Marcello ha scritto: . Una donna chiamata a fare il ministro non gode di maggiore fiducia se la chiami "ministra" (anzi, se fossi donna sospetterei sempre che dietro ci fosse una larvata presa per il culo nel sentirmi chiamare così).
Non sono d'accordo. Perché dovrei sentirmi da meno se mi chiamano al femminile? Perché presa per il culo? Non lo capisco proprio.
Marcello ha scritto: le classi erano piccole e gli studenti avevano dai quindici ai diciotto anni in genere. Io frequentavo l'università e ne avevo pochi più di loro; c'era chi mi dava del lei e mi chiamava "professore" e chi mi si rivolgeva con un semplice "scusa, Marcello, qui come si fa a capire se...". Non ho mai chiesto né agli uni né agli altri di cambiare atteggiamento, ma ho sempre cercato di trattarli tutti nello stesso modo, profondamente convinto che il rispetto per la mia persona (e per l'istituzione che rappresentavo) non fosse legato al pronome con cui i ragazzi mi si rivolgevano.
Dissento del tutto anche su questo. Probabilmente questa tua esperienza è circoscritta a una situazione particolare. Io insegno nelle scuole superiori da quindici anni e non mi sognerei mai di farmi dare del tu. Mi devono dare del lei e non sono autorizzati a chiamarmi per nome. Sono d'accordo sul fatto che il rispetto non si debba limitare a questo, ma anche la forma è sostanza. È probabile che se non facessi caso a certe formalità mi ritroverei i miei alunni a saltarmi sulla testa.
Pensa che li faccio persino alzare in piedi quando entro in classe. Potrebbe sembrare un gesto autoritario e fuori moda, ma di questi tempi è meglio mantenere le distanze, e la forma, in un luogo difficile come la scuola.
Tornando al Treccani vorrei proporre una riflessione. Il fatto che nel dizionario si metta prima la forma maschile e poi la femminile non è dovuto alla morfologia della lingua, né al suo uso o alle sue regole, ma a una convenzione.
Anch'io che insegno lingue straniere faccio memorizzare i pronomi personali nell'ordine maschile, femminile, neutro (he, she, it, ad esempio). Preciso però che si tratta di una convenzione. Trovo interessante l'inversione proposta da Treccani. Più che violentare la lingua o cedere alla moda del politicamente corretto, mette in luce quella che è la natura di una convenzione, ossia che è frutto di una scelta, di una tradizione, ma che in quanto tale si può cambiare. Altrimenti immaginiamo la lingua come un insieme di regole fisse, già date, immutabili. Con questa idea sì che violentiamo la lingua che, al contrario, per sua natura è mutevole.
Per il resto, ribadisco, il discorso è complesso. La lingua rispecchia la realtà e il modo di vedere la realtà? In parte sì e in parte no. Per questo la questione del femminile genera dubbi e perplessità. Sono d'accordo con chi dice che è più importante cambiare la società che la lingua e la percezione che noi ne abbiamo. Tuttavia la lingua e le sue convenzioni possono servire da strumenti di riflessione sulla società. Torno quindi alla domanda che ho posto più sopra: perché ministra e sindaca non vanno bene (sono parole brutte o ridicole) e invece sarta, cameriera, cuoca, commessa sì? Non notate la differenza di prestigio tra le due categorie?