Una rosa per Martina Pt.11

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[MI 184] Ti aspetto al solito posto - Costruttori di Mondi


Una rosa per Martina Pt.11


Al termine di quelle vacanze feci ritorno in ufficio con la serenità d’un condannato a morte che abbia elaborato la pena che dovrà affrontare.
Dopo la ferma decisione di ammazzarmi, avevo deciso di godermi appieno il restante periodo di ferie e di vita: tutto mi appariva come un regalo in quei miei ultimi giorni d’esistenza.
Il mare, il sole, i bagni allegri in acqua con mia figlia, le nostre cene a base di pesce in qualche ameno ristorante erano state ricche di soddisfazione.
Anche il sesso con mia moglie era andato splendidamente, senza essere turbato dalla memoria della Signetti.
Se dovevo morire, non intendevo privarmi d’alcunché: sarebbe stato estremamente stupido vivere la vita che mi restava angosciandomi per la sua fine.
In fondo, nessuno aveva la garanzia di vivere l’età di Matusalemme.
Alcuni non arrivavano neppure a essere anziani, si moriva a qualsiasi età, anche in fasce o agli albori dell’adolescenza.
Io ero stato assai fortunato: la mia vita, fino a quel momento, era stata ricca d’esperienze, di eventi buoni o cattivi, lieti o dolorosi, ma era stata una vita piena e vissuta intensamente.
Fino ad allora potevo dirmi un uomo appagato e fortunato: nel lasciarla, non mi portavo dietro alcun rimpianto.
Anche questo tragico, esiziale vuoto di memoria era nato da una situazione complessa nella quale mi ero speso attivamente.
Avevo lottato per qualcosa, per difendermi, senza subire passivamente il destino e le mire della Signetti.
Alla fine, il peso degli eventi mi aveva messo al tappeto: i neuroni avevano staccato i loro collegamenti, lasciandomi in quel blackout di memoria, uno scherzo momentaneo della mente stanca di lottare.
Pazienza, la vita era un grande gioco: a volte si vinceva, più spesso si perdeva. Faceva parte delle regole del gioco.

Nelle settimane di vacanza inoperosa avevo affrontato il problema tecnico di come farmi fuori, che presto avrei dovuto considerare.
Pareva una cosa semplice ammazzarsi, ma quando entravi nell’idea di farlo, i problemi si facevano seri.
Intanto c’era da scegliere il luogo, il modo e il tempo, e soprattutto compiere il gesto senza dare troppo disturbo a chi restava.
La casa, ad esempio, era comoda, ma andava esclusa a priori.
Non potevo impiccarmi in casa, sempre che avessi optato per l’impiccagione. Avere una corda robusta, fare un nodo scorsoio tipo quelli visti nei film western e anche saponarlo per lo scorrimento non erano un problema, ma dove diavolo m’appendevo in casa mia?
Non avevo lampadari al centro delle stanze, solo applique al muro con luci alogene.
Mica potevo piantare all’improvviso un gancio sul soffitto del salotto.
Che dicevo a mia moglie, che volevo giocare a fare Tarzan con la liana?
Una cazzata! Poi, figurarsi, anche se ci fossi riuscito, che regalo avrei fatto a mia moglie e mia figlia facendomi trovare appeso, rigido, stecchito, con la lingua di fuori.
Non se ne parlava.
Pure tagliarsi le vene nella vasca da bagno era improponibile.
Io immerso nell’acqua, galleggiando nel mio sangue, era una scena da film horror: mi faceva senso solo a pensarci.
Anche lanciarsi dal balcone di casa dal quinto piano non era una grande idea. Sì, magari morivi. Infatti, anni prima, un’inquilina del piano di sotto, affetta da una malattia terminale, l’aveva fatto: il risultato era orribile da vedersi.
Quel sangue, le ossa fuoriuscite che trapassavano le carni e la materia cerebrale da raccogliere sul cemento del giardino...Dio, che orrore per chi restava.
Avvelenarmi con i barbiturici era una stronzata: a parte non avere idea di quanti ingoiarne per restarci secco, era rischioso e doloroso.
Quelle schifezze, mentre ti ammazzavano, procuravano fitte e spasmi allo stomaco dolorosissimi, bava verde alla bocca che faceva schifo.
Inoltre, se sbagliavi il colpo, qualcuno ti spediva al pronto soccorso e ti sparavi una lavanda gastrica con relativo intubamento e sonda per lavarti le budella: ti salvavano, facevi la figura dello scemo e dovevi ricominciare ad ammazzarti da capo
Spararmi in bocca con una pistola, da qualche parte in macchina, sarebbe stato efficace se avessi posseduto un porto d’armi e una pistola, ma l’unica che avevo era una pistola ad aria compressa con cui giocavo da ragazzo, che sparava solo gommini inoffensivi.

Alla fine avevo deciso che il treno fosse la soluzione più giusta.
Bastava sedersi sui binari di notte, dando le spalle alla direzione d’arrivo del convoglio, magari nel tratto ferrato di fronte al mio ufficio.
Lì, infatti, il treno vi giungeva dopo la curva sotterranea dalla galleria che univa la stazione di Porta Susa con quella di Porta Nuova: il macchinista non avrebbe avuto il tempo di vedermi sulle rotaie, né di fermarsi.
Io, voltato di spalle, con i tappi nelle orecchie, non ne avrei neppure sentito l’arrivo.
L’impatto mortale sarebbe stato violento e istantaneo, senza darmi il tempo di rendermene conto: in una frazione di secondo tutto sarebbe finito, velocemente e indolore. Sarebbe stato perfetto.
Avrei potuto compiere il tutto in una sera all’uscita dal lavoro; anche il periodo era favorevole: le giornate autunnali si accorciavano e il buio precoce sarebbe stato un complice perfetto.
Il cataplasma dei miei resti sarebbe stato raccolto dalla squadra di vigili del fuoco inviati sul posto.
Loro erano organizzati e abituati a quegli incidenti, che costituivano una parte sinistra del loro ingrato mestiere.
Il mio portafoglio con i documenti d’identità non avrebbe dato problemi alla mia identificazione, e la mia famiglia sarebbe stata avvertita quando i miei resti fossero già stati raccolti in una cassa zincata.
Certo, la cosa sarebbe stata assolutamente luttuosa, ma almeno avrei risparmiato alla famiglia lo shock di ritrovare il mio cadavere.
Si sarebbe parlato di un drammatico incidente, forse il gesto estremo di un manager in crisi depressiva, una vittima dello stress dovuto alla vita moderna. Forse, in ufficio, non avrebbero neppure collegato l’insano gesto al casino che avevo combinato, e la mia liquidazione sarebbe stata interamente corrisposta alla mia vedova.

Con questa ritrovata serenità olimpica del condannato a morte che ha accettato di buon grado la sua sentenza capitale, ripresi il lavoro e mi immersi nelle mansioni del mio ufficio.
Ben sapendo che sarebbe servito a nulla, la prima cosa che feci fu redigere e far spedire alle agenzie dei media le opportune raccomandate con l’annuncio della revisione a scalare del piano mezzi.
Il ritardo le avrebbe rese nulle, ma era meglio che agli atti restasse che la comunicazione fosse avvenuta, benché con quel grave ritardo.
Ovviamente, non feci parola in azienda della puttanata che avevo compiuto: era inutile anticipare la tempesta che comunque non avrebbe tardato a venire. Tanto valeva affrontarla solo nel momento in cui sarebbe scoppiata.
Della Signetti ancora non c’era traccia: mi avevano detto che il suo periodo di vacanza, poiché possedeva delle ferie non godute, sarebbe durato ancora una settimana.
Quindi avevo ancora qualche giorno di pace, prima che la barca si trovasse nella violenza delle onde che l’avrebbero fatta inghiottire dall’abisso.
Dopo due giorni dalla spedizione delle raccomandate, come previsto, il mio telefono venne scosso dalle chiamate delle varie agenzie, e fin qui tutto rientrava nella norma.
Ma la vita, talvolta, si prende gioco degli uomini: li pone di fronte a drammi spaventosi, li massacra con la prospettiva di qualcosa di ineluttabile che li annienterà, li porta a cercare soluzioni estreme, poi di colpo ti dice: “Abbiamo scherzato, ci avevi creduto? Te la sei mica presa?” e si fa una grande risata sardonica.
In realtà, quanto successe lo trovai inimmaginabile.
Non ero credente, ma davanti a una cosa di questo genere non avevo altra spiegazione se non che fosse avvenuto un vero miracolo.
Mi aspettavo che le agenzie mi aggredissero, incazzate come puma a digiuno da settimane.
Ero pronto a prostrarmi di scuse per l’imperdonabile ritardo con cui avevo comunicato la modifica del pianificato, ma non avvenne nulla di simile.
Una dopo l’altra, telefonicamente, tutte mi confermarono di prendere atto della nuova pianificazione, adeguandosi a quanto richiesto.
Ero basito, incredulo. Riflettendoci, ipotizzai che, piuttosto che aprire una vertenza legale per il rispetto integrale del contratto, avessero optato per la scelta dei “pochi, maledetti, ma subito”, evitando spese legali e di giocarsi il futuro rapporto col cliente. Comunque, quale che fosse la recondita motivazione dietro la cosa, per me era grasso che colava.
Fu come cadere dall’alto dei cieli e scoprire che al suolo mi attendeva uno strato di spessa e soffice bambagia nella quale planavo delicatamente, come un pulcino che si adagia nel proprio nido.
Era il mondo alla rovescia: tutto ciò che sapevo sui rapporti che regolavano gli accordi tra i clienti e le agenzie dei media era saltato.
Una cosa a dir poco fantastica. Non solo la mia pena di morte veniva sospesa, ma si depennava l’intero crimine che l’aveva generata: ero libero, graziato e vivo.
Non dovevo più ammazzarmi!
Questo mi rendeva a dir poco euforico.
Quella sera portai la mia famiglia a cenare nel miglior ristorante della collina. Mia moglie, stupita, chiese se stessimo festeggiando qualche evento che le fosse sfuggito.
Dissi solo che ero oltremodo felice della nostra vita ed era giusto, ogni tanto, ricordare la ricchezza e la fortuna che possedevamo: questo meritava di essere festeggiato.

La Signetti, allo scadere dei sette giorni, fece ritorno dalle sue vacanze.
La cosa, dopo quanto avevo passato, non mi dava alcuna preoccupazione: di lei e di ciò che avrebbe voluto fare in futuro me ne infischiavo altamente. Avevo appena scampato la morte, certo non potevano preoccuparmi gli eventuali progetti e le macchinazioni d’una zoccola infoiata.
Nella settimana successiva non accadde nulla: io facevo il mio mestiere e lei il suo, senza incontrarci neppure alla macchina del caffè.

Confidai che con le vacanze si fosse calmata, forse mettendosi definitivamente l’anima in pace.
Me ne fregava meno di niente; comunque, se così fosse stato, ne ero più che felice.
La vita tornava a sorridermi.


(Continua)

Re: Una rosa per Martina Pt.11

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Nightafter wrote: Pazienza, la vita era un grande gioco: a volte si vinceva, più spesso si perdeva. Faceva parte delle regole del gioco.
puoi accorciare la frase: "Faceva parte delle regole". oppure "Era scritto nelle regole"
Si capisce che il riferimento è al gioco.
Nightafter wrote: Io, voltato di spalle, con i tappi nelle orecchie, non ne avrei neppure sentito l’arrivo.
Non è vero, dalle rotaie ti sarebbeo arrivare le vibrazioni. Bastava direche non lo avresti visto arrivare. 
Nightafter wrote: Con questa ritrovata serenità olimpica del condannato a morte che ha accettato di buon grado la sua sentenza capitale, ripresi il lavoro e mi immersi nelle mansioni del mio ufficio.
mi pare che tra morte e che manchi la virgola.

finiti gli appunti davvero di scarsa importanza, faccio anch'io i complimentti a te. La tua scritttura viaggia sempre sul filo dell'ironia, gestisci temi amari con abile leggerezza e disincanto.  Grande pregio.
La rassegnazione e la lucidità del tuo personaggio, nel progettare un suicidio che non desse troppo "distrurbo", fa emergere una personalità per l'appunto managieriale:capacità di prendere atto del problema e risolvere (in qualsiasi modo, ahahah). Pur non avendo letto i capitoli precedenti, questo si regge bene da sé.
Confesso che, inizialmente mi era sembrato che il tizio affrontasse davvero con poca "serietà" l'intenzione di suicidarsi, ma le giustificazioni che ha dato a se stesso (tramite tuo pugno e tua testa) le ho trovate, frase dopo frase, accettabili. Direi realistiche. 
Scrittura scorrevole e testi mai banali sono la tua identità.
Bravo come sempre!

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