. L’avevano seppellita, non c’era più nulla che potessero fare. Silenzio. Solo silenzio.
Adruk durante tutto questo rimase sempre immobile, vicino al capo villaggio, testimoni silenziosi di quanto avvenuto.
Dopo una lunga quiete, lentamente ritornarono alle capanne. Ritornarono tutti. Tutti tranne Drakai.
***
Drakai rimase in quella trappola. Dentro quel buco, sotterrato assieme alla bestia che era diventato. Un mostro.
Adruk e il capo villaggio, tornati da quella battaglia, non erano andati alle loro capanne come gli altri uomini. Si erano diretti a quella di Drakai, dove per rispetto nessuno era mai entrato prima.
Cosa devono avergli sussurrato alle orecchie, i demoni. Adruk sentì mormorare questo, al capo villaggio, mentre osservavano l’interno della capanna. Lì, avevano trovato pelli di altre bestie, di altri lupi. Li aveva scuoiati e poi tagliati assieme.
Drakai aveva iniziato a indossarli. Aveva iniziato a sentirsi lupo, bestia. Era il cacciatore migliore tra i suoi simili, evidentemente avrebbe voluto diventare il cacciatore migliore di ogni creatura. E il cacciatore migliore era il lupo. Perché non diventare lupo, allora?
Non potevano dire quando Drakai avesse iniziato. Quali fossero le sue vittime, o quali quelle dell’animale che li guardava dalla foresta. Se lo immaginavano, all’apice della sua consapevolezza di cacciatore, osservare la forza della bestia e volere quella forza per sé. Superarla, poter addirittura arrivare predarla. Osservare, non essere osservato.
Di per certo sapevano che durante la caccia grossa in cui era morto Turuk-ai, era già lupo. Adruk, che aveva gli stessi inverni di Turuk-ai, era alla stessa prima grande caccia. Ma a differenza di Turuk-ai era rimasto in disparte. Aveva imparato, dopo la morte di Tosh, a essere vigile.
Fu nella tempesta che vide Drakai estrarre dalla sua sacca una grande pelle fatta di lupo, indossarla e diventare Bestia. Trasfigurarsi. Fu lì che lo vide predare Turuk-ai e trascinarlo via, senza più ritorno.
A spedizione conclusa andò dal capo villaggio. Organizzarono quindi la caccia al cacciatore.
Povero Drakai. Aveva voluto seguire la via del lupo, del predatore supremo. E invece il lupo aveva finito per condurlo solo nell’aldilà.