Il seme dell’odio Pt.14

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Il seme dell’odio Pt.14




Torino - De Petris - maggio 1980


Se da una parte il timore per la pericolosità del pozzo si era dissolto,
una nuova maggiore angoscia gli aggredì la mente: “qualcuno aveva preso il bambino!”
Gli balenò improvvisa la possibilità che, un estraneo, fosse presente nel posto prima del suo arrivo e lo avesse rapito.
Non voleva neppure pensarci! La sola idea di suo figlio fra le mani di uno sconosciuto gli procurava una vertigine di smarrimento.
Non era possibile che fosse accaduta una cosa simile nel volgere di pochi istanti: che tutto fosse avvenuto in silenzio, senza un solo grido del bimbo; così rapidamente da far pensare a un agguato premeditato.
Ma chi mai avrebbe potuto rapire suo figlio e per quale motivo poi?
Non certo per ottenere un riscatto: non era mica il figlio di un miliardario.
Una vendetta legata al suo mestiere di poliziotto? Ma da parte di chi?
Lui non seguiva di certo indagini sui clan mafiosi o sul racket della prostituzione: aveva sempre arrestato solo ladri di polli, qualche piccolo pusher che spacciava; roba di pesci piccoli, piccola delinquenza comune.
Nessuno di loro avrebbe pensato di portargli via il figlio per vendetta, inoltre, compiendo la cosa con un tempismo perfetto, da professionisti.
Per altro nessuno poteva sapere che quel pomeriggio si sarebbero trovati in quel parco, a fare quel gioco che li separava per qualche minuto.
No. Non poteva essere una cosa organizzata.
Però era anche possibile che l’ imprevedibile accadesse, in realtà nulla si poteva escludere con certezza.
Certi individui erano come lupi, sempre pronti a cogliere l’opportunità per compiere il loro nefasto progetto.
La cronaca dei giornali e le notizie di reato legate al suo lavoro, non di rado parlavano di sottrazioni di minori a opera di qualche squilibrato, o peggio di un maniaco, avvenute in condizioni di casualità.
Piccole vittime che sovente non venivano più ritrovate, o ritrovate avendo subito sevizie, quando non prive della vita stessa.

Il senso di colpa per aver lasciato entrare il figlio da solo nel Borgo, gli colmò la mente come una colata di bitume incandescente: si sentì perduto, privo di riferimenti, senza un’idea di cosa fare.
I pensieri spaventosi e incalzanti, erano fitte acuminate di coltello che gli devastavano il cervello.
Non poteva lasciarsi travolgere da quelle emozioni che gli impedivano di affrontare lucidamente quella situazione: doveva ritrovare la ragione.
Chiuse gli occhi, le cose intorno vorticavano in una sarabanda violenta: si appoggiò a un muro per ritrovare la forza di reggersi in piedi; cercò il controllo della respirazione, un sudore gelido aveva inzuppato la camicia, gli pareva d’avere la febbre.
Respirando lentamente per qualche minuto, sentì decelerare le pulsazioni cardiache: si impose di allontanare, al momento, l’ipotesi troppo contorta del possibile rapimento.
Prima di cedere a quell’incubo, doveva essere certo di aver analizzato ogni aspetto legato a quell’allontanamento.
Cazzo! Doveva verificare solo i fatti reali, senza dare spazio a fantasie allarmanti.

Tornò a valutare le possibilità di percorso che il bimbo avrebbe potuto compiere per volontà sua.
Vi erano solo due vie d’accesso a quel posto cintato di mura: se non era uscito dalla prima, non restava che accertarsi se avesse usato la seconda.
Era in teoria la spiegazione meno probabile: il bimbo da sempre era stato messo in guardia dall’uscire per quel varco se non accompagnato.
Ma era pur sempre di un bambino di quasi cinque anni, vivace, curioso e intraprendente, poteva aver ceduto alla tentazione di trasgredire l’ordine.
Se davvero fosse uscito da quella porta, giurò che gli avrebbe dato una severa sculacciata: sarebbe stata la prima e forse l’ultima ricevuta nella sua vita.
Lui e sua moglie erano contrari a punizioni corporali, ma questa era l’eccezione che confermava la regola: di certo, in futuro, non avrebbe più ignorato a una proibizione che gli era stata imposta..

Il viale che sia apriva al di là della seconda porta era una striscia
d’ asfalto, lunga un centinaio di metri in lieve salita, si biforcava conducendo a una larga scalinata in pietra, che saliva alla strada costeggiante il parco.
L’altro tratto di viale era carrabile e si raccordava, al corso Massimo
d’ Azeglio.
Alla destra si stendeva il prato fiorito del parco, alla sinistra una fitta siepe, alta un metro, costeggiava il viale, separandolo dal del fiume.
De Petris si guardò rapidamente intorno: sul prato non c’era anima viva, quindi rivolse l’attenzione al lato con la siepe.
Forse il bambino l‘averla attraversata in un tratto dove gli arbusti erano meno fitti, per accucciarsi nascosto in attesa del padre.
Attraversò la siepe: oltre essa c’era una striscia di terra larga poco più di due passi, la quale declinava rapidamente verso il letto del Po, gonfio d’acqua dopo la pioggia dell’inizio settimana.
L’erba era umida e scivolosa, la terra friabile, si mosse con attenzione per non scivolare in quell’acqua torbida per i detriti fangosi smossi dalla corrente.
Il tratto a destra risultò vuoto fino all’imbarcadero turistico per il battello di visita al fiume.
Scandagliò con lo sguardo il tratto sinistro: l’argine correva per una trentina di metri fino ai piedi del ponte “Isabella”: anche lì nessuno vi si era acquattato.
Rimase muto e sconfitto a guardare lo scorrere impetuoso del fiume.

In quello stato di assenza di sé, fu attratto da un luccichio ai piedi del primo dei tre piloni di campata del ponte: qualcosa, fra resti di rami secchi e detriti trascinati dalla piena, era rimasto incastrato in quel punto.
Da prima non comprese di cosa si trattasse.
Svogliatamente aguzzò la vista per osservarlo meglio.
Allora capì: i bagliori erano causati dalla luce pomeridiana, che batteva sulle parti “a specchio” della plastica di un palloncino a forma di coniglio.
La corrente lo faceva sobbalzare investendolo ripetutamente.



Torino - fine maggio 1985


Vesna giunta alla fine del sentiero, fu in vista dell’edera rampicante che ricopriva le mura della vecchia cascina: cercò le chiavi nella capace borsa tracolla Louis Vuitton che portava in spalla.
Nell’entrare in casa, fu aggredita da un tanfo acre di putredine ed escrementi che le mosse un conato di vomito.
Quando accese la luce la lampadina rossa illuminò, con crudezza sinistra, alcuni resti in decomposizione di topi con la testa mozzata.
Comprese che quell’essere sciagurato, partorito dal suo ventre, si era nuovamente cibato del loro sangue.
Sul consunto tavolato della stanza, macchie di sangue raggrumato ormai nere, segnavano il percorso di quei pasti ripugnanti.
Quelle più ampie indicavano il punto in cui i denti del bimbo avevano decapitato l’animale: le teste dei ratti giacevano sparse all’intorno; lo stillicidio di gocce minute mostrava la strada percorsa con la preda in mano, mentre veniva lentamente dissanguata.
Una vertigine di disgusto la costrinse ad appoggiarsi alla parete nera della stanza: le scritte recanti i simboli runici inneggianti alla gloria di Satana, poste in cima a ogni muro, sembrarono inseguirsi in una danza macabra all’interno del locale.
La casa si stendeva in quattro vaste stanze in comunicazione tra loro.
La prima, con la porta d’entrata, comunicava con l’esterno e serviva da soggiorno, conteneva pochissimi elementi: un tavolo, alcune sedie, una madia, un piccolo frigo e una cucina elettrica.
Da quella si passava alla seconda, dove era allestito il “tempio del maligno”, conteneva quanto era utile per i riti di maleficio e la celebrazione delle messe nere.
Nella terza, assai disadorna, ospitava la camera da letto di Vesna.
Da essa si accedeva a un bugigattolo che serviva da bagno e alla squallida stanza col pagliericcio, in cui dormiva il bambino.

Un’ira sorda sostituì la nausea che l’aveva colta: la misura era colma, quel piccolo mostro non l’avrebbe passata liscia; quella storia doveva finire.
La sua sopportazione era terminata: l’avrebbe punito come doveva e incatenato al suo giaciglio, quelle pratiche abominevoli sarebbero cessate per sempre.



(Continua)
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