Una rosa per Martina Pt.4

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[CPQ25] Un sacrificio per la rinascita - Costruttori di Mondi

Una rosa per Martina Pt.4

Trascorsero i mesi e giunse l'estate: nulla di nuovo pareva accadere.
La vita dentro e fuori la mia azienda scorreva sui binari di una scontata normalità. Io continuavo ogni mese a far trovare sulla scrivania di Martina la mia rosa anonima.
Quella era l'unica cosa a dare alla mia monotona esistenza un caldo brivido d'emozione.
Qualcosa, però, si era mosso: il mutato atteggiamento della Signetti verso di me.

La Signetti era la nostra Segretaria di Direzione e responsabile delle risorse umane.
Era un'attraente ventottenne, dotata di brillante intelligenza, preparazione tecnica, sconfinata ambizione e qualità manageriali.
Qualità che la rendevano ideale per l'azienda e il ruolo che rivestiva.
Assai risoluta e autoritaria, era abituata a prendere ciò che desiderava, non esitando a impiegare qualsiasi mezzo.
Più pantera che donna, sapeva presentarsi impeccabilmente: dotata di un fisico longilineo e di una naturale eleganza nel muoversi e gestire la propria immagine, indossava eleganti tailleur in lana pettinata blu notte nella stagione invernale, che si trasformavano in fresca tela di lana nelle stagioni più calde.
Aveva lunghe gambe valorizzate da calze in seta fumé; le gonne, portate quattro dita sopra il ginocchio, erano un tubino che esaltava il perfetto disegno dei glutei marmorei che madre natura le aveva conferito.
Immancabili le camicette di seta color ghiaccio o in fresco popeline bianco, regolarmente indossate con i primi bottoncini aperti sul petto: quel tanto da lasciar intravedere un raffinato balconcino, a contenere un seno sodo e invitante, e un candido filo di perle al collo.
La Signetti aveva sempre un'aria assorta, evocando una mente perennemente attiva nel concepire progetti utili a rafforzare il suo personale prestigio e la propria influenza sull'azienda.
Gli occhi chiari e algidi suggerivano un abisso di distacco e cinismo prossimi alla crudeltà; averli puntati addosso ti faceva sentire nudo, e un brivido d'inquietudine ti percorreva la schiena.
Vederla sfilare a passo rapido tra le corsie degli open space, con la sua falcata imperiosa, su décolleté in vernice a tacco 12, scandagliando come un laser ogni forma di vita sul suo cammino, portava a immaginarla come un'attenta etologa intenta a studiare la fauna aziendale.
Ti faceva pensare che, come per le farfalle raccolte in una collezione, avrebbe trovato piacere nell'infilzare con spilli quelle inermi “risorse umane”, per poi esibirle in teche espositive sulle pareti del suo ufficio.

Era entrata in azienda fresca di laurea, nello staff della precedente Segretaria di Direzione, col ruolo di semplice dattilografa e passacarte, addetta anche a portare il caffè al Presidente quando ne richiedeva uno.
In capo a due anni era divenuta la prima segretaria dell'ufficio; solo la decennale Segretaria di Direzione era suo diretto superiore.
Ma quest'ultima, a dispetto dell'anzianità e di un fino ad allora onorato servizio, aveva visto concludersi bruscamente la carriera per essersi macchiata di una grave infedeltà aziendale di cui era stata accusata.
La causa della drammatica risoluzione del rapporto di lavoro fu dovuta alla sparizione di un plico riservatissimo, conservato nella cassaforte dell'ufficio di direzione, inspiegabilmente scomparso.
Il corposo dossier conteneva lo studio strategico per una nuova linea da sviluppare con un prodotto monomarca, sul quale costruire una catena di negozi in franchising di respiro nazionale.
Il progetto, nella stagione successiva, venne realizzato da un nostro concorrente diretto; fu palese che vi fosse stato un plagio dovuto alla trafugazione del plico segreto, e l'azienda ne subì un danno di seria gravità.
La vecchia Segretaria di Direzione era l'unica, oltre al Presidente, ad avere accesso alla cassaforte.
Solo per l'oggettiva mancanza di prove fisiche del furto, non si procedette con un'azione legale contro di lei, ma ci si limitò a un licenziamento in tronco.
Ad accusarla della scomparsa dei documenti fu la sollecita Signetti.
Non si seppe mai attraverso quali prove, ma certamente dovette produrne tali da costituire un castello indiziario a sostegno dell'accusa.
Dopo l'estromissione della vecchia dirigente, lei ne rilevò il posto.

I più maligni dissero che il Presidente l'avesse presa in gran simpatia per qualità che esulavano dalle sue capacità professionali.
I più maligni giunsero perfino a insinuare che avesse ordito una subdola macchinazione per eliminare dalla sua strada la precedente direttrice.
In ogni caso, da quel momento, divenne una sorta di braccio destro del Presidente: una “Domina maxima” che regnò con inflessibilità e pugno di ferro su tutti i livelli dell'azienda.
La Signetti era depositaria di tutti i segreti aziendali: ogni documento riservato che entrava o usciva dall'ufficio del grande capo passava sotto i suoi occhi e veniva da lei catalogato, protocollato e archiviato, oltre che memorizzato.
Ma il suo compito non terminava nel disbrigo delle pratiche correnti; che lo avesse assunto in autonomia o glielo avessero attribuito per volontà superiore, con solerzia divenne l'occhio immanente del vertice padronale calato sulla vita dell'azienda.
Nulla di quello che avveniva negli open space della società poteva sfuggire alla sua conoscenza: si diceva che neppure nel chiuso dei bagni si fosse invisibili al suo sguardo.
Tant'è che i dipendenti, quando vi si recavano spinti da impellenti necessità fisiologiche, pare lo facessero con una sensazione di disagio, quasi sentendosi spiati nell'atto intimo di denudare parti del proprio pudore.
Qualcuno di spiritoso, nei servizi maschili, aveva scritto: “Centra la tazza! Dio non ti vede, ma la Signetti sì”.

Era dotata di un potere non scritto in nessun organigramma, ma dall'enorme peso in ogni sezione operativa dell'azienda.
A vederla sortire sempre un po' accaldata, anche in pieno inverno e col capello in disordine, dall'ufficio del Presidente, veniva una mezza idea sulla natura e l'origine di quel potere.
Lei non si curava dei pettegolezzi e delle cattive dicerie: era superiore a quello stuolo di insignificanti insetti umani che trascinavano le loro inutili esistenze in simbiosi con le loro scrivanie e si scollavano dalle loro sedie ergonomiche solo per ossequiarla al suo passaggio.
Francamente, a me interessava assai poco dei meriti reali o presunti che avevano concorso alla sua ascesa; mi bastava che facesse il suo lavoro senza mettere becco nel mio, cosa che fino a quel momento era successa.
Non potevo però dimenticare che, a suo tempo, nel suo ruolo aziendale, fosse stata l'artefice della cacciata di Martina dall'azienda: al suo debutto come Responsabile del Personale, era stata l'artefice di una cosa chiamata “Razionalizzazione comparto risorse umane”.
Una formula elegante, nel linguaggio manageriale, per indicare una ristrutturazione interna con brutali tagli del personale.
Aveva fatto carne da macello di una trentina di padri di famiglia, gettandoli in strada come pattume.
Furono giorni di terrore tra i corridoi aziendali: ci si chiedeva chi sarebbe stato il prossimo a cadere sotto la sua falce.
Ogni mattina osservavi gli occhi dei colleghi per capire se gli fosse stata recapitata una di quelle lettere da plotone d'esecuzione, ed egoisticamente ognuno pensava: “Speriamo tocchi a lui”.
Solo questo me la rendeva tenacemente detestabile; quindi, per quanto possibile, le ero sempre girato al largo, e lei, facilitandomi l'intento, aveva fatto altrettanto.

Ma di colpo qualcosa era mutato.
Lei, che da quando era in azienda mi aveva praticamente ignorato, pareva essersi accorta improvvisamente della mia esistenza.
La mutazione percepita nell'atteggiamento verso di me era nata durante una pausa pranzo, mentre ci trovavamo casualmente insieme davanti al distributore automatico del caffè.
Colta da una rara vena colloquiale, o da una frattura improvvisa nel suo granitico muro d'alterigia, si concesse un attimo d'insolita liberalità e, ignorando il mio rango inferiore, si degnò di elevarmi al suo livello, coinvolgendomi nello scambio di alcune fatue chiacchiere.
Il discorso, tra varie inezie, virò sulle cose passate della vita aziendale. Non saprei dire come, ma a un certo punto ci trovammo a parlare di Martina.
Sapendo che avevamo collaborato insieme e che tra noi si fosse creato un buon rapporto, mi chiese se la sentissi o la vedessi ancora.
Ovviamente risposi di sapere solo in quale azienda fosse finita, che non ci sentivamo e che non ricevevo notizie di lei da lungo tempo.
Fece uno strano sorriso che non decifrai.
Poi, con aria divertita, mi rivelò di essere meglio informata di me.
Infatti, pareva che il marito della Signetti lavorasse nella stessa azienda della nostra ex collega.
Aggiunse anche, con un risolino di malizia, che il suo consorte appartenesse allo stesso ufficio di Martina, occupando una scrivania prossima alla sua.
Sentirle pronunciare il nome di Martina mi creava un subbuglio interiore, e non potevo che invidiare il marito di lei per la fortuna che gli era toccata.
Che lui potesse guardarla in viso, condividere lo stesso ossigeno e parlarle ogni mattina era un vero insulto del destino cinico e baro.
Poi, con aria divertita, introdusse un elemento di “gossip” nella narrazione: mi confidò che la bella Martina pareva possedere un ammiratore sconosciuto.
Il quale, disse, le faceva recapitare ogni mese, nella stessa data, una rosa rossa a gambo lungo sulla propria scrivania.
Martina si era inutilmente chiesta chi mai potesse essere il galante ammiratore segreto.
Aveva, inutilmente, interrogato il fioraio che consegnava la rosa, ma quello, per etica professionale, aveva rifiutato di rivelarlo.

Finsi una sorpresa di circostanza e mi mostrai tiepidamente divertito, per darle l'idea di condividere quel buonumore che la storia sembrava donarle.



(Continua)

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