La fine del mondo pt. 3

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La fine del mondo pt. 3

Leo cercò di distrarsi da quello sguardo che gli diede più brividi che altro.
«Per ora, finché non so come spedirti in cielo e come creare un pianeta, galleggerai a mezz’aria e mi seguirai ovunque. Che ne dici?»
Il sole, in silenzio, lo seguì.
Si girò e si mise a guardare ciò che lo circondava. Intorno a lui dune a profusione. Davanti a lui la palla di terra, sulla sinistra la pozzanghera con l’acqua, e a destra i montarozzi di terra e di fango, più basso e dalle curve più tenere.
«Sole, non so come lavorare alla Terra.»
«I pianeti non si piegano alla violenza, ma alla carezza distante del creatore.»
Leo guardò il sole, e si rese conto che istintivamente lo aveva messo a galleggiare a mezz’aria. Allora prese la terra sotto un braccio, si posizionò a gambe larghe e poggiò l’altra mano a terra. Si guardò intorno, per valutare se fosse il posto giusto. Si alzò e si spostò un po’ più distante dalle poche risorse che aveva lì davanti a lui. Si mise sempre a gambe larghe e mise la mano libera a terra e gridò, per sentirsi più sicuro di sé:
«Qui si alzerà un promontorio che seguirà la mia mano!»
E tirò su la mano con forza. La cenere seguì la sua mano e si impennò, montò e si gonfiò come un’onda. Leo ci salì sopra, tutto fiero, mentre la cenere scivolava sotto i suoi passi e ordinò alla Terra:
«Galleggerai davanti a me! A mezzo metro!»
E la lanciò davanti a sé. La terra rimase a mezz’aria, a mezzo metro dal culmine del promontorio da cui Leo si sporgeva come un profeta di altri tempi.
Leo scese dal promontorio guardando il sole con uno sguardo soddisfatto.
«Forse siamo riusciti a rendere il pianeta lavorabile, ma come posso gestire la materia prima?»
Il sole gli rispose:
«Hai mani troppo piccole per ciò che hai generato, riempi un luogo segreto che non si colma, più grande del mondo stesso.»
Si guardò intorno, e si chiese cosa potesse esserci di segreto in un mondo così spoglio. Nel farlo si mise le mani in tasca, e dopo aver fatto un giro su se stesso si fermò a guardarsi le scarpe, non sapendo che fare. Fu in quel momento che notò le tasche. Avrebbe potuto mettersi un bel po’ di cenere in tasca.
«Voglio che l’interno della mia tasca destra diventi infinito! E che un paio di…»
Pensò all’unità di misura, e non sapendo che decidere, pensò ai metri cubi.
«E che un paio di metri cubi di questa cenere mi salti in tasca!»
Una colonna di cenere si alzò e si piegò e gli si riversò in tasca, dopo essersi attorcigliata intorno alla sua gamba sinistra. Infilò la mano in tasca, e sentì il vuoto, senza riuscire a sentire nulla, né la tela, né la cenere, solo il bordo della tasca.
«E che io possa sempre arrivare a ciò che desidero nella mia tasca!»
Si guardò intorno. E realizzò che era ad un passo fondamentale della creazione del pianeta.
«Ho bisogno di un’isola per forgiare pianeti, sole!»
Il sole sembrò annuire a questa affermazione.
Leo si rese conto di non essere in grado di misurare in metri quel che aveva intorno, dunque si mise a contare in passi, e cercò di tracciare coi piedi un limite.
Tracciò un rettangolo immaginario: una trentina di passi a destra e a sinistra del promontorio, quaranta passi dietro di esso. Poi si mise al centro del rettangolo e ripeté tutta una serie di parole alla rinfusa per essere sicuro di non dimenticare nulla, assolutamente nulla, e solo quando fu assolutamente certo di non sbagliare si fermò e gridò con tutto il fiato che aveva in gola:
«Ora voglio che tutta la cenere fuori da questo rettangolo — e quella cento passi sotto — entri nella mia tasca, e che l’isola galleggi in aria insieme alla terra!»
Immediatamente volubili colonne di cenere si sollevarono, attorcigliandosi in tornadi che danzavano nell’aria. Si univano e si separavano seguendo una musica invisibile, tutta convogliata verso la tasca di Leo. La forza della materia era tale che il ragazzo fu sollevato in volo. Cercò di divincolarsi, ma in pochi attimi tutto si stabilizzò: davanti a lui rimanevano solo l’isolotto e il piccolo pianeta, mentre Leo cadeva a terra, esausto e incapace di capire cosa fosse realmente successo.
Quando si rialzò, si guardò intorno e rimase affascinato da ciò che vedeva. Intorno a sé, il nulla cosmico, se non questa striminzita isoletta — una decina di metri esagerando — dalla quale sporgeva un promontorio di un paio di metri.
Si avvicinò e si sporse sul vuoto: il buio cosmico inghiottì il suo sguardo per infiniti orizzonti. Poi gli occhi si posarono sulla sua creazione, una terra umida che giaceva lì, nel vuoto, in attesa di qualcuno che si prendesse cura di lei.
Si chiese come fare, e istintivamente si infilò la mano in tasca. Con la mano e il pensiero richiamò la cenere e se la ritrovò tra le dita.
Guardò il palmo: un filo di cenere, quasi un rivolo, scivolava fino alla tasca. Senza pensarci diresse la mano verso il pianeta nano. Come se una parte di sé sapesse già cosa sarebbe successo, la cenere si sollevò silenziosa, come la tela di un ragno, e si riversò sul pianeta, lasciando un filo di terra ovunque passasse.
Con un gesto della mano Leo esortò il pianeta a ruotare, senza neanche sfiorarlo, e quello non se lo lasciò ripetere. Allora Leo disse di voler così tanta cenere da veder crescere il pianeta a vista: il fiotto divenne un torrente, poi un fiume che sgorgava dalla sua tasca e scorreva sulla sua mano. Chiese che lo facesse crescere omogeneamente, senza concentrarsi su un punto, e il flusso di cenere avvolse il pianeta come una carezza.
Il corpo celeste girò per un tempo infinito. Sembrò che passassero giorni: cresceva, senza sosta, ma lentamente. Dopo un po’, per quanto entusiasta, anche Leo sentì il bisogno di fermarsi.
Il pianeta era diventato enorme: non riusciva più a vederne i bordi come prima. Così grande da sembrare immenso. Ma ancora dannatamente piccolo rispetto a quello che forse era stato il suo pianeta natale.
Leo scese dal promontorio con il Sole che lo seguiva, come sempre, qualche metro dietro, e si andò a spiaggiare sulla cenere, nella speranza di riposarsi.
Di fronte a sé trovò il vuoto ad attenderlo, come sempre. Quello stesso vuoto di prima: brutale, feroce, disperato e silenzioso. Allora si avvicinò al bordo e guardò giù.
«Quanto è alto da quassù, Sole?»
«Non ha fondo, Leo. È così grande che ci si perde per sempre. A volte, quando qualcosa è troppo vuota, può riempirsi di qualcos’altro.»
Leo deglutì. L’idea di qualcosa che si agitasse lì, nel buio, non lo entusiasmava, e cercava spasmodicamente con gli occhi forme e segni che lo scrutassero dall’oscurità.
«E secondo te, Sole, vedrei muoversi questa cosa?»
«Puoi vedere il buio muoversi nel buio?»
Leo alzò lo sguardo verso il Sole, che lo fissava con quel sorriso inquietante, e lo guardò parecchio preoccupato.
Laggiù, il buio lo osservava. O almeno così il Sole suggeriva. C’era davvero qualcosa? O stava solo cercando di spaventarlo, come gli altri bambini intorno al fuoco ai campi scout?
Si sporse un’altra volta, sbirciando, quasi desiderando che ci fosse qualcosa. Si chiedeva, da un lato, cosa potesse mai esserci, laggiù nel buio: questa paura così grande e nera. Cosa ci fosse di così spiazzante, da non far paura al Sole, ma almeno da metterlo in allerta.
Per quel che poteva sembrare il Sole, che era un po’ indecifrabile.
Leo decise di smettere di tormentarsi, non riusciva comunque a riposare, e decise di riprendere a lavorare, anche se ormai si sentiva decisamente osservato.

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