Commento: Bonus ad Terram una tantum
Mare d’Inverno
Aveva un bell’ostinarsi, gli anni erano passati anche se Ignazio se li portava bene. Come quasi ogni giorno andava a sedersi su una panchina di ferro consumata, nel lungomare davanti al suo paese. Preferiva l’inverno, restare in silenzio sotto il cielo grigio, vedere le onde nere che riversavano sulla spiaggia la paglia marina respirando il suo forte odore di salsedine. Rimuginava guardandosi intorno, lo sguardo come offeso e sospettoso, ma non c’era nessuno. L’orizzonte non era mai cambiato dai tempi della sua infanzia, perfettamente piatto da qui all’eternità, e dove il mare si univa al cielo le nuvole aprivano uno squarcio di luce, un passaggio che prometteva di andare lontano, oltre. Lo aveva sempre visto questo passaggio che poi si chiudeva, si confondeva con le nuvole e il cielo. Oggi c’era più luce all’orizzonte, le nuvole si stavano aprendo solennemente: che volessero dirgli qualcosa? Ignazio sorrise appena, annuendo, come a ringraziare.
Sentì il profumo fresco e delicato del suo dopobarba preferito, quello al mentolo, lo stesso che usava suo padre. Quel giorno si era rasato. Ah già: era domenica.
Da ragazzo amava l’estate. Fino a quell’estate di tanti anni fa che da un po’ di tempo rivedeva nei suoi sogni, non come era stata, ma come avrebbe dovuto essere, come avrebbe voluto che fosse.
Nel sogno si rivedeva ragazzino in quella spiaggia davanti a lui: i genitori, le zie, i compagni di giochi, la gente. Ma lui vedeva solo Jubannedda che gli parlava, gli sorrideva come allora. Lei che correva felice a tuffarsi in mare, i capelli neri e lunghi fino alla schiena che poi, tornata in spiaggia, si asciugava con lente e sensuali movenze in un asciugamano colore della porpora, come una principessa libanese nel suo giardino, consapevole della sua bellezza, attorniata da sua madre e dalle zie vestite di nero, le più anziane con la testa sotto l’ombrellone e con i piedi e le gambe sepolti nella sabbia bollente per alleviare la loro artrite.
Ignazio, con altri ragazzi, si tuffava con pericolose capriole dagli scogli poco distanti, sperando che Jubannedda lo notasse. Ma lei non guardava mai quando si tuffava e lui, riemergendo dall’acqua profonda e guardando la riva se ne accorgeva e piangeva per la rabbia e delusione. Poteva piangere, nessuno lo avrebbe mai saputo se non lui: l’acqua di mare è uguale alle lacrime.
Nel sogno Jubannedda era ferma sulla riva, un cielo magnifico sopra di lei, sgombro di nubi, un azzurro così intenso che faceva male agli occhi a guardarlo fisso. Ignazio era ancora immerso nell’acqua e la guardava incredulo, lei gli sorrideva, gli faceva cenno di avvicinarsi con le mani alzate, le sue gambe bianche come il marmo appena lambite dal mare. Era fiduciosa, felice e il suo sguardo appariva profondissimo.
Ignazio nuotava verso di lei con il cuore che scoppiava di gioia ma il sogno finiva sempre prima che giungesse alla riva. Così tutte le volte.
Questo sogno ricorrente addolorava Ignazio, avrebbe avuto tante cose da dirle; chiederle di perdonarlo per quella volta che non era venuto al mare. Si era arrabbiato perché lei aveva sorriso a un altro ragazzo e Ignazio vedendola le aveva voltato le spalle, non l’aveva più considerata e se n’era tornato a casa per farle un dispetto. Si era seduto vicino a Moschino, il segugio da caccia di suo padre, che lo guardava comprensivo. Dalla spiaggia vicina si sentivano le voci festose dei bagnanti che l’assordante frinire dei grilli intorno non riusciva a coprire. Poi Moschino aveva drizzato le orecchie in direzione della spiaggia emettendo un lungo mugolio doloroso, la testa rivolta in alto. Le voci allegre si erano trasformate in urla. Qualcosa doveva essere successo. Ignazio aveva avuto un tuffo in gola, si era messo a correre verso la spiaggia con Moschino che gli veniva dietro.
Appena un po’ oltre la battigia un gran numero di persone stavano raggruppate in silenzio. Nessuno parlava. Ignazio si era avvicinato e oltre quella barriera di uomini e donne aveva sentito le zie che intonavano alti lamenti, cantilene dolorose. E il nome di Jubannedda. A spintoni oltrepassò le persone, malgrado qualche uomo cercasse di fermarlo.
La madre di Jubannedda, le zie, stavano inginocchiate a terra altalenando il corpo avanti e indietro lentamente. Piangevano, sollevavano la testa e le mani al cielo, come a chiedere, si abbassavano congiungendo i palmi, li rialzavano come a presentare qualcuno. In mezzo a loro, distesa sopra asciugamani colorati c’era Jubannedda, bianchissima, i capelli sciolti come raggi di sole, gli occhi chiusi, le mani incrociate sull’esile petto, le labbra sottili in atteggiamento severo, dignitoso. Gocce d’acqua le imperlavano la fronte come una corona. Era annegata senza che nessuno se ne fosse accorto se non quando era stato troppo tardi. La stavano piangendo e la stavano presentando al Signore. All’orizzonte uno squarcio di nubi sembrava chiudersi con riluttanza.
Ma Ignazio nel sogno la vedeva ancora viva e felice che gli diceva di venirle incontro.
Quanto avrebbe voluto farlo, ma non ci riusciva mai! Non l’avrebbe lasciata più sola, l’avrebbe difesa, non avrebbe permesso che morisse in quel mare che tanto amava, in quel mare così crudele che gliela aveva tolta senza dargli il tempo di dirle che…
─ … che eri innamorato di me, vero Nanziu?
Ignazio si riscosse. Forse si era addormentato. Davanti a lui vide Jubannedda. Adesso non poteva essere un sogno: era davvero davanti a lui, sorridente, i capelli lunghi, coperta da una lunga veste azzurra.
Ignazio respirava a fatica. Sorrise. Le nuvole all’orizzonte finirono di spalancarsi del tutto inondando il mare di un corridoio di luce. Non si sentiva più il freddo dell’inverno.
─ Jubannedda! Perdonami! Perdonami se mi sono arrabbiato con te e non sono venuto al mare quella volta che… Non sarebbe successo. Perdonami. Io…
─ Lo so. Non devi dirlo. Lo so.
─ Io… Jubannedda… io…
Jubannedda tese la sua mano, Ignazio tese la sua, ma vedendola raggrinzita per l’età e tremante la ritrasse piangendo, mentre Jubannedda continuava a tendere la sua, aspettando sorridente, fiduciosa.
─ Perché sei tornata Jubannedda? Non ho mai passato un giorno della mia vita senza pensarti! Non ho mai voluto nessun’altra se non te! Ma ora sono vecchio. Perché sei tornata… Jubannedda mia! Perché?
─ Sono venuta per portarti con me. Se vuoi.
─ Ma io… vedi come sono?
─ Se vuoi venire con me tutto sarà come prima. Più bello di prima.
─ Io… ho tanto bisogno di te, ma… Oh! Come? Oh, cielo!
─ Il cielo vuole. Vuoi fidarti di me?
Ignazio piangeva. ─ Sì ─ disse. ─ Sì. ─ E le tese la mano.
Si sentiva leggero. Camminavano lungo la spiaggia della loro ultima estate. Si accorse che il suo corpo era cambiato: era un ragazzo. La sua mano poteva stringere la mano di Jubannedda, sentire il suo calore, la sua gioia. C’era tanta gente del paese seduta vicino al mare, Ignazio li riconobbe, non erano più nel mondo, se n’erano andati da tanto tempo, eppure erano tutti lì, sorridenti, sereni, intenti alle loro faccende; le vecchie con le lunghe gonne nere picchiettate di puntini bianchi e le gambe sepolte nella sabbia, gli uomini che discutevano fra loro sotto capanne di frasche e ombrelloni. Gli scesero le lacrime quando vide suo padre e sua madre, ancora giovanili e pieni di vita che lo guardavano sorridenti.
Si voltò verso Jubannedda che gli lasciò la mano facendogli segno di si con la testa.
Ignazio si avvicinò a sua madre e a suo padre, inginocchiandosi davanti a loro e chinando il capo. Senza che gli parlassero gli fecero sentire tutto il loro amore e lo benedissero.
Vide i genitori di Jubannedda poco discosti che guardavano e sorridevano.
─ Dobbiamo andare ─ disse Jubannedda prendendo di nuovo la mano di Ignazio.
Si diressero verso il mare. Ignazio era timoroso.
─ Non avere paura. Sei con me. Non ti lascerò ─ disse Jubannedda. ─ Vedi l’orizzonte, le nuvole che si aprono? È per noi. È il nostro passaggio.
─ Dove andiamo?
Jubannedda sorrise. ─ In un altro mondo.
In tarda mattinata trovarono un vecchio riverso su una panchina, sembrava dormire davanti a quel mare d’inverno. Una luce accecante si chiudeva lenta e maestosa dietro le nubi all’orizzonte.
Sentì il profumo fresco e delicato del suo dopobarba preferito, quello al mentolo, lo stesso che usava suo padre. Quel giorno si era rasato. Ah già: era domenica.
Da ragazzo amava l’estate. Fino a quell’estate di tanti anni fa che da un po’ di tempo rivedeva nei suoi sogni, non come era stata, ma come avrebbe dovuto essere, come avrebbe voluto che fosse.
Nel sogno si rivedeva ragazzino in quella spiaggia davanti a lui: i genitori, le zie, i compagni di giochi, la gente. Ma lui vedeva solo Jubannedda che gli parlava, gli sorrideva come allora. Lei che correva felice a tuffarsi in mare, i capelli neri e lunghi fino alla schiena che poi, tornata in spiaggia, si asciugava con lente e sensuali movenze in un asciugamano colore della porpora, come una principessa libanese nel suo giardino, consapevole della sua bellezza, attorniata da sua madre e dalle zie vestite di nero, le più anziane con la testa sotto l’ombrellone e con i piedi e le gambe sepolti nella sabbia bollente per alleviare la loro artrite.
Ignazio, con altri ragazzi, si tuffava con pericolose capriole dagli scogli poco distanti, sperando che Jubannedda lo notasse. Ma lei non guardava mai quando si tuffava e lui, riemergendo dall’acqua profonda e guardando la riva se ne accorgeva e piangeva per la rabbia e delusione. Poteva piangere, nessuno lo avrebbe mai saputo se non lui: l’acqua di mare è uguale alle lacrime.
Nel sogno Jubannedda era ferma sulla riva, un cielo magnifico sopra di lei, sgombro di nubi, un azzurro così intenso che faceva male agli occhi a guardarlo fisso. Ignazio era ancora immerso nell’acqua e la guardava incredulo, lei gli sorrideva, gli faceva cenno di avvicinarsi con le mani alzate, le sue gambe bianche come il marmo appena lambite dal mare. Era fiduciosa, felice e il suo sguardo appariva profondissimo.
Ignazio nuotava verso di lei con il cuore che scoppiava di gioia ma il sogno finiva sempre prima che giungesse alla riva. Così tutte le volte.
Questo sogno ricorrente addolorava Ignazio, avrebbe avuto tante cose da dirle; chiederle di perdonarlo per quella volta che non era venuto al mare. Si era arrabbiato perché lei aveva sorriso a un altro ragazzo e Ignazio vedendola le aveva voltato le spalle, non l’aveva più considerata e se n’era tornato a casa per farle un dispetto. Si era seduto vicino a Moschino, il segugio da caccia di suo padre, che lo guardava comprensivo. Dalla spiaggia vicina si sentivano le voci festose dei bagnanti che l’assordante frinire dei grilli intorno non riusciva a coprire. Poi Moschino aveva drizzato le orecchie in direzione della spiaggia emettendo un lungo mugolio doloroso, la testa rivolta in alto. Le voci allegre si erano trasformate in urla. Qualcosa doveva essere successo. Ignazio aveva avuto un tuffo in gola, si era messo a correre verso la spiaggia con Moschino che gli veniva dietro.
Appena un po’ oltre la battigia un gran numero di persone stavano raggruppate in silenzio. Nessuno parlava. Ignazio si era avvicinato e oltre quella barriera di uomini e donne aveva sentito le zie che intonavano alti lamenti, cantilene dolorose. E il nome di Jubannedda. A spintoni oltrepassò le persone, malgrado qualche uomo cercasse di fermarlo.
La madre di Jubannedda, le zie, stavano inginocchiate a terra altalenando il corpo avanti e indietro lentamente. Piangevano, sollevavano la testa e le mani al cielo, come a chiedere, si abbassavano congiungendo i palmi, li rialzavano come a presentare qualcuno. In mezzo a loro, distesa sopra asciugamani colorati c’era Jubannedda, bianchissima, i capelli sciolti come raggi di sole, gli occhi chiusi, le mani incrociate sull’esile petto, le labbra sottili in atteggiamento severo, dignitoso. Gocce d’acqua le imperlavano la fronte come una corona. Era annegata senza che nessuno se ne fosse accorto se non quando era stato troppo tardi. La stavano piangendo e la stavano presentando al Signore. All’orizzonte uno squarcio di nubi sembrava chiudersi con riluttanza.
Ma Ignazio nel sogno la vedeva ancora viva e felice che gli diceva di venirle incontro.
Quanto avrebbe voluto farlo, ma non ci riusciva mai! Non l’avrebbe lasciata più sola, l’avrebbe difesa, non avrebbe permesso che morisse in quel mare che tanto amava, in quel mare così crudele che gliela aveva tolta senza dargli il tempo di dirle che…
─ … che eri innamorato di me, vero Nanziu?
Ignazio si riscosse. Forse si era addormentato. Davanti a lui vide Jubannedda. Adesso non poteva essere un sogno: era davvero davanti a lui, sorridente, i capelli lunghi, coperta da una lunga veste azzurra.
Ignazio respirava a fatica. Sorrise. Le nuvole all’orizzonte finirono di spalancarsi del tutto inondando il mare di un corridoio di luce. Non si sentiva più il freddo dell’inverno.
─ Jubannedda! Perdonami! Perdonami se mi sono arrabbiato con te e non sono venuto al mare quella volta che… Non sarebbe successo. Perdonami. Io…
─ Lo so. Non devi dirlo. Lo so.
─ Io… Jubannedda… io…
Jubannedda tese la sua mano, Ignazio tese la sua, ma vedendola raggrinzita per l’età e tremante la ritrasse piangendo, mentre Jubannedda continuava a tendere la sua, aspettando sorridente, fiduciosa.
─ Perché sei tornata Jubannedda? Non ho mai passato un giorno della mia vita senza pensarti! Non ho mai voluto nessun’altra se non te! Ma ora sono vecchio. Perché sei tornata… Jubannedda mia! Perché?
─ Sono venuta per portarti con me. Se vuoi.
─ Ma io… vedi come sono?
─ Se vuoi venire con me tutto sarà come prima. Più bello di prima.
─ Io… ho tanto bisogno di te, ma… Oh! Come? Oh, cielo!
─ Il cielo vuole. Vuoi fidarti di me?
Ignazio piangeva. ─ Sì ─ disse. ─ Sì. ─ E le tese la mano.
Si sentiva leggero. Camminavano lungo la spiaggia della loro ultima estate. Si accorse che il suo corpo era cambiato: era un ragazzo. La sua mano poteva stringere la mano di Jubannedda, sentire il suo calore, la sua gioia. C’era tanta gente del paese seduta vicino al mare, Ignazio li riconobbe, non erano più nel mondo, se n’erano andati da tanto tempo, eppure erano tutti lì, sorridenti, sereni, intenti alle loro faccende; le vecchie con le lunghe gonne nere picchiettate di puntini bianchi e le gambe sepolte nella sabbia, gli uomini che discutevano fra loro sotto capanne di frasche e ombrelloni. Gli scesero le lacrime quando vide suo padre e sua madre, ancora giovanili e pieni di vita che lo guardavano sorridenti.
Si voltò verso Jubannedda che gli lasciò la mano facendogli segno di si con la testa.
Ignazio si avvicinò a sua madre e a suo padre, inginocchiandosi davanti a loro e chinando il capo. Senza che gli parlassero gli fecero sentire tutto il loro amore e lo benedissero.
Vide i genitori di Jubannedda poco discosti che guardavano e sorridevano.
─ Dobbiamo andare ─ disse Jubannedda prendendo di nuovo la mano di Ignazio.
Si diressero verso il mare. Ignazio era timoroso.
─ Non avere paura. Sei con me. Non ti lascerò ─ disse Jubannedda. ─ Vedi l’orizzonte, le nuvole che si aprono? È per noi. È il nostro passaggio.
─ Dove andiamo?
Jubannedda sorrise. ─ In un altro mondo.
In tarda mattinata trovarono un vecchio riverso su una panchina, sembrava dormire davanti a quel mare d’inverno. Una luce accecante si chiudeva lenta e maestosa dietro le nubi all’orizzonte.