L'incontro – Pt.1

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La cliente - Costruttori di Mondi


    
Piccola nota introduttiva.


Per tornare su questo nostro forum con della narrativa, ripropongo in versione corretta e ampliata questo vecchio racconto, qui iniziato e mai terminato, nella sua completa e conclusiva stesura.
Le parti iniziali saranno note a chi ha buona memoria tra i miei gentili lettori; a loro chiedo di pazientare in attesa delle puntate inedite.
Vi ringrazio in anticipo per la vostra disponibilità nel leggermi e per eventuali graditi commenti.
Un caloroso saluto a tutti.






L'incontro – Pt.1



"E correndo mi incontrò lungo le scale
Quasi nulla mi sembrò cambiato in lei
La tristezza poi ci avvolse come miele
Per il tempo scivolato su noi due
Il sole che calava già rosseggiava la città
Già nostra e ora straniera e incredibile e fredda
Come un istante 'déjà vu'
Ombra della gioventù, ci circondava la nebbia."
(Francesco Guccini – Incontro)



Era il tramonto di una tiepida giornata autunnale e rientravo a casa.
Avevo tardato col lavoro in ufficio, salivo le scale a passo svelto, ero in ritardo per la cena.
Me la trovai davanti all’improvviso, ci incrociammo sul pianerottolo del primo piano: lei scendeva con la stessa fretta con cui io salivo.
Il verdazzurro del suo sguardo lo avrei riconosciuto tra la folla del giudizio universale: arrestò il mio passo e il mio fiato in gola.
Incredulo per la sorpresa, rimasi bloccato come un insetto nell’ambra.

- Patrizia! - esclamai in un’esplosione di gioioso stupore.
- Ciao! - rispose raggiante. – Dio, quanto tempo! Che bello vederti, come stai?
La sua voce non era cambiata: morbida, cristallina, luminosa come lei.
Ero sbalordito, trovarmela sulle scale di casa aveva dell’incredibile.
Nulla, nonostante il tempo trascorso, era cambiato in lei: la figura snella e aggraziata, i capelli biondi, lucenti come seta, che sfioravano le spalle, quel viso che mi aveva sempre fatto pensare alla splendida Candice Bergen in Soldato Blu.

- Io bene - risposi con emozione. - Non m’aspettavo di incontrarti. Come mai sei qui?
Lei assunse un’aria perplessa, come se non capisse il senso della domanda.
Poi, con un riso di denti candidi: - Tesoro, io qui ci abito. Infatti volevo farti la stessa domanda: com’è che sei qui?
Scese un attimo di silenzio, un’esitazione reciproca per mettere a fuoco quella bizzarra situazione.

- Cioè, mi stai dicendo che abiti qui nel palazzo? - dissi, dubbioso per l’assurdità della domanda.
Annuì con decisione: - Sì, certo, da anni. Sto all’ultimo piano.

- Io al secondo – dissi. - Ma come è possibile che non ci siamo mai incontrati prima d’ora?
Lei mosse un tremito di labbra per rispondere, ma restò muta per l’impossibilità di formulare una spiegazione plausibile.
Mi incantava il suo ovale; ricordavo il ritratto a matita sanguigna che le avevo fatto negli anni del Liceo Artistico, passati nella stessa classe.
Durante le lezioni di figura dal vero, facevamo a turno tra noi compagni nel posare come modelli; anch’io, al mio turno, mi ero prestato.
Ero fortemente perplesso e, al contempo, felice da toccare il cielo con un dito.
Non riuscivo a spiegarmi come potesse accadere di vivere nello stesso edificio da anni e ignorarlo, ma la felicità dell’averla ritrovata, pur per un qualche misterioso incantesimo, cancellava ogni esitazione.
Quanto l’avevo cercata col pensiero e con una stretta di nostalgia nel petto, sapendola lontana chissà dove, senza mai trovare il coraggio di cercarla realmente.
Perché non mi riusciva di dimenticarla, nonostante gli anni.
Il ricordo di lei, ogni volta che credevo di averlo rimosso, tornava come il ciclico alternarsi delle stagioni e mi colmava l’anima di un rimpianto sordo.
Lei era una cosa che avrebbe potuto essere, ma non era stata.
Era una pagina lasciata a metà, una frase non detta, una promessa non mantenuta.
Il tempo trascorso sembrava essersi arrestato ai suoi anni del liceo: nei tratti del viso non una ruga segnava il candore dell’epidermide, non un’ombra nello sguardo chiaro come l’anima che lo sorreggeva.

- Patrizia, non mi spiego come sia successo di vivere qui e non esserci mai incrociati. Ma sono solo felice che tu ci sia.
Rise. - È veramente incredibile, siamo svalvolati come quando ci facevamo le canne. Sarebbe da raccontare. Anzi, no, meglio se non lo raccontiamo.
Ridevamo di un riso scanzonato che aveva il sapore della nostra giovinezza.
Quel suo riso lo conoscevo e mi donava una consolazione calda, come un balsamo che medica una vecchia ferita: lei era qui e l’avevo finalmente ritrovata.

- Mi sei mancata, sai? Mi avevano detto che fossi partita, ma nessuno sapeva dirmi per dove.
- Lo so. Mi sei mancato anche tu.
Ci abbracciammo stretti, come due anime sperdute che si ritrovino ai margini del deserto.

- Dobbiamo recuperare il tempo perduto – dissi. - Dobbiamo raccontarci questi anni di distanza.
- Sì, lo faremo. Non ci separiamo più - rispose con gli occhi lucidi.
Ero preda di un fremito incontenibile, mi pareva di esplodere per l’intensità dell’emozione.
La sua bocca era un richiamo sognato troppo a lungo: ci baciammo in maniera dolcissima, il suo profumo era una carezza per l’anima.

- Ti amo, Patty - sussurrai col cuore sulle labbra.
Poi mi svegliai con l’anima in tumulto: era stato solo un sogno.
Erano le sette del mattino, mia moglie mi dormiva al fianco nel nostro letto.
Entro mezz’ora la sveglia avrebbe trillato, mi sarei dovuto alzare per la doccia, un caffè e prepararmi per l’ufficio.
Mi ci volle una decina di minuti per uscire dalla sensazione di realtà del sogno e recuperare la dimensione del reale.
La sua presenza, la voce, il calore delle labbra e del corpo stretto a me erano incredibilmente vividi: ne avvertivo la presenza fisica, come se mi fosse stata accanto fino a qualche attimo prima.
Stranamente non mi sentivo deluso che fosse stato unicamente un sogno; ero insolitamente felice, provavo la sensazione di aver ricevuto un dono o una sorta di illuminazione.
Per assurdo mi sentivo come in colpa con mia moglie, per quel sogno che aveva il sapore di un tradimento.
Mia moglie era stata molto gelosa di Patty, l’aveva sempre vissuta come una probabile rivale, anche se tra me e lei c’era stato solo poco più di una tenera amicizia.

Patrizia Ballantin era una mia compagna di classe al I° Liceo Artistico, situato all’interno dell’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino; il suo nome era Patty per tutti.
Patty, in quel tempo, girava con un tale Marco, un ragazzo di un anno più grande di noi, di un’altra sezione.
Uno sveglio, intraprendente, anche troppo: trafficava con lo shit e le dosi di acido, inoltre faceva il DJ in certi locali la sera.
Io stavo già da un anno con Sampo, la mia futura moglie; frequentavamo entrambi l’Artistico, ma nei due licei separati della città.
Avevo presentato Patty a Sampo in occasione di un’uscita in quattro, con lei e il suo ragazzo.
In quel tempo, con Sampo, avevamo affittato una soffitta in un fatiscente edificio della zona Vanchiglia.
Un tugurio infimo nel sottotetto, arredato unicamente da un letto e un comodino, dove quasi ogni pomeriggio andavamo a fare l’amore.
Per un qualche mistero dell’animo femminile, Sampo si era convinta che io piacessi a Patty e, soprattutto, che Patty piacesse a me.
Questo fece sì che, per i restanti anni di scuola, non uscissimo più insieme con lei e il suo ragazzo; inoltre, fu l’inizio di una serie di sospetti su una nostra possibile tresca segreta.
Per la verità, in quel momento, i miei sentimenti verso Patty erano del tutto innocenti.
La ritenevo solo una cara amica con la quale condividevo gusti letterari, musicali e artistici, nulla di più.
Tutto era nato da un banale incidente. Avvenne che una volta Patty mi domandasse la cortesia di prestarle la nostra soffitta per andarci un pomeriggio col suo ragazzo.
Mi trovai in imbarazzo, perché non avevo motivi per rifiutare, ma al contempo sapevo bene che, se la cosa fosse giunta alle orecchie di Sampo, si sarebbe presentato un concreto problema.
Il solo collegare il nome della mia compagna di classe alla soffitta avrebbe scatenato le fantasie più malevole della mia ragazza; sarebbe riuscita sicuramente a vedere un’intesa intima e sospetta tra me, Patty e quel luogo di peccato.
Decisi di lasciarle le chiavi della soffitta senza dire nulla a Sampo, per la buona regola di: “Occhio non vede, cuore non duole”.
Un piccolo sotterfugio innocente in nome del quieto vivere.
La cosa sarebbe scivolata via in silenzio, senza conseguenze.
Ma non andò così: è noto che “le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni”.
Quanto impervia e incerta fosse quella strada si rivelò assai presto, quando, due giorni dopo, io e Sampo, facendo l’amore, trovammo nel letto della soffitta un piccolo anellino con una graziosa pietra azzurra.
Questo minuscolo gioiello spalancò le porte dell’inferno.




(Continua)

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