Capitolo 4
Era quasi mezzogiorno e faceva caldo, ma aveva sempre fatto caldo in agosto a dire la verità. Però, cosa poco frequente di questi ultimi decenni da buttare, il cielo era di un bellissimo azzurro cobalto e non bianco latte; si vedeva addirittura il sole sopra il mare, come una volta. Meglio così.
Centinaia di turisti ignari della cappa che gravava sul mondo e su di loro girovagavano nella spianata degli olivastri. I paesani arrostivano le capre allo spiedo e i vacanzieri trovavano bizzarro che per cuocere la carne si dovesse bruciare tanta legna, con grave rischio per il pianeta. Non c’era dubbio.
Si sentì in lontananza il suono di miriadi di campanelle e campanacci, belare di pecore che si avvicinavano sempre di più. Poi urla stentoree in una lingua preistorica che superarono la musichetta delle bancarelle, urla irripetibili, inqualificabili, ingigantite dall’eco delle strette viuzze: ― Prrrrr…!! Prrrr…!! Ahhh!! Eittééé…!! Kastigadaaa!! Ki‘n ce koloooo!! ― Da una strada laterale comparve un gregge di pecore deciso a invadere tutto ma con ordine. Erano guidate dalle urla di Enrichetto, un vecchio vestito di velluto nero, con i gambali, capelli arruffati sotto il berretto sporco, aiutato da quattro cani pastori che evitavano che le pecore si sbrancassero. In mezzo alle pecore avanzava un carro con sponde e raggi delle ruote dipinte di arancio agricolo, trainato da due buoi colanti bava, lo sguardo mansueto a fissare la moltitudine di umanità davanti a loro. Stadera in piedi sul carro, vestito come cento anni prima, urlava i comandi ai buoi, facendo schioccare in aria una frusta: ― Ahhh!! Ahhh!! Tòkkààà! Kastia innantiiii! Non bides nooo!! Ahiaaa!!
Sul carro c’era Daniele che si stava divertendo un mondo, vestito come il vecchio.
Martino si godeva il fresco sotto gli alberi davanti alla chiesa, con sua moglie e le due figlie, aspettando il rientro della processione. Diede un’occhiata da dove proveniva lo scampanio e le urla e vide quell’invasione. Riconobbe i comandi dati alle bestie, avendoli sentiti nella sua infanzia. Vide la gente che scappava ridendo e fotografando il tutto e impallidì.
― Cosa succede Martino?
― Mio padre è impazzito.
― Non mi dire…
― C’è Davide con lui!
― Ma dove?
― Al suo fianco.
― Ohh!! Santo cielo!!
Le pecore andavano avanti come fanteria travolgendo tutto e saltando gli ostacoli, belando, chiamandosi a vicenda, facendo tintinnare i campanelli appesi al collo, emanando un forte odore di lana sotto il sole ed evacuando migliaia di escrementi in forma di pallini neri luccicanti come piccole olive. Il carro si ergeva e avanzava in mezzo a loro, irraggiungibile e intoccabile come il carro di un dio davanti alla spianata di Troia.
I paesani addetti ad arrostire tenevano le pecore lontane dalle file di spiedi e guardavano ridendo la scena. ― Stadera s’este toccau a giuale! Castiaddu! (Stadera è impazzito! Guardalo!)
Le pecore dilagarono nella strada bloccando il traffico in tutte le direzioni; le macchine suonavano impazzite, i buoi si spaventarono, si inclinarono di lato strascicando gli zoccoli, non erano abituati al traffico e ci volle maestria per non farli imbizzarrire.
― E calmatevi! ― urlava Stadera, verso gli automobilisti, schioccando la frusta in alto.
― E calmatevi, porco accidenti! ― ripeteva. ― Se avete caldo andate a buttarvi a mare, c’è tanta acqua! E calmatevi! Ma che suoni deficiente! Suonatemi questo… e andate a fare in…
― Ma che dici, nonno!
Dalla strada le pecore scesero verso la spianata che digradava al mare, terra di conquista, passando a fianco dei bar, con le persone che guardavano curiose attraverso i balconi avvolti di cannicciato. Le pecore invasero e travolsero la spiaggia, facendo fuggire i bagnanti che abbandonarono tutto.
Al contempo si vide una schiera di vecchi con davanti una carrozzella sospinta da Kaffettera, dove stava seduta come una regina la quasi centenaria Virginia, con il vestito a festa, nero per la vedovanza, fazzoletto con i lembi annodati che chiudevano la bocca, bottoni d’oro sul colletto della camicia bianca a merletti. Stringeva un antico rosario nella mano sinistra, con due fedi sull’anulare, la sua e quella del marito morto nel 1954. Dai polsini fuoriuscivano pizzi spagnoli, come leggere nuvole che si alzavano a salutare la folla.
Virginia sorrideva felice e diceva ― Quanta gente per la santa! Quanta gente!
I vecchi camminavano imperiosi dietro la carrozzella, vestiti a festa all’antica: velluto nero e orbace. Alcuni portavano in mano fasci di canne appena tagliate con ancora le foglie, altri avevano dei rastrelli a tracolla. La invero alquanto strana comitiva destava altrettanta curiosità come il carro e le pecore. Il gregge dilagò sulla spiaggia con i cani pastore ai lati e scese anche il carro. Davanti all’avanzata la gente scappava correndo, ridendo, urlando, riprendendo con il telefonino. Le pecore arrivarono fino al bagnasciuga, scardinando ombrelloni, trascinando asciugamani e materassini gonfiabili. Il carro si fermò sulla sabbia. I vecchietti si sparsero sulla spiaggia liberata. Qualcuno si tolse la giacca. Raccolsero ombrelloni e ciarpame vario delle vacanze accantonandolo in un angolo. Si fecero spazio diradando con maestria le pecore che formarono un quadrato intorno a loro, come legionari romani e in fretta diedero una rapida rastrellata al centro, cancellando impronte e sporcizia. A quel punto, coloro che avevano le canne le piantarono veloci sulla sabbia, poco lontano dall’acqua, intrecciandole ai lati a formare una rudimentale capanna, disponendo canne sul tetto e sovrapponendo teli bianchi per ombreggiare.
― Ma cosa fate? Siete pazzi? ― urlarono i vacanzieri.
― Assolutamente sì! ― rispose Stadera facendo schioccare in alto la frusta. Senza colpire nessuno.
― Adesso chiamiamo la polizia! Farete meglio a spostarvi!
― Altrimenti? Cosa ci fate altrimenti?
― Altrimenti fatti vostri! ― risposero alcuni turisti, avvicinandosi cupi.
A quel punto i buoi, come avessero ricevuto un ordine, prima uno poi l’altro sollevarono le code, dilatarono in modo inverecondo gli sfinteri ed evacuarono in contemporanea a getto continuo una quantità strabiliante di letame che cadde sulla sabbia spruzzando a destra e a manca, formando eleganti spirali a forma di piramide, larghe alla base e strette con punta finale a ricciolo in cima, dal forte odore di buon fieno fermentato. Qualcuno fu inzaccherato dagli schizzi e urlò correndo a gettarsi in mare. Qualche impavido si avvicinò ancora, ma i buoi, dopo la materia solida emisero quella liquida, orinando come idranti a pressione un liquido giallo, caldo e schiumoso che fece fuggire a gambe levate chi voleva avvicinarsi.
― Ma i cani sono pericolosi: abbaiano! Portateli via! Andate via!
― E voi non avvicinatevi! ― disse Enrichetto nella più lunga frase in italiano che lo si sentì dire a memoria d’uomo a Bauflores.
Mentre accadevano questi fatti, si provvide a trasportare Virginia dentro la capanna di frasche, la fecero sedere su dei teli, fecero in modo che fosse all’ombra, con le gambe esposte al sole dalle quali pudicamente alzò un po’ la gonna. Portarono un’enorme anguria scura dentro un canestro di canne intrecciate.
― È bello fresco Virginia. E non è stato messo in frigo. Tutta la notte era dentro un secchio nell’acqua del pozzo di Antonio.
― Ah! Come quando eravamo giovani! ― disse Virginia tamburellando con le nocche l’anguria con maestria, guardando il mare davanti a lei con alcuni yacht a vela.
― Ci sono anche i pescatori! Come quando ero più giovane! ― disse felice.
― Non è passato tanto tempo, Virginia ― disse Stadera con gli occhi umidi.