Gli scaffali della libreria ospitavano pochi volumi: i ripiani erano occupati da decine di targhe e trofei. Al centro, in primo piano, faceva bella mostra di sé una cornice d’argento con la foto che lo ritraeva sorridente nell’atto di stringere la mano di Lobanovski, allenatore della nazionale di calcio olimpica. Nello svuotatasche, sulla mensola vicina alla porta d’ingresso, rilucevano le chiavi della sua Trabant 601 S Deluxe.
Il suono del campanello gli fece balzare il cuore in petto. Prima di aprire, Viktor cercò a tastoni la croce smaltata appesa alla sua collanina. Il piccolo ciondolo mostrava un Cristo dai colori sbiaditi e aveva un lato mezzo schiacciato. Appeso a una collana d’oro a maglie spesse sembrava fuori posto come un barbone alla tavola di un ristorante di lusso, ma Viktor lo stringeva tra il pollice e l’indice con tenerezza. Come faceva nello spogliatoio prima di entrare in campo e fischiare l’inizio di una partita, lo baciò. Quel rituale gli aveva sempre portato fortuna.
Viktor aprì la porta e tese l’orecchio: il rumore lieve dei passi di Lidija risuonava nell’androne del palazzo. L’aspettò sul pianerottolo contando mentalmente il numero degli scalini che lo separavano ancora da lei.
«Ciao, entra.»
Lidija si guardò intorno. Nel salotto, tutto parlava di lui, ma era come se la sua vita precedente non fosse mai esistita: nessuna foto di donna, di qualche familiare o di lui da bambino. Come se Viktor fosse nato già adulto. Solo trofei e ritagli di giornale. Un pallone con decine di firme era il soprammobile più strano.
«Dove abitavi prima?» gli chiese curiosa.
«La mia famiglia era di Orël. C’è ancora la vecchia casa, ma ci vado di rado da quando sono morti i miei. Più che altro ho viaggiato molto in questi anni.»
«E come mai hai scelto di venire a vivere proprio qui a Šiauliai?»
«Perché una bella donna mi ha rubato il cuore…» le sussurrò all’orecchio.
«Non dovrei essere qui, Viktor. Non so ancora se posso fidarmi di te.»
Viktor la raggiunse dietro le spalle, sollevò i capelli e le diede un bacio sul collo. «Fuggirai via, allora?»
«Può darsi…» Lidija andò verso la libreria e prese in mano la cornice. «Sei famoso, Viktor. Peccato che io non ne capisca niente di calcio.»
Lui riempì i due bicchieri col vino e gliene porse uno: «Assaggialo. È molto buono.»
La musica riempiva gli spazi della loro conversazione punteggiata di sguardi, di respiri, di carezze sperate da tempo. I loro sguardi s’incontrarono una volta di troppo… Fecero l’amore a lungo così, sul divano, lasciando che fossero i loro corpi a parlare in un intreccio di dita e di gambe, di lingue e di gemiti. Lidija gli arruffò i capelli e si mise a giocherellare con la croce che pendeva dalla sua catenina.
«Certo che sei un uomo strano. Non avrei mai immaginato che tu fossi cattolico. È la prima cosa che mi ha colpito di te. Nessun uomo che indossi una croce può essere tanto cattivo, neppure un russo.»
Viktor sorrise. «Cattolico? Io? Ma cosa dici… No, no. Non è come pensi.»
Lidija gli prese la testa fra le mani e lo guardò dritto negli occhi: «Non prendermi in giro: questa è una croce cristiana» disse indicando il gioiello.
«Sì è vero. È il mio portafortuna. Ma la fede e tutte quelle balle non c’entrano.»
La donna ammutolì.
«È un regalo di mio padre. Era un soldato. Io ero ancora un ragazzino quando fu mandato a spianare con la ruspa la Collina delle croci. Rischiò grosso per portarne via una di nascosto, ma ci teneva che io ce l’avessi. Da allora non me ne sono mai separato e le cose mi sono sempre andate bene» disse schioccando un bacio sonoro sul ciondolo.
Lidija, pallida come un morto, si alzò di scatto cercando di trattenere le lacrime. Raccolse da terra la biancheria intima, si rivestì in fretta e scappò via sbattendo la porta senza dire una parola. Viktor, impietrito, non trovò le parole per fermarla. Infilò veloce i pantaloni e la rincorse fino alla strada. La raggiunse che era già sul marciapiede «Io… io… io…» le disse ansimando.
Lei si mordeva il labbro inferiore e non riusciva a guardarlo in faccia. Restò ferma per qualche attimo: «Mi spiace, ma io… no» gli rispose glaciale.
«No cosa? Spiegati, per favore.»
«Ascolta Vik, non so chi ti abbia insegnato cos’è giusto e cosa è sbagliato, ma è chiaro che io e te non possiamo stare insieme.»
Lui le asciugò una lacrima col dorso della mano. «Lidija, ti prego, torna indietro. Dimmi cosa ti ho fatto. Parliamone.»
Rispose con lo sguardo perso nel vuoto: «Mio padre era un combattente nei “fratelli della foresta”. Morì durante una battaglia e fu gettato in una fossa comune. Mio fratello Jonis aveva appena diciannove anni quando i sovietici lo uccisero. Mia madre non riuscì a impedirgli di seguire le orme di papà ed entrare nella resistenza armata. Prima che partisse, gli mise al collo una croce per proteggerlo. Fu l’unica cosa che le restituirono di lui.»
Viktor cercò la sua mano, ma lei la ritrasse subito.
«Ero ancora una bambina, allora. Camminammo per ore fino alla Collina delle croci. Pregammo così tanto che non riuscivo più ad alzarmi. Avevo le ginocchia a pezzi e i piedi pieni di vesciche. Prima di tornare a casa lasciammo lì la croce di Jonis.»
Lidija cercò lo sguardo di Viktor. «Quando i soldati russi distrussero la collina, mia madre non lo sopportò. Era come se avessero ucciso Jonis un’altra volta. Da allora non si è più ripresa. Adesso lo capisci perché devi lasciarmi in pace? Non devi cercarmi mai più.»
Viktor la osservò allontanarsi nella nebbia fin quando non divenne che un punto indistinto.
Rientrò in casa, si versò da bere, incapace di reagire. Era come paralizzato, non poteva né articolare una parola, né muovere le gambe. Albeggiava quando riuscì a riprendersi.
Salì in auto e guidò coi finestrini aperti fino alla Collina delle croci. Non c’era mai stato prima. La strada era sconnessa. Dovette parcheggiare in uno spiazzo polveroso e proseguire a piedi.
Sentì correre un brivido lungo la schiena nell’attraversare quel luogo. Non furono le croci di ogni formato e materiale a colpirlo, ma la melodia prodotta dal vento che le attraversava. Un suono dolce ma, al contempo, fiero. Si sedette per terra e chiuse gli occhi. Respirò a fondo: tutto era pervaso da un’energia quasi palpabile. Restò lì a lungo, incurante dei pellegrini che, indifferenti, gli passavano accanto. Si avviò verso l’auto che il sole già arrossava il cielo.
Rientrato in città, il giorno successivo cercò il laboratorio di un gioielliere.
«Se desidera una collana d’ambra deve rivolgersi al negozio di mio figlio, qui si fanno solo le riparazioni» disse l’artigiano senza alzare la testa quando lo sentì entrare.
«Veramente… cercavo proprio lei.» Viktor si sfilò la collanina e gli mostrò il pendente.
L’uomo lo guardò con aria interrogativa.
«Mi chiedevo se… ehm… Ecco. Mi chiedevo se lei potesse incidere un nome sul retro di questa croce.»
L’artigiano prelevò dal cassetto una lente d’ingrandimento. «Non è oro, è un metallo troppo sottile» disse «e poi la superficie non è regolare.» Scosse la testa e sollevò lo sguardo verso di lui: «Mi spiace, non credo che verrebbe un buon lavoro.»
Viktor estrasse dal portafoglio quattro banconote da venticinque rubli e le depose sopra il bancone. «Possono bastare?»
Il gioielliere annuì. «Che nome devo incidere?» chiese solerte.
«Jonis.»
Tornò a casa, prese una valigia e liberò gli scaffali della libreria da tutti i suoi trofei. Rimase qualche minuto a fissare la stanza vuota poi uscì in strada col pallone sottobraccio e lo regalò al primo ragazzino che incontrò.
Non era certo di riuscire a ritrovare l’abitazione di Lidija. L’aveva riaccompagnata una sola volta ed era buio. L’intricato gomitolo di viuzze e una nebbia impalpabile acuivano la difficoltà. Aveva già perso le speranze di trovare il portone giusto, quando la vide uscire da un vecchio palazzo. Camminava a testa bassa, i passi svelti rimbombavano tra le pareti del vicolo come dentro a una chiesa al mattino presto. Gli passò accanto senza notarlo.
«Lidija!»
Sentendosi chiamare, lei s’irrigidì. Attese qualche istante prima di voltarsi. Aveva gli occhi gonfi. «Non dovresti essere qui» gli disse senza abbassare lo sguardo.
«Stai tranquilla, sto per partire. Non credo che ci rivedremo» frugò nella tasca della giacca e tirò fuori una piccola scatola. «Volevo solo darti questa.»
«Non voglio niente da te.»
Viktor sospirò. «Almeno aprila.»
Le tremavano le mani e Viktor dovette aiutarla. Nel vedere il contenuto, Lidija avvampò.
«Portala a tua madre. Ci ho fatto incidere sul retro il nome di tuo fratello.»
Lei spostò lo sguardo da Vik alla scatola una, due, tre volte: «Sali insieme a me. Vorrei che gliela consegnassi tu.»
La camera era in penombra. Lidija aprì le tendine per far entrare un po’ di luce. Si chinò sulla donna e la chiamò sottovoce scuotendola con dolcezza. «Mamma…» Sollevò la coperta, tirò fuori il braccio e le prese la mano. Era fragile e leggera come un uccellino. Viktor si avvicinò e le pose sul palmo la piccola croce.
L’anziana girò lentamente la testa verso di lui. Gli occhi, due fessure di cielo sbiadito, si inumidirono: «Jonis…» disse con un filo di voce. Una lacrima le rigò il viso.
«Ieri sono stato alla Collina. Ti chiedo scusa per tutto, Lidija.»
La donna non riuscì a dire una parola. I suoi occhi parlavano per lei.