NOƩTOI, RITORNI Parte II

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«Sento la necessità d’abbandonarmi a ciò che è» lesse ad alta voce. «Da tempo gli esseri umani hanno dimenticato di non essere altro che un ente che riflette sul proprio esser-Ci; portare alla luce la latente potenza di questa dimenticanza, attraverso un ricordo di essa in quanto dimenticanza, è in ciò la risonanza di ciò che è.»
Cosa vuole dirmi, pensò, ed esasperato sollevò lo sguardo al soffitto.
«È così assurdo chiedersi perché quando si pronuncia la parola necessità si pensi a qualcosa di negativo, come se fosse una sventura? E, al contrario, l’assenza di necessità è vista come un bene, specie dove si attribuisce importanza alla fortuna e al benessere? Che invece si mantengono solo grazie all’ininterrotto rifornimento di quanto è godibile e utilizzabile, grazie a ciò che si incrementa solo tramite il progresso; che di conseguenza si fa necessità, il nostro unico destino: Ananke, che ci costringe a procedere per quell’unica via dimenticando Einai.
Viviamo in un’epoca in cui l’incanto non ce lo regala più ciò che è, ma il solo progresso e la tecnica: che si superano di continuo puntando tutto sul calcolo, sulla funzionalità, sulla manegevolezza, sull’utilizzazione. Nel progresso è insita l’idea di miglioramento, e attraverso il miglioramento la tecnica si assicura il dominio più incontrastato e inappariscente che sia mai esistito sulla faccia della Terra; si innalza il livello medio, ma allo stesso tempo, inquietantemente, scompare lo spazio per le domande e per la decisione, segno dell’abbandono di ciò che è. La tecnica è il mezzo che si fa fine, l’assenza di necessità che si fa necessità, e lascia svanire tutte le mete, che trasformano l’uomo e gli conferiscono un senso; senza un senso la vita si trasforma in angoscia e, preclusa qualsiasi decisione, sboccia e si propaga il nichilismo, il trionfo più grande di Ananke.
La tecnica moderna non ci è stata donata da Prometeo, ma da suo fratello Epimeteo.
E questa umana assenza di mete trasforma in schizofrenia il nostro affannarci sulla superficie di questa palla di fango che chiamiamo Terra, il cui unico scopo si riduce al ruotare intorno a un grande nulla infuocato che si muove non si sa perché insieme a miliardi di incandescenti altri nulla, in un distillato di pura angoscia esistenziale.
Credo che succeda per via di questo stato di cose, di questa indeterminatezza, di questa impossibilità di scegliere, di prendere una decisione per imboccare una strada che abbia un senso, che la scrittura moderna si mostri tanto ambigua, priva di direzione, di respiro, anche sintattico e lessicale, di orizzonti, e non sappia far altro che concentrarsi sull'individuo, uno qualunque non importa: che sia un povero fruttivendolo o un oscuro agente di commercio, un arrapato avvocato o un poliziotto fascista, una mignotta o un anatomopatologo allergico alla formalina, un ricco finanziere o un ottuso specialista nell'asportazione di gliomi e astrocitomi.
E l’in-dividuo, ciò che non può esser diviso, viene invece fatto a pezzi, smembrato e analizzato, e i suoi organi, persino i suoi pensieri, trattati come un qualcosa di non umano.
Anche lo scrittore scrive scambiando i mezzi per i fini: non per comunicare, mostrare o criticare, ma per il denaro, per sostenere una traballante autostima, per l'avidità di elogi: alle volte per un compulsivo istinto, che lo costringe ad apparire attraverso la scrittura invece che attraverso un'arrampicata sulla parete nord del Cervino...»
«Può bastare, Herr Wenger. Glielo regalo, ne faccia buon uso.»
E nauseato abbandonò il tomo sulla scrivania e accompagnò il suo mecenate e mentore alla porta.
Che magnifico sentimento il disprezzo.
E la considerazione gli illuminò il viso. Sottile, spigoloso, tutto naso, e con piccoli occhi scuri accesi e profondi come le tenebre.
Ego Wenger di professione faceva il fisico, con una specializzazione in particelle elementari. Cose tipo neutroni e protoni, ma anche quark e bosoni, misteriose presenze a cui la stampa internazionale tributava onori occasionali ogni qual volta capitavano fantasmagoriche, eccezionali, sensazionali, incomprensibili, nuove scoperte.
Ed era ateo. Pensava che dio, o Dio, fosse solo un'emanazione della mente umana e la religione nient’altro che un comodo strumento per offrire struttura a ciò che ne era privo, ma ciò solo nel migliore dei mondi possibili. Anzi, disprezzava chi credeva in Dio, anche se era un dio qualunque, a conti fatti un dio buono e inoffensivo che aveva a cuore soltanto il bene del genere umano e dell’universo intero; lo riteneva insensato, e da anni lavorava alla teoria delle stringhe come teoria del Tutto, per poter dimostrare che un dio, Dio, non esisteva.
Infiniti universi in infinito tempo, questo cercava.
Che motivo d'un dio può mai esistere là dentro?
Per Ego Wenger nessun essere soprannaturale si nascondeva nelle sue equazioni: nessun ente divino governava gli infiniti universi in infinito tempo: nessuna chiave della creazione, a meno di un mistero buffo.
Quella sera gli venne in testa così, forse a causa di Ludovico Velez, o per merito di quel whisky invecchiato dodici anni in qualche barrique bordolese da duecento litri più la parte degli angeli. E se ne andò a dormire beato, dimenticò tutto: l’università di Marburg, il Sogno d’amore di Liszt, le sue riflessioni su Dio e sulla metafisica di Nietzsche, sull’idealismo di Hegel, l’esistenzialismo di Heidegger, la fenomenologia di Husserl. E su quel libro tanto imbrogliato regalatogli dal suo misterioso anfitrione, che forse era un capolavoro tanto da meritare il Nobel per la letteratura, o forse la fisica. Un testo profondo, un po' com’era l'ateo Ivan Karamazov, e anche genuino, come il suo santo e devoto fratello Aleša, preciso e razionale, quanto il saggio di Hoffstaeder che accomunava le opere di Gődel, Escher e Bach, denso di spirito critico, come i testi del Montano che passavano in rassegna le diatribe tra Sartre e Camus e Merlau-Ponty dissertando sulla validità o meno dell'uomo in rivolta e sul liberismo e il marxismo o la rilevanza dell’Essere, dall’approccio inusuale, come le Dialettiche dell’Illuminismo e Negative, poetico, come le liriche di Antoine Madrid su Parigi, realista, come il Contesto di Sciascia, originale, come quella rivista letteraria dal nome altisonante: Il guardiano del faro
Ma quale faro? Si svegliò di colpo con quel tarlo in testa e non gli rimase altro, per passare la nottata, se non di sorseggiare una tazza di camomilla aromatizzata con del Cointreau.


Qualche giorno dopo (o forse prima) a un congresso di fisici teorici e sperimentali e delle particelle, a cui s'era aggiunto un nutrito manipolo di cosmologi e di matematici sperimentali (che il cielo li abbia sempre in gloria per quanto sono astratti e fluttuanti, come particelle di Planck), lo arrapò un desiderio nitido e nettissimo di rum. Non di uno qualunque, ma di quello secco e scuro che distillano a Port au Prince e che sa di tabacco più che di canna da zucchero. Le Diable si chiamava quella bottiglia dall'etichetta nera con su stampato un cornuto rosso con la coda a punta e, nel bar dell'hotel dove si teneva la conferenza, gliene servirono quattro bicchieri di fila, da buttare giù uno appresso all'altro
Quando tornò nella sala, con un sorriso ebete ben visibile, si decise a seguire il relatore numero quattro. Diversamente dai congressi medici, foraggiati da miliardarie case farmaceutiche prodighe nell'elargire gadgets inutili o utilissimi regali insieme a pranzi meravigliosi in luoghi esotici o in città d'arte con hostess prorompenti pronte ad assecondare ogni più piccolo desiderio, i congressi dei fisici consistevano in tristi adunanze per stempiati iniziati quasi sempre autofinanziate dal club degli iniziati. Si pagava quel che si consumava insomma. Hotel squallidi in apatiche città di provincia nella speranza di risparmiare qualche centesimo. Di euro, di dollari o di yen faceva poca differenza.

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