Link al racconto originale
Testo successivo all'editing con @Kikki
Il primo suono che sentii fu una canzone. Il mio stupore era indescrivibile: era la prima volta che lasciavo il Mondo degli Spiriti e mi avventuravo sul pianeta Terra. Mai avevo posseduto dei sensi in grado di interagire con la realtà, in grado di vedere, di udire, di annusare: nel Mondo degli Spiriti non esiste neanche il tempo.
Entrai nella camera di Simone mentre una canzone risuonava dalle casse. Gli altri spiriti mi avevano raccontato cos’era la musica ma avevo solo potuto immaginarlo. Una chitarra minimale e una voce lagnante. Solo successivamente avrei scoperto che la canzone era Olivia, degli Harley Poe, e che le casse erano di pessima di qualità.
Il sole era appena tramontato fuori dalla finestra, le nuvole erano ancora tinte di rosso e viola. Scendeva la notte dell’equinozio di primavera e il velo tra i mondi era abbastanza sottile da permettermi di visitare il regno dei vivi. Ero stata attirata dal rituale di Simone. Avrei posseduto un oggetto inanimato e spaventato a morte qualche umano, per poi avere anche io qualcosa da raccontare nel Mondo degli Spiriti. Non sarebbe stato facile, però c’è una prima volta per tutto e suonava come un’idea divertente.
In realtà fu un inferno. La camera di Simone era buia, sporca e disordinata. Il letto era disfatto, fumetti e fazzoletti erano sparsi ovunque. C’era odore di chiuso e di qualcosa di nauseante. Sulle pareti, poster di personaggi armati di spade o pistole; sulle mensole, decine di omini di plastica colorata, per lo più ragazze con il seno di fuori. Ancora non lo sapevo, ma durante la mia permanenza con Simone avrei imparato che erano action figures di personaggi anime.
La luce, oltre che dal monitor del computer, veniva anche da un televisore col volume al minimo, acceso su un vecchio film. Una ragazza in costume stava manovrando un motoscafo mentre teneva sollevata in aria un’ascia: I spit on your grave. Fu surreale, come prima impressione della Terra, ma non era quello il peggio.
Simone era in mutande, inginocchiato su un cuscino di fronte a un grosso pentacolo di sangue. Si era già fasciato la mano con una garza, il coltello sporco era ancora sul pavimento. Al centro del pentacolo c’era una bambola gonfiabile, i lineamenti appena accennati, i capelli biondi disegnati in modo approssimativo, le labbra rosse aperte in maniera lasciva, le braccia piegate ad angolo retto.
«Ade Due Damballa!» Gridò Simone, le braccia sollevate, gli occhi chiusi, e recitò la formula magica. Quando terminò, oltre la finestra nuvoloni neri e lampi si erano ammassati in cielo. Un fulmine azzurro si scaraventò contro la finestra; non la ruppe ma tutto quanto si spense e sulla stanza calò il buio e il silenzio mentre una macchia gialla si allargava sulle mutande di Simone, finito a terra.
Mi sentii pian piano meno libera di guardarmi attorno e di fluttuare in aria, mentre una forza crescente mi trascinava dentro la bambola. Non sapevo cosa dovessi fare, non me l’aveva mai spiegato nessuno, ma per un qualche presentimento provai repulsione per quell’oggetto. Era troppo tardi, però: Simone aveva finito il rituale, e la forza che mi risucchiava era ineluttabile.
«Simone? Che succede?» La voce di una donna oltre la porta.
«Niente», rispose, gli occhi sbarrati dal terrore.
«Va be’, comunque è pronta la cena».
«Arrivo, mamma, arrivo!» Si alzò in piedi, si tolse le mutande e recuperò un paio di pantaloni dalla pigna dei vestiti. Si fermò e mi rivolse uno sguardo deluso. Nessun movimento da me. Niente. «Stupida bambola», borbottò dandomi un calcio. Per la prima volta sentii dolore. Non mi piacque, e la mia iniziale curiosità per gli umani scemò velocemente.
Aprì la porta e scese le scale. Sua madre: «Mio dio, che hai fatto alla mano?»
Rimasi sola nel silenzio della stanza. Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a parlare. Qualcosa era andato storto durante la possessione. Avrei dovuto abbandonare l’oggetto e ritentare ma, quando ci provai, non ci riuscii. Ero bloccata: mi resi conto di non avere le energie per andarmene dalla bambola.
Quando Simone tornò in camera aveva lo sguardo nero. Eravamo soli e non c’era niente che potessi fare. Non un movimento, non un sospiro. «Ti odio, Stefania, lo sai? Ti odio.» Mi fissava dritto negli occhi. Erano lucidi, i suoi, e arrossati. Riaccese la musica – Helena, dei Misfits –, si inginocchiò su di me e mi si avvicinò alla testa per sussurrarmi là dove una persona in carne e ossa avrebbe avuto l’orecchio: «Quare id faciam fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.» Si abbassò i pantaloni, mostrandomi il suo membro eretto.
Scappare. Volevo scappare. Dovevo scappare! Ma le gambe non si muovevano, gli arti non rispondevano agli ordini, e il mio spirito era prigioniero della bambola. Com’era successo? Il piacere di Simone divenne per me un dolore indescrivibile, insopportabile, folle. Lui ansimava il suo alito odioso sulla mia faccia. Su, giù, il suo corpo di carne schiacciava il mio corpo di plastica. «Perché mi hai lasciato? Perché, Stefania?» Su, giù, mentre ripeteva il nome di quella che doveva essere stata la sua ex partner. Su, giù.
Il supplizio giunse al termine, il suo liquido caldo fu spremuto dentro di me. Simone si accasciò sul pavimento, un braccio sotto al mio collo, e restò lì a fissare il soffitto buio, la pancia che si muoveva in alto e in basso.
«A... iu... to... Aiuto...» La mia voce flebile ruppe il silenzio.
Simone si girò verso di me, gli occhi sbarrati. Poi scoppiò a ridere. «Sei viva», ansimò. Aveva un sorriso sinistro e il suo membro era tornato eretto.
Cercai di alzarmi ma riuscii a muovere appena le braccia e la testa. Per qualche ragione dopo l’amplesso ero diventata d’improvviso un po’ più viva, ma ero debole, debolissima; movimenti minimi mi costavano una fatica infinita, e non riuscivo a dire più di due parole di seguito. Se avessi potuto avrei pianto, ma la condizione della mia prigionia non lo permetteva. «Ti prego, fermati...»
Furono giorni di incubo. L’odio crebbe dentro di me come un’energia tangibile. Peggiorò tutto quando Simone portò a casa quel suo amico, un religioso o qualcosa del genere. Dopo che si fu divertito con me ebbe l’idea di usarmi per fare soldi. Iniziarono a venerarmi e nacque come un culto: la gente pagava per passare qualche ora con me e fare quello che voleva, fintantoché non danneggiasse il mio corpo, che comunque era reso in qualche modo più resistente per il fatto di essere posseduto.
Io potevo solo muovermi lentamente, molto lentamente, e lamentarmi. Ero la schiava sessuale perfetta: in grado di soffrire, ma non di reagire. Nessuno mi ascoltava. Stefania, la bambola gonfiabile assassina, mi chiamavano con scherno, perché a detta loro “li finivo”. All’inizio fu qualcosa di piccolo: amici, parenti, curiosi. Ma pian piano il culto portò un mucchio di soldi e i genitori di Simone ne furono contenti. Ogni tanto anche suo padre veniva a violentarmi. Non sapevo come abbandonare il corpo e la sete di vendetta crebbe senza limiti.
Oltre all’odio, però, qualcos’altro stava germogliando in me. Così come dopo la prima volta con Simone, ora a ogni orgasmo che loro avevano dentro di me, io acquisivo più potere, più capacità di movimento, più forza, per qualche magia il cui significato mi sfuggiva. Me ne resi conto nei rari momenti in cui mi lasciavano sola. All’inizio, reggermi sulle gambe per pochi istanti era faticosissimo. Con lentezza imparai a camminare, a correre, a saltare. Fui brava a non farlo notare: avrei potuto scappare, ma attesi il momento giusto. La mia forza superò quella degli esseri umani e continuò a crescere, tanto che riuscivo a sollevare con facilità armadi pieni senza il minimo sforzo. Mentre nessuno era in casa, recuperai un martello e lo nascosi.
Assieme ai soldi e al successo, tornò anche la vera Stefania, che Simone accolse a braccia aperte. Si era sparsa voce del miracolo e la ragazza fu lieta di approfittarne. Passò sopra persino al fatto che Simone mi avesse dato il suo stesso nome, tanto il denaro l’aveva resa indulgente. Era perversa quanto lui. Non ci mise molto a scalare le gerarchie e diventare una degli alti sacerdoti. Fu lei la prima che uccisi.
Organizzarono un rito che era perfetto per il mio piano. Solo gli alti sacerdoti potevano partecipare: erano gli individui più vicini a Simone o che pagavano la quota più alta, e gli unici a poter venire da me in qualsiasi momento. Erano poche decine di persone, ma erano di gran lunga i peggiori. Ciascuno di loro portò una bambola gonfiabile uguale a me ma priva di vita, nella speranza che il miracolo si ripetesse. Ma nessuno venne mai in mio soccorso dal Mondo degli Spiriti. Il rituale sarebbe durato tre notti e tre giorni. Io ero ferma e silenziosa, stanca di lamentarmi.
La prima notte, l’orgia fu collettiva, con le nuove bambole che avevano portato. Io subii nutrendomi dell’ira che mi rendeva più forte.
La seconda notte, ciascun sacerdote avrebbe fatto sesso con me in privato, uno dopo l’altro. Nascosi il martello vicino a me e aspettai. Giunse il turno di Stefania. Mentre usava un giocattolo doppio su me e lei, guardai con disgusto la sua espressione di piacere: quel giorno avrei ripreso la mia libertà. La spinsi via e mi alzai in piedi, forte. Fece appena in tempo a rivolgermi uno sguardo confuso e spaventato, che io afferrai il martello e la colpii in faccia. Il cranio si spaccò con facilità e il cervello fuoriuscì a sporcare i suoi bei capelli biondi. La spogliai del tutto e buttai il cadavere fuori dalla finestra.
Accesi la musica, l’unica cosa piacevole che il mondo degli umani mi aveva dato. Making of cyborg, di Kenji Kawai. Avrebbe coperto le grida. Non dimenticherò mai le espressioni dei sacerdoti quando aprii la porta e uscii dalla camera e mi videro in piedi, armata, inespressiva ma terribile. Provarono a scappare, ma io ero più forte e più veloce. Non risparmiai nessuno. Nessuno di loro lasciò la casa vivo: uccisi i genitori di Simone, i genitori di Stefania, il sindaco della città; e li feci soffrire quanto avevano fatto soffrire me. Le urla di terrore e la loro disperazione mi rinvigorirono. Il mio corpo di plastica fu inondato di sangue, e dal bagno di morte io rinacqui.
Da ultimo uccisi Simone. Mi supplicò, come io tante volte avevo supplicato lui. Mi assicurai di ucciderlo con lentezza: mi presi tutto il tempo per recidere il legame con chi mi aveva invocato nel regno degli umani, distruggere l’individuo che per primo aveva messo il seme della vita nel mio corpo. Poi feci a pezzi tutte le altre bambole, rubai i soldi, indossai i vestiti di Stefania e scappai.
Ormai sono abbastanza forte per poter abbandonare il corpo e tornare puro spirito, come sono sempre stata. Ma non l’ho fatto. Non adesso, non ancora. Mi sto nascondendo, in attesa. La mia pancia è gonfia e pesante. Nel mio grembo nuova vita aspetta di vedere la luce del mondo e diventarne il nuovo sovrano. È questo che mi ha reso viva, lo so. Lo sento, è suo: il seme di Simone vive ancora dentro di me, non posso tornare a casa ora. Una creatura di carne, plastica e spirito dovrà sorgere. Dove andrà, sarà solo lei a deciderlo. Il mondo è vasto e infinito.
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