La nave della follia - parte 3

1
Nel giro di un mese la terraferma era tornata a far capolino nel loro campo visivo. Con apprensione l’avevano vista ingrandirsi, divenendo più di una semplice linea. I timori un tempo dimenticati, e poi a lungo ignorati, erano tornati a galla come corpi di annegati; l’ansia e la paura si erano gonfiate a dismisura, impregnando le menti degli uomini, mutandone il carattere, il comportamento. Se prima i loro pensieri arrivavano appena a farsi sentire portando a galla un poco della loro puzza, ora spandevano tutta la loro putrefazione ed era divenuto impossibile stare vicino l’uno all’altro per più di qualche istante: gli adulti scattavano per un nonnulla, sempre tesi e nervosi, i bambini si erano fatti più mogi e fastidiosi, le loro risate e urla trasformate in snervanti piagnucolii.
L’impietoso scenario di coste rocciose piene di relitti di navi, baracche fatiscenti e auto arrugginite, era tornato ad aprirsi davanti ai loro occhi con la sua fauna ributtante: creature pelose e squamate, umani sporchi vestiti di stracci, strisciavano alla ricerca di cibo, arrancando senza una meta verso una precaria sopravvivenza, mescolandosi fino a che diveniva difficile distinguere gli uni dagli altri. Il fetore dei loro corpi e dei rifiuti dei quali si cibavano e nei quali vivevano arrivava fino a loro, facendoli ritrarre disgustati dalle paratie. Fortunatamente la nave era passata a una certa distanza dalle coste, tenendoli al sicuro. Solo il ricordo degli sguardi visti attraverso i binocoli li aveva perseguitati facendoli restare svegli la notte, sconvolti da quello che sarebbe potuto accadere se la nave si fosse avvicinata di più o se si fosse incagliata su un fondale basso: la fame che avevano visto in quelle creature prometteva solamente sangue e dolore.
Ma in uno dei passaggi vicino alla costa, le cose non andarono altrettanto bene. Da miglia di distanza avevano scorto il riflesso del sole che si abbatteva sulla cupola di vetro di un edificio slanciato che si elevava su un promontorio. Al loro avvicinarsi, come le altre volte, un folto gruppo si era radunato a osservarli. E come le altre volte erano donne e uomini scalcinati, sporchi, stracciati; in quest’occasione però non c’erano creature di nessun genere assieme a loro, ma bambini. Al vederli, quell’accozzaglia umana male in arnese aveva preso a saltare, urlare, sbracciarsi, cercando d’attirare l’attenzione. Sfilandogli davanti avevano scorto la frenesia, l’ansia che s’impossessava di loro mentre non ricevevano nessun cenno di risposta alle loro grida: anche se fossero stati in grado di fermare la nave, non lo avrebbero fatto. Quando i profughi se ne erano resi conto, erano corsi ai barconi ammarati sulla spiaggia e li avevano spinti in mare, saltandovi a bordo e cominciando a remare con foga per mettersi nella loro scia.
L’inseguimento era durato un paio d’ore, con grida che ogni tanto si levavano per invitarli ad aspettare, prima che li raggiungessero. Venivano dall’entroterra, avevano spiegato gli improvvisati marinai: erano fuggiti dalle regioni più interne perché era scoppiata una violenta epidemia che aveva fatto strage di uomini e bestie. Era successo tutto all’improvviso, la malattia si era sparsa sulla terra nel giro di poche ore: non si sapeva se era dovuto a un virus sconosciuto o a un veleno allo stato gassoso; qualcuno era convinto che tutto fosse cominciato con il passaggio di un uomo avvolto da una nebbia verde. Quello che contava, era che ben pochi erano riusciti a scampare al pericolo; loro erano stati tra i fortunati, ma non si sentivano al sicuro, anche se si erano allontanati dalle aree contaminate: temevano che l’epidemia potesse spostarsi e raggiungerli. Per quel motivo si erano spinti fino alla costa, decisi ad attraversare il mare nella convinzione che fosse una barriera sufficiente a fermare il pericolo lasciato alle spalle: giunti sulla spiaggia avevano trovato dei barconi in disuso e li avevano sistemati perché potessero prendere il largo, ma quando li avevano visti arrivare avevano cambiato idea, decidendo di unirsi a loro.
Il tono deciso che avevano usato non era piaciuto per niente, come se fosse una cosa scontata che sarebbero stati presi a bordo, soprattutto dopo aver sentito la storia dell’epidemia: potevano essere infetti e averli con loro poteva essere una fonte di contagio, anzi, forse si erano già esposti al pericolo avendo permesso che si avvicinassero. Sulla nave era sceso il silenzio, ma non c’era bisogno di parole per capire quale sarebbe stata la decisione: negli sguardi tesi e impauriti c’era lo stesso pensiero. Prendere a bordo quei profughi sarebbe stato troppo pericoloso, mettendo a repentaglio la loro vita: dovevano essere allontanati dalla nave e il più in fretta possibile.
Ma i profughi non avevano accettato la scelta. Avevano continuato imperterriti a seguirli, implorando, insultando, minacciando; rampini erano stati lanciati sui parapetti. Le espressioni degli uomini erano divenute ancora più torve: a quel punto non era rimasta che una cosa da fare.
I bambini erano stati mandati sottocoperta, mentre sul ponte gli altoparlanti venivano messi al massimo: la musica aveva cominciato a riecheggiare come un tuono, facendo vibrare le paratie e i tavoli di metallo. Dalle stive erano stati portati dei fusti.
Naufrago raccolse un sasso e lo lanciò lungo la china sotto il loro riparo, osservandolo saltellare finché non si posò sulla sabbia. A distanza di anni la scena non aveva perso i suoi dettagli.
Il fumo nero che si levava oltre le paratie. La melodia degli altoparlanti che copriva le urla. Potevano volgere lo sguardo lontano dalle fiamme umane, chiudere gli occhi di fronte ai corpi anneriti di adulti e bambini che galleggiavano nella scia della nave, ma non potevano nulla contro la puzza di carne che bruciava. Ancora adesso, in un deserto dove c’erano solo sabbia e rocce, gli sembrava di poterla sentire. Ancora adesso le vecchie bugie continuavano a vivere, non avendo intenzione di farsi seppellire.
Tutti a bordo si erano detti che l’avevano fatto per il bene collettivo, che era un’azione necessaria per sopravvivere. In verità, non era stato altro che un modo per sfogarsi: tutta l’aggressività accumulata da quando erano sulla nave era stata scaricata su degli estranei che avevano avuto la sfortuna d’incontrarli. Una catarsi che li aveva ammansiti, perché si erano resi conto con orrore di ciò che erano diventati.
“E io sono restato fermo a guardarli mentre si accanivano su quegli estranei, incapace d’agire, immobilizzato da quella follia.” Si era sentito smarrito in mezzo a quel un branco di bestie impazzite. Da allora non aveva visto i compagni di viaggio come prima: sarebbe scappato lontano da loro, se solo avesse potuto.
In un qualche modo la muta preghiera era stata ascoltata. O forse, più semplicemente, era stato il castigo per quello che avevano commesso. Pochi giorni dopo il fatto, si era scatenata un’altra tempesta, più violenta di quella che aveva messo fuori uso il timone: erano stati scagliati contro gli scogli, dove la nave era affondata. Metà di loro erano affogati, ma forse erano stati i più fortunati: chi era sopravvissuto, aveva raggiunto la riva. Lì era ricominciato l’inferno.
Esistono molti mondi: reali, immaginari. Non importa la loro natura: da ognuno di essi si può apprendere qualcosa.
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