Una rosa per Martina Pt.9

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Una rosa per Martina Pt.9



Il caldo mi faceva boccheggiare, rendendomi quasi isterico, ma ancor più quel modo irritante di stuzzicarmi che aveva mi mandava fuori di testa.
Fanculo a lei e a questo maledetto ascensore delle palle!
Perché questa cazzo di luce non tornava ancora?
Signetti si fece più vicina, potevo sentire l’aura calda del suo corpo, ci stavamo sfiorando.
- Sia sincero, Grimaldi, cosa c’è che non le piace in me? Me lo dica. La sento sfuggente nei miei confronti, come se la ripugnassi. È il mio viso che non le garba? Oppure è il mio corpo? Non sono il suo tipo?
La sua voce era un sussurro caldo da far rabbrividire.
Una tensione elettrica mi correva lungo la schiena, dovetti aderire alla parete della cabina per fermarla.
- Ma no! Cosa dice? Si figuri, lei è molto bella, glielo ripeto.
- E allora non sono il suo tipo? Com’è il suo tipo, Grimaldi? Una donna come sua moglie? O ha in mente un genere diverso? Chessò, qualcuna del suo passato, magari ora più lontana?
Cosa stava insinuando? Credevo di capirlo benissimo e questo non mi piaceva assolutamente.
Era chiaro che la stesse prendendo alla larga per portare il discorso sulla mia simpatia verso Martina: l’idea che si fosse fatta venire una mezza idea sull’identità del misterioso ammiratore che ogni mese le faceva recapitare una rosa sulla scrivania mi sembrava lampante.
- Non parla, Grimaldi? Non mi dice nulla? Avanti, siamo qui soli, non ci sente nessuno, può dirmelo, non mi offendo. Cosa non le piace di me, forse il mio profumo? - risatina sottile.
Tacevo, maledivo lei, quella sauna e quell’accidenti del suo profumo troiesco.
- Ma no, Signetti, cosa dice? Il suo profumo è… - balbettavo.
- Su, lo dica, non sia timido - incalzava senza darmi tregua. - Com’è il mio profumo? Me lo descriva, da bravo.
Si era avvicinata al mio orecchio.
- Lo sa che ha un buon odore, Grimaldi? - era un bisbiglio lascivo nel buio. - Sono pochi gli uomini che, sudando così, mantengono un odore gradevole. Lei sa di maschio, ma buono... piacevole.
Queste parole erano un soffio, mi parve di avvertire le sue labbra sfiorarmi il lobo.
Era il diavolo fatto femmina, questa donna. Cristo, se lo era!
- Mi ascolti, la prego: lei è una donna molto attraente, il suo profumo mi dà una vertigine. Se dovessi immaginare un tipo di donna desiderabile, mi creda, il suo sarebbe il primo che mi verrebbe in mente… Ma cerchi di capirmi…
- Cosa dovrei capire, Grimaldi? Avanti, me lo dica.
Le sue dita percorrevano lente la base del mio collo, poi scesero delicate, sfiorarono la peluria sul petto, mi graffiò piano un capezzolo, ci giocò con la punta delle unghie.
Il mio sesso se ne fotteva delle mie esitazioni, ormai tendeva il cotone degli slip e dei pantaloni, una reazione pulsante, quasi dolorosa.
- Signetti, la prego, io non sono per queste cose, non sono libero. Mi comprenda: amo mia moglie, sono un uomo sposato.
Era quasi un’invocazione, mendicavo la sua comprensione.
Ma non mi ascoltava, la sua mano si perdeva più in giù, sulla zip dei miei pantaloni.
- Anch’io sono sposata, Grimaldi. Non è una buona scusa. Ne cerchi un’altra.
La sua bocca sigillò la mia: il tempo delle parole era finito.
Alla fine otteneva quello che voleva, prendendoselo con imperio.
Non era abituata a rinunciare, se l’avessi respinta, posto che ne fossi capace, non me l’avrebbe perdonata.
Ormai era andata oltre, aveva varcato un limite dal quale non poteva tornare indietro.
La sua lingua morbida mi cercava, le risposi: baciava da sturbo.
Possedeva labbra soavemente carnose e bollenti, gliele morsi piano, tenendole la testa tra le mani.
Mi tirò a sé, sentivo i suoi capezzoli eretti contro il mio petto.
Le presi i seni tra le mani, a stento ne contenevo il volume, li carezzai e strinsi con veemenza, leccai il loro turgore, il sapido della sua pelle risvegliava pulsioni ferine.
Baciavo quei seni con voracità, passando da uno all’altro, li risucchiavo, li mordevo con foga, mescolando saliva e sudore.
Non era un sesso ardente e tenero, ma uno scontro di carne e corpi, una lotta di belve.
Le sue unghie mi rigarono la schiena mentre le nostre bocche si divoravano con una furia liquida.
Lottavamo, strappandoci di dosso i pochi indumenti con mani e denti.
Cademmo sulla moquette ruvida, avvinghiati in una lotta di fiati e gemiti, inseguendoci per cibarci di noi, come due animali in uno scontro di sopravvivenza.
Scese per cercarmi il sesso con la bocca: coprì il percorso con lentezza, esplorando la mia carne e il mio sapore, lasciando una scia umida fino ad accogliermi, ingorda, a fondo, quasi a soffocarsi.
Mi traeva a sé con rabbia, quasi temesse di perdermi: affamata come un cucciolo digiuno di cibo da tempo incalcolabile.
Ricambiai quel bacio intimo, risucchiandole il sesso con una ventosa inesorabile di labbra, gemeva sussultando febbrile, come le suggessi l’anima divenuta succo mieloso e asprigno.
Respiravamo con sibilo di mantici, le narici dilatate per cercare il rarefatto ossigeno del loculo che ci conteneva.
Sentivo martellare le tempie, gli occhi nel buio catturavano scintille luminose, bagliori rossi che esplodevano nel campo visivo.
Ci appellavamo con epiteti turpi, lasciando libere le parole più oscene del sesso.
Dicevo cose di una volgarità che non credevo di poter dire a una donna.
Lei le replicava senza ritegno, cercandone di più indicibili e sconce.
Colmavamo lo spazio di rantoli, sussurri, sospiri e invocazioni improvvise, privi di freno perché nessuno poteva udirci e il buio amniotico favoriva quell’abbandono dissoluto.
Non c’era tregua, non potevamo concedercela: rotolavamo, scivolando nelle nostre umidità impudiche, urticando la pelle sulla moquette abrasiva.
Cercavamo il gusto dei nostri fluidi, inseguivamo le scie dei nostri odori segreti in ogni piega della carne.
- Sei un porco, Grimaldi! Sapevo che fossi così. Scopami, figlio di puttana! Fammi sentire che mi vuoi.
La presi da dietro, con un gesto rabbioso, le imposi un amplesso violento da toglierci il fiato, la schiacciai sotto colpi brutali.
Immaginavo nel buio il suo viso deformarsi in una tensione di piacere dolorosa e scomposta.
A ogni mio affondo, la sua fronte urtava con un suono sordo la superficie dello specchio che avevamo davanti, lei ci appoggiava le mani, cercava disperata un appiglio per sorreggersi: i palmi viscidi scivolavano sul vetro in uno sforzo ansioso e vano.
Carponi sulle ginocchia, spingeva il bacino all’indietro per resistermi, per attutire la forza del mio attacco, pareva un uccello che si dibattesse per scampare alla trappola.
Mi scagliavo in lei con una brama rabbiosa che sapeva di vendetta, di intento a punire e piegare.
La tenevo in una morsa carnale che la privava di volontà, di potere; il mio bisogno di mingere coadiuvava un’erezione superba, avrei potuto continuare quell’assalto un’ora intera.
Ma cedette prima, urlò le sue implorazioni mentre tentava di resistere all’orgasmo che veniva a scuoterla come uno stelo nell’uragano.
Alla fine si arrese, si accasciò con un gemito di fiera abbattuta che sente la vita sfuggire.
Solo allora mi lasciai sciogliere nel suo calore, bruciando come una falena che terminava la sua vita sull’incandescenza di una lampada: esplosi in lei con un singhiozzo cupo.
Avevamo combattuto, ora la lotta era terminata.
Il mio sesso disciolto si ritirava da lei, l’avevo sconfitta nella sua natura più fragile e umana.
Restavamo in quel teatro di guerra, madidi e tremanti, abbandonati ai nostri respiri trafelati, boccheggianti come Galati morenti.
Ora taceva, non rideva più, persa nel suo silenzio con la mente lontana da quell’alcova olezzante dei nostri fluidi, del vapore umido e soffocante del nostro sudore di peccato consumato.
Era vinta, forse umiliata di sé.
Ma il mio trionfo era un’effimera scaramuccia guadagnata, mentre la vera guerra era perduta.
Uscimmo da quell’ascensore alle otto della sera, quando quelli delle pulizie, di cui ci eravamo totalmente scordati, miracolosamente si accorsero che eravamo rimasti reclusi lì.
Li benedicemmo, grati, come fossero angeli inviati dal cielo a soccorrerci.
Chiamarono i vigili del fuoco che, nel giro di un’ora, ci liberarono da quell’incubo.
La prima cosa fu di lanciarci verso i bagni del piano.
Credo di non essere mai stato prossimo a un’esplosione della vescica come in quella tragica serata.
Uscendo, non ci salutammo neppure, ognuno andò via col suo carico di pensieri, col peso di quanto era accaduto, senza guardarci per non leggerci negli occhi la colpa di quella nostra follia.


(Continua)

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