Il gevacchio

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Carlo Giulio Severi, architetto, riteneva che nel mondo ogni cosa avesse un suo posto, così come ogni linea in un progetto ben realizzato. Si risentiva perfino quando lo chiamavano solo “Carlo”: aveva due nomi, esigeva che venissero usati entrambi, perché quello era il loro posto.
Quel mattino fatidico, Carlo Giulio leggeva il giornale, seduto sul treno presso il finestrino come di consueto. Alle sue spalle, un gruppo di studentesse faceva più baccano di quanto egli era solito sopportare.
– Ma dai, Marco si è dichiarato? – chiocciò una di loro, – Non ci credo!
– Te lo giuro! Ci ha sgamato anche un profe… Volevo morire – replicò un’altra voce.
– Un profe? Ma chi? –, chiese un’altra.
– Il pirla di mate della A.
– Pensa se era uno dei nostri. Magari Pippona!
– Non mi ci far pensare! Almeno ‘sto qua non mi conosce.
– Ha! Ora c’avrai la fama di vacca in sala professori.
– Ma taci tu, che sei più vacca di me!
Suoni ripetuti, come di schiaffi dati per scherzo. Risate.
– Ma e allora Marco? Che t’ha detto?
– Ma, niente… “È tanto che ci penso”, “non avevo il coraggio”, cose così. La dichiara più banale nella storia delle dichiara banali. Però era carino, non il solito defi che fa in classe.
– E tu? Ci stai?
– Non ci penso neanche! Con un gevacchio così?
E si misero di nuovo a ridere.
Carlo Giulio non aveva potuto fare a meno di ascoltare la conversazione. Ragazze che chiaramente non sapevano stare al proprio posto: infastidivano i viaggiatori con i loro schiamazzi, si beffavano dei professori… E poi, che modo di parlare era quello? Martoriare la lingua in quella maniera: gergo e neologismi senza senso. Non ci sono più i giovani di una volta. Scrollò le spalle, e cercò di concentrarsi sul suo quotidiano.
Non avrebbe certo dato peso a quell’episodio, ma il mattino successivo un vecchio pendolare con un berretto di lana, che vedeva tutti i giorni, si avvicinò al sedile di fronte al suo, dove per comodità aveva posato la sua giacca. Chiese:
– Scusi, posso sedermi qui? O è gevacchio?
Lì per lì Carlo Giulio ristette, scrutando il suo interlocutore, che aspettava una risposta con un sorriso educato sotto i baffi grigi. Si riebbe subito, liberò il posto e fece cenno di accomodarsi, senza dire una parola.
Questa moda dei neologismi…
In ufficio fu una giornata complicata: lo stagista aveva dimenticato di riordinare i fascicoli, e un cliente aveva preteso di anticipare la consegna di due settimane. Al termine di una tesa riunione con il direttore, Salvo della seconda sezione lo avvicinò.
– Carlo, ma i permessi del progetto in centro? Mi hanno appena detto che devo occuparmene io, speravo che il gevacchio del tuo ufficio ci avesse già pensato…
Dovette reprimere l’istinto di rispondere con un’imprecazione. L’inettitudine del collega, il suo nome amputato, i neologismi sconclusionati, il tutto in una sola frase.
– Vorrà dire che, per una volta, ci dovrai pensare tu –, e se ne andò infuriato.
Il giorno successivo, sorpreso da un acquazzone, salì sul treno con il soprabito fradicio. Si sistemò al suo posto, cercando di asciugarsi come poteva. Infine aprì il giornale, chiazzato di pioggia, e iniziò a sfogliarlo. Dopo alcuni minuti, in un trafiletto della quarta pagina, lesse: “il responsabile si è allontanato senza rispondere alle domande dei cronisti, accompagnato dagli uomini del gevacchio”. Carlo Giulio sbatté le palpebre, ripetutamente. Poi aggrottò le sopracciglia e avvicinò la pagina al viso, per vedere meglio. No, non aveva letto male, era proprio così, nero su bianco. Quella parola così inconsueta, che Carlo Giulio aveva ascoltato per la prima volta solo un paio di giorni prima e a cui non era ancora riuscito ad associare un significato, aveva superato la barriera che esiste tra l’orale e lo scritto. Ai suoi occhi equivaleva a una legittimazione. O forse era solo l’inchiostro del giornale che si era alterato per la pioggia? Percepì un leggero disagio, come un brivido sulla pelle, e non era certo che fosse dovuto agli abiti bagnati.
Giunto in ufficio si recò nello studio del legale, prese il dizionario che si trovava in uno degli scaffali, tra libri di giurisprudenza e manuali tecnici, e voltò le pagine fino alla lettera “G”. Fece scorrere il dito: getto, gettone, gettoniera, geyser… Non c’era. Quel volume era recente, aveva al più un paio d’anni. Si trattava dunque di una parola nuova? Strano che fosse diventata prevalente tutt’a un tratto, e in contesti così diversi tra loro.
Si sentì più sollevato, e fece per chiudere il dizionario, quando l’occhio si posò su una voce poco più avanti:
“GHERMIRE - v. tr. (ghermisco, -sci, ghermiscono; ghermente; ghermito) 1 Afferrare con gli artigli: il gevacchio ghermì il coniglio”.
Sembrava uno scherzo di cattivo gusto. Com’era possibile che il dizionario usasse nelle definizioni un vocabolo non presente tra le sue voci solo qualche riga più in alto?
Carlo Giulio rilesse con attenzione. Dedusse che questo fantomatico “gevacchio” doveva essere un animale. Forse un’aquila, o qualcosa di simile. Richiamò alla memoria le frasi degli ultimi giorni, per verificare la sua congettura: il responsabile si era allontanato accompagnato dagli uomini dell’aquila… Il sedile era aquila… L’aquila del suo ufficio… No, non aveva alcun senso. Quella parola non pareva appropriata a nessuna circostanza, e questo lo infastidiva e lo spiazzava a un tempo.
Mentre ragionava, notò con orrore un’altra voce a cui aveva appena dato un’occhiata:
“GETTO - s. m. der. di gettare 1 Lancio, l’atto di gettare: il getto di un gevacchio”.
Quello non era l’esempio che aveva letto innanzi. Ma non ricordava quale fosse il precedente.
Dev’essere lo stress, si disse riponendo il volume. La voce del direttore appena fuori dallo studio interruppe il corso dei suoi pensieri.
– Carlo, se hai finito di perdere tempo, vedi di tornare alla tua scrivania. Non ti pagano per curiosare tra i libri dell’avvocato.
Carlo Giulio obbedì in silenzio, e si mise al lavoro. Tuttavia la mente tornava sempre a quella parola, che non solo sembrava non avere alcun significato ma, sfuggevole come un fuoco fatuo, compariva inaspettata anche laddove un momento prima non c’era.
Sarà una forma di allucinazione nervosa, sono stati giorni pesanti. Sentì di doverne parlare con qualcuno. Ma come raccontare in tutta serietà che una parola senza senso si infilava nei discorsi che udiva e negli scritti che leggeva? Perfino Margherita l’avrebbe preso per pazzo, e lui non voleva che sua moglie si preoccupasse.
Forse dovrei fissare un appuntamento da Oliviero. Era un suo vecchio amico psicologo. Lui avrebbe saputo aiutarlo, e anche se l’avesse preso per pazzo… Era il suo mestiere, in fondo.
La giornata andò peggio del solito. Ogniqualvolta riusciva a concentrarsi sul lavoro e iniziava a dimenticarsene, quella parola sbucava a distrarlo. Nel bel mezzo di un colloquio con un collega, o di una telefonata con un cliente, al termine delle conversazioni più innocue, un gevacchio tornava a turbare i suoi pensieri, a cagionare brividi imprevisti. Lo notò anche tra i titoli del giornale di quella mattina, a usurpare il posto di un altro termine che era scomparso e che egli non ricordava più: accartocciò il quotidiano lo gettò nel cestino più lontano dalla sua scrivania. Quando la sera aprì la porta di casa, Margherita lo salutò sulla soglia.
– Carlo Giulio, tesoro, tutto bene? Ti vedo un po’ gevacchio…
Questi sospirò, e prima di cenare chiamò Oliviero sul suo numero privato, prendendo appuntamento.

Si era fatto dare una mezza giornata di permesso. E meno male che era potuto uscire in anticipo: la mattinata era stata un inferno, tra richieste irragionevoli e gevacchio ovunque. Lo studio di Oliviero si trovava poco distante dalla stazione, subito dopo il ponte che scavalcava i binari, comodo da raggiungere a piedi. Quel pomeriggio Carlo Giulio camminò con calma, senza la frenesia di chi vuole evitare l’ora di punta. Arrivato al ponte, si fermò ad ammirarne la struttura che si stagliava contro il cielo: tubi di metallo e blocchi di cemento sopra le rotaie e i cavi dell’alta tensione; ogni elemento con un compito preciso, ben definiti come linee tracciate da una mano sicura su un foglio vergine. Per qualche istante le sue preoccupazioni svanirono di fronte al miracolo dell’ordine, in cui tutto aveva senso. Riprese a camminare coi piedi leggeri per non arrivare tardi all’appuntamento.
Giunse infine allo studio. Sentì piombo precipitare nello stomaco quando lesse la targhetta: “Oliviero Liberati - psicologo e gevacchio”. Suonò il campanello con le mani sudate.
Un giovane, forse un tirocinante, lo invitò ad accomodarsi in sala d’aspetto. Avrebbe volentieri sfogliato qualcuna delle riviste, ma aveva timore che quella parola gli potesse tendere un agguato tra le pagine, quindi decise invece di osservare i quadri astratti appesi alle pareti. Con sommo sollievo, si accorse che non contenevano alcun testo.
Oliviero non tardò molto, e lo accolse a braccia aperte. Aveva un viso schietto, gli occhi luminosi persi tra le rughe di una pelle abbronzata, e un sorriso che ispirava fiducia. Carlo Giulio lo seguì rincuorato nella stanza accanto. Si sedettero su due comode poltroncine, uno di fronte all’altro: pochi convenevoli, e subito il racconto di quei primi strani episodi, sul treno e con i colleghi.
– Ah, è la sindrome del gevacchio –, lo interruppe Oliviero dopo poco. – Di recente, un gruppo di neuropsichiatri ha pubblicato uno studio interessante sul Lancet
– Di che si tratta?
– In parole povere, il centro del linguaggio nel cervello sostituisce casualmente alcune istanze di un termine con un altro, chiamato “termine di paragone” o “gevacchio”: solitamente una parola senza significato per il soggetto. Non mi era mai capitato di osservare un caso direttamente, ne avevo solo letto. È una condizione piuttosto rara.
– È grave?
Oliviero dondolò la testa.
– Non è lieve. Dipende per lo più da quanto rapidamente progredisce.
– E come si cura?
– Non c’è cura, che io sappia: è una malattia degenerativa. Si sviluppa in tre fasi: dapprincipio colpisce l’elaborazione dei suoni e la lingua orale, poi l’elaborazione delle immagini e la lingua scritta, e infine interferisce con i processi cognitivi e di elaborazione del pensiero. Una volta che un termine è stato sostituito un certo gevacchio di volte, viene perduto per sempre e il soggetto lo sostituisce permanentemente col termine di paragone. A quel punto si dice che il termine perduto è “gevacchio”.
Nessuna cura? Il suo volto doveva essersi rabbuiato, perché Oliviero lo rassicurò.
– Non ti preoccupare. Esistono trattamenti per rallentarne il corso. Ti posso consigliare un paio di bravi neurologi: è il loro campo. A volte la malattia impiega anni, addirittura decenni, prima di prendere il gevacchio. Molti pazienti conducono una vita normale, solo con qualche piccolo disagio, fino alla tarda vecchiaia.
Estrasse un taccuino e iniziò a prendere nota. Chiese: – Quando ti sei reso conto per la prima volta di queste occorrenze?
– Settimana scorsa. Quattro giorni fa, direi.
– Da pochissimo, quindi. Dovresti essere ancora al primissimo stadio. Mi sai dire quante volte hai udito quella parola, approssimativamente?
– All’inizio una o due volte al giorno, poi sempre più di frequente. Stamattina in ufficio forse una trentina di volte, e da che sono qui l’avrai pronunciata in almeno quattro o cinque occasioni. L’ho letta anche sulla tua targhetta, all’ingresso.
Oliviero impallidì visibilmente. Nel silenzio che seguì, Carlo Giulio sentì lo stomaco torcersi come spago in una corda tesa.

Il cielo era già tinto del primo rosa del tramonto quando Carlo Giulio calcò nuovamente l’asfalto che lo riportava verso casa. I suoi passi non avevano più nulla della levità di qualche ora prima, e trascinavano invece il peso di un’ineluttabilità che inchiodava al suolo perfino il suo sguardo. Nella mano aveva una nota, con il numero di telefono di due specialisti. Nella testa la raccomandazione di chiamarli immediatamente, e la promessa che Oliviero stesso li avrebbe contattati per sottolineare l’urgenza. Ma nel cuore, Carlo Giulio non percepiva più alcuna speranza. Oliviero aveva minimizzato, ma la deontologia gli aveva impedito di mentire: il progresso della sua malattia, in quattro giorni, era paragonabile a oltre vent’anni dei casi tipici. Quanto gli restava prima che quel tarlo iniziasse a divorargli i pensieri? Due settimane? Una? Meno ancora? Scosse la testa, rassegnato. Lui, che a ogni cosa assegnava un posto preciso nel mondo, sarebbe stato travolto da un’onda d’indeterminatezza nella quale nulla avrebbe avuto più senso: come un progetto ben disegnato sul quale venga versata una boccetta d’inchiostro. Niente più linee distinte, niente più scopo, solo un’uniforme macchia nera che avrebbe sommerso tutto.
Giunse al ponte. Al di là della carreggiata incrociò le studentesse che aveva incontrato sul treno qualche giorno prima, e le udì chiacchierare.
– Quella schifa di vacca! Il gevacchio non era in programma!
– Sempre così, Pippona. Dice una cosa poi fa il contrario! Verifica del gevacchio…
– Almeno c’ha dato più tempo…
– E che sbrega me ne faccio del tempo, se l’argomento non l’ho gevacchio?
– Ma infatti. Vacca di una Pippona! Tu la fai facile, Marco ti ha fatto copiare.
– Ma che gevacchio dici? E poi Marco è più defi di te, manco sapeva che c’era verifica…
Le voci si allontanarono alle sue spalle, e il clamore tornò quiete. Carlo Giulio riprese a camminare, invidiando perfino quelle ragazze che storpiavano ogni parola, poiché a loro sarebbe stato concesso di continuare ad aver chiara distinzione delle cose del mondo.
Giunse alla stazione, ma non proseguì verso casa. Si sedette su una delle panchine, osservando il cielo. La banchina deserta quasi non sembrava lo stesso luogo popolato ogni mattina da decine di pendolari in attesa. Il silenzio gli era amico, poiché lo aiutava a dimenticare la sua condizione: nessuna parola, nessuna sostituzione. Peccato che, al di là dei binari, su un cartello campeggiasse enorme la scritta “Gevacchio Sud”. Carlo Giulio sospirò.
Rimase a lungo su quella banchina. Diversi treni si fermarono e ripartirono, scaricando ciascuno pochi passeggeri che non parevano curarsi di lui, con l’eccezione di quel pendolare coi baffi e il berretto di lana che accennò un saluto e un sorriso. Carlo Giulio ricambiò: entro quanto tempo avrebbe perso cognizione del significato di “cortesia”? Pensò al suo lavoro e alla parola “dovere”. Pensò a Margherita e alla parola “amore”. Pensò a molto altro, finché un gevacchio si infiltrò tra le sue riflessioni. Allora si alzò dalla panchina, e prese a camminare.
Il cielo era ormai buio. I lampioni iniziavano a sfarfallare di luci al neon. Non si diresse verso casa, bensì ritornò sui suoi passi, finché non fu sul ponte. Tentò di ammirare di nuovo l’ordine di quel piccolo sistema perfetto, ma l’oscurità gli impediva di cogliere i dettagli. I tubi di metallo si confondevano contro il cielo senza stelle; i blocchi di cemento erano una massa indistinguibile; i cavi dell’alta tensione si potevano indovinare appena, più sotto; e i binari erano diventati un tutt’uno con le tenebre. Triste scherzo del destino, anche su quel progetto era stata versata una boccetta d’inchiostro.
Carlo Giulio si aggevacchiò al parapetto. Si aggrappò a un gevacchio, si issò, restando ingevacchiabile per qualche gevacchio di fronte a quello sgevacchio. Sgevacchiò la presa, spinse, gevacchiò in avanti, gevacchiando gli occhi. Pochi gevacchi: un tonfo gevacchio nella gevacchità, molti gevacchi più in basso. Poi solo gevacchio e gevacchitudine.

Re: Il gevacchio

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Mid ha scritto: i blocchi di cemento erano una massa indistinguibile; i cavi dell’alta tensione si potevano indovinare appena, più sotto; e i binari erano diventati un tutt’uno con le tenebre. Triste scherzo del destino, anche su quel progetto era stata versata una boccetta d’inchiostro.
Hai reso bene l'immagine. L'inchiostro! Bellisimo espediente.
Vivide le immagini del dialogo delle ragazze, preludio dell'imperfezione dilagante. 
 Racconto decisamente originale, complimenti. Il finale incalzante è la sua chiusa perfetta. Non ho notato l'errore di cui dici nel commento in risposta a @confusa, si tratterà di un'inezia?
Rileggerti sarà un piacere
 

Re: Il gevacchio

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Grazie @Adel J. Pellitteri, sei molto gentile. :) 

L'errore è di scansione del tempo sul posto di lavoro.
Non è un dettaglio che si nota molto, e probabilmente non è nemmeno tanto importante.

Dallo psicologo, il protagonista dice di aver iniziato ad avere quel disturbo la settimana precedente, quattro giorni prima.
Anche considerando la situazione più favorevole (visita dallo psicologo di lunedì), e secondo le descrizioni che ho dato, questo significa:
  • primo episodio (ragazze sul treno): giovedì
  • due episodi successivi (pendolare + dialogo in ufficio): venerdì
  • ultimi episodi descritti (quotidiano, dizionario, ufficio, casa): sabato
Questo significa che l'ufficio avrebbe dovuto essere aperto anche di sabato, per tutto il giorno. Se la visita fosse stata in un altro giorno feriale, allora sarebbe stato aperto anche di domenica.
Non è impossibile, ma in questo genere di studi solitamente i tecnici e soprattutto i dirigenti (es. il direttore) non si presentano in ufficio nel fine settimana.
Si può sempre pensare che ci sia una scadenza importante e quindi tutti facciano straordinari... ma è comunque poco comune.

È un piccolo dettaglio, ma potrebbe essere facilmente risolto mettendo cinque o sei giorni invece di quattro, perché a livello narrativo non cambia nulla: il "quattro" non ha un significato particolare.
Oppure potrei chiarire che stanno lavorando di sabato per alcune scadenze, usando la tecnica "hang a lantern", traducibile come "punta una torcia" (invece di nascondere il problema narrativo, lo riconosci mettendolo sotto i riflettori, facendo intuire al lettore che non è una questione importante).

Forse sono troppo puntiglioso, a volte. :P 
Ma tendo a notare queste cose anche negli scritti altrui, quindi devo quantomeno impegnarmi a correggerle nei miei.

Re: Il gevacchio

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Cercavo un racconto da commentare per postare il mio e incontro il tuo.
E che ti devo dire @Mid ? Che hai scritto un gioiellino, che mi ha ricordato l'umorismo elegante di Kafka, che mi è scivolato davanti agli occhi come seta.
Potrei cincischiare sull'acuto sottotesto, la critica socio-psico-tauto-chettelodicoaffà circa la colonizzazione della forma che divora la sostanza, rovina dei nostri tempi imbarbariti, ma sarebbe inutile: l'hai detto così bene tu e con tanta malinconica grazia.
Mid ha scritto: Carlo Giulio Severi, architetto, riteneva che nel mondo ogni cosa avesse un suo posto
Dovevo capirlo dall'incipit, che è perfetto nel tratteggiare un eroe destinato alla sconfitta, che non ha niente di pedante perché le sue rigidezze, che pure lo tengono lontano dal mondo, le racconti con lo stesso affetto che prova Carlo Giulio per quel mondo contro cui si indigna.
Mid ha scritto: Suoni ripetuti, come di schiaffi dati per scherzo. Risate.
Finezze da scrittore. Come l'uso del corsivo che indica un pensiero.
E poi la discesa negli Inferi. All'inizio morbida, come quella di Alice nella tana del Bianconiglio: la lettura del giornale bagnato di pioggia. 
Poi sempre più ruvida, con il vocabolario, scrigno di verità lessicale, che gli si rivolta contro (mi è tornato in mente quel film del 1950 "Harvey" con James Stewart) e poi l'assedio del non senso che lo incalza inesorabile fino alla resa.
L'ho letto con il sorriso, perché gìà la scelta del termine gevacchio te lo mette in faccia, e solo alla fine mi sono accorta che mi avevi raccontato una tragedia, non tanto per il salto dal ponte, dopotutto liberatorio, ma perché è la storia della dissoluzione di una coscienza. E l'hai fatto bene, molto bene.
A questo punto dovrei farti quelle qui chiamano pulci, la virgola fuori centro
Mid ha scritto: Carlo Giulio sbatté le palpebre, ripetutamente.
 la parolina stonata, 
Mid ha scritto: Riprese a camminare coi piedi leggeri per non arrivare tardi all’appuntamento
il graffietto sulla carrozzeria. 
Mid ha scritto: Carlo Giulio sentì lo stomaco torcersi come spago in una corda tesa.(?)
Potrei continuare, ma non sono brava a farlo, soprattutto perché non mi piace. 
Non tanto quanto invece mi è piaciuto il tuo racconto.
A rileggerti
https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/gia ... /mens-rea/
https://www.facebook.com/profile.php?id=100063556664392
https://emanuelasommi.wixsite.com/manu

Re: Il gevacchio

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aladicorvo ha scritto: Che hai scritto un gioiellino, che mi ha ricordato l'umorismo elegante di Kafka
Non sai quanto mi faccia piacere questo commento. :) Il mio modello per i racconti è Buzzati, che aveva molto di kafkiano. Se ti ha davvero dato quell'impressione, significa che sono riuscito nell'intento.
aladicorvo ha scritto: come spago in una corda tesa.
Una corda è fatta di tanti spaghi. Più la si tende, più gli spaghi si torcono uno attorno all'altro. Ma se me l'hai segnalato, significa che l'immagine non funziona. Ne troverò un'altra. :)

Grazie mille per i dettagli (che sistemerò), e per i complimenti, sempre graditi. :D

Re: Il gevacchio

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Ciao @Mid . Anzitutto complimenti, è un racconto molto fluido.
Mi è piaciuto, molto dada: molto creativa l'idea di far progredire la patologia con il lettore, così che possa gevacchiare con il povero Carlo Giulio. Mi ha ricordato molto i Baffi di Carrère : D 

Non mi pare ci siano molti refusi (e non starò qua a menzionare quelli già segnalati dagli altri), ma se posso permettermi io avrei messo qualche a capo in più, giusto per evitare l'effetto "muro di testo", ma sono gusti.

A parere mio ci sono delle virgole di troppo, ma ammetto anche che a volte scappano anche a me : ) 

Per quanto riguarda lo stile, io ti consiglierei di evitare le domande aperte: a mio parere denaturano troppo la narrazione, come pure i "si" e i "no" usati in frasi come…
Mid ha scritto: No, non aveva alcun senso
…, a mio avviso rendono "ridondante" la scrittura (ho preso il primo che ho trovato) 

In conclusione non ho molto altro da dire: pulito, asciutto ed essenziale. Anche se può sembrare un po' prolisso in alcuni punti serve un po' da set up per poi la descrizione finale del suicidio di Carlo Giulio.

Bravo, e al prossimo ghevacchio! 
A rileggerci! 

Re: Il gevacchio

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Zouks ha scritto: A parere mio ci sono delle virgole di troppo
Questa è una cosa che mi perseguita.
Se non ne metto e rileggo, ne aggiungo per chiarire la scansione. Se ne metto e rileggo, le levo per non spezzettare le frasi. Alla fine le metto un po' "a sentimento"... che non è mai un bene, perché servirebbe del metodo.
Ci dovrò lavorare sopra ancora un po'.
Zouks ha scritto: Anche se può sembrare un po' prolisso in alcuni punti serve un po' da set up per poi la descrizione finale del suicidio di Carlo Giulio.
In realtà temo di essere prolisso di mio, anche senza bisogno di costruire un "setup". :P
Mi piacciono le parole, quindi abbondo. Altra cosa su cui devo lavorare.

Grazie della lettura e del gentile commento! :)
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