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Re: [Lab 5] Il piacere di chiamarsi Jamal

Modea72 ha scritto: Perché allora adesso preferirebbe andare a a combattere per chissà chi o cosa, andando quindi ad uccidere altri, se è la sua esistenza a non sopportare? Pensavo a motivi religiosi, ma dopo scrivi che non sa pregare. 
Mi lascia perplessa.
Jamal durante il viaggio nel barcone ha perso la propria compagna e il figlio. Avrebbe voluto anche lui morire durante il naufragio. Per questo quando ha capito che sarebbero morti ha cercato di morire a sua volta ma il destino ha volti che si salvasse.  Per questo non gl’interessa più stare nella terra tanto sognata dove, peraltro, vive un’esistenza misera e di duro lavoro. Vorrebbe tornare indietro ma non ha soldi ecc. 
Modea72 ha scritto: Cosa volevi sottintendere con quell'occhiata? Il documento nella rete non è molto verosimile, ma mi sfugge cosa volevi fare arrivare.
L’occhiata tra i poliziotti era modo per comunicare tra loro “glielo diciamo dove lo abbiamo trovato?” Ho immaginato la scena ma non c’è alcuna dietrologia. 

Il documento nella rete, purtroppo, non è fantasia. Mi sono documentata al riguardo e succede spesso ai pescatori di rinvenire documenti nelle reti o addirittura nelle viscere dei pesci.



Modea72 ha scritto: Come ha fatto Kofi a consegnare il pacchetto all'agente? Se lo avesse intravisto in un momento precedente, che cercava di entrare in caserma, sarebbe stato più scorrevole.
Qui ho scelto di non raccontare tutto il passaggio. Forse sarebbe stato più chiaro lasciando una riga per far capire bene che la scena si svolgeva qualche tempo dopo (magari una mezz’ora) Ma, in ogni caso,  mi piace lasciare spazio al lettore d’immaginare. 

Modea72 ha scritto: io invece non l'avevo percepita, trovo la leggerezza solo quando finalmente gli dicono che lo rimpatriano, non nel suo affrontare la vita.
Dovrò riflettere su questo.
Grazie per la lettura.
Questa è l’interpretazione che ho dato al tema “leggerezza”. Ho voluto rappresentare le difficoltà (estreme) a cui Jamal viene sottoposto e come in realtà vengano superate 

Con “leggerezza”  L’amico che trova per lui il “tesoretto” e glielo fa recapitare, il poliziotto che si trova di fronte a un uomo mite e decide di aiutarlo, la nave che, rispetto al barcone, è un lusso infine il mare che agevolerà il viaggio di ritorno. Questa è la mia interpretazione del tema. 
@Modea72 Ti ringrazio della lettura e anche di avermi espresso tutte le perplessità.  Trovo molto utile capire cosa “arriva” al lettore. Se non sono riuscita al punto di dover spiegare, significa che c’è qualcosa da rivedere.
Grazie 🙏🏻 

Re: [Lab 5] Il piacere di chiamarsi Jamal

Grazie @Poeta Zaza per il tuo gentile commenti e per la segnalazione dei refusi. (Mi ero accorta delle virgole ma ormai avevo postato)
Per quanto riguarda l’esercizio non so se sia sbagliato o meno. Spero che @Poldo  e @Marcello abbiano tempo per illuminarci. Sarà molto importante per capire bene. In fondo è un laboratorio e dunque è giusto anche sbagliare così si può imparare dagli errori!

[Lab 5] Il piacere di chiamarsi Jamal

Sembrava un giorno come tanti. Aziz osservò il sole abbassarsi all’orizzonte. Deterse la fronte col dorso della mano. Deglutì a vuoto. Aveva la gola riarsa e la bocca impastata dalla polvere. Si guardò intorno. Era solo. Preso dal lavoro e dai pensieri, non aveva sentito gli altri allontanarsi. 
Si avviò alla baracca strascicando le gambe. Lo attendevano del pane raffermo che aveva messo a rinvenire nell’acqua dalla mattina e un pomodoro. La sua solita cena: con i due spiccioli che guadagnava spaccandosi la schiena tutto il giorno non poteva permettersi di più. 
Ogni euro che riusciva a risparmiare lo infilava dentro a una lattina vuota. 
Per tenerla al sicuro, aveva tagliato il materasso proprio all’altezza della testa. Un piccolo tesoro nascosto dal lenzuolo e dal cuscino. 
Gli piaceva ascoltare il tintinnio delle monete, sempre più cupo man mano che il barattolo si riempiva. Un giorno ne avrebbe avute abbastanza da potersi pagare il viaggio di ritorno. Era ancora giovane, forse avrebbe potuto ricominciare tutto da capo. Se solo fosse riuscito a tornare nella sua terra, non l’avrebbe più abbandonata. Mai più. Ne era certo. Anche se gli avessero messo in mano un fucile e l’avessero spedito a calci a combattere per chissà chi o che cosa. Non aveva niente da perdere, ormai. 
Dopo tanto tempo si chiedeva ancora perché, tra tanti, la tempesta avesse scelto di risparmiare proprio lui. La furia del mare, quella notte, si era presa anche Fatimah e Kiros, suo figlio di soli tre anni. Non avrebbe mai dimenticato i loro sguardi terrorizzati mentre venivano inghiottiti dalle onde. Se avesse avuto più fortuna sarebbe morto insieme a loro. Aveva anche tentato di raggiungerli. Si era abbandonato del tutto con la speranza di riabbracciarli in un luogo migliore, ma la risacca lo aveva restituito vivo. 
Il pescatore che lo trovò esanime sulla spiaggia la mattina dopo, rinvenne un documento vicino al corpo. Non era il suo. Non si leggeva tanto bene, ma per registrarsi al centro di accoglienza fu sufficiente mostrare quello.
Quando poteva, camminava fino alla riva e s’inginocchiava sul bagnasciuga. Non sapeva pregare, ma era certo che i suoi cari potessero avvertire la sua presenza. 
Si stropicciò gli occhi. Le lacrime rendevano tutto offuscato. Gli sembrava di osservare il paesaggio attraverso un vetro smerigliato. 
Via via che si avvicinava al centro di accoglienza, un odore sempre più acre gli serrava la gola. Accelerò il passo. Un accesso di tosse gli tolse il respiro. Se continuava così avrebbe sputato un polmone prima o poi. 
Il cielo era una ferita rossa, il fumo denso e scuro che si levava dal campo, un avvoltoio.
Posò lo sguardo sui resti fumanti della baracca.
Kofi gli corse incontro e lo abbracciò stretto. Sapeva di fuliggine e di sudore: «Abbiamo fatto il possibile, fratello.»
Gli diede una pacca sulla spalla: «State tutti bene?» 
Kofi annuì. «Se vuoi, stanotte puoi stare da me.»
«Grazie, amico mio.»
Accovacciato davanti al mucchio di detriti e cenere, non riusciva a trovare la forza per reagire: tra tutte, era bruciata solo la sua baracca.
Eppure era sempre scrupoloso. Era certo di aver chiuso bene il fornelletto a gas prima di uscire. Forse qualcuno dei nuovi arrivati l’aveva usato in sua assenza. Era l’unica spiegazione.
Non possedeva che qualche straccio e un paio di scarpe da tennis semi nuove. Numero quarantasette. Una misura difficile da trovare nelle raccolte degli indumenti usati, aveva sottolineato, con un certo orgoglio, il sacerdote quando gliele aveva consegnate. 
Cercò una vanga per ripulire alla meglio la piazzola. Voleva recuperare quanto prima il suo barattolo. Le monete non bruciano. Sono buone anche annerite. Non lo aveva detto a nessuno di avere dei risparmi, neanche a Kofi. Eppure si fidava si lui.
Spalava piano, tendendo l’orecchio. Da un momento all’altro avrebbe sentito il suono metallico del contenitore. Il buio non gli facilitava la ricerca. Avrebbe proseguito all’alba, prima di recarsi al lavoro. Sollevò lo sguardo. Il lampeggiante azzurro non preannunciava niente di buono. Il tono del poliziotto che lo interrogava, anche meno.
«È lei Aziz Traore?»
Annuì.
«Mi faccia vedere il documento.»
Era bruciato, insieme ai vestiti e a tutto il resto. Certo, tutti al centro sapevano chi fosse. Ma il militare lo fissava con aria ostile. Lo vide fare un cenno al collega che nel frattempo stava interrogando Kofi. Forse volevano sapere dell’incendio.
Gli agenti aprirono lo sportello dell’auto e lo invitarono a salire. Dovette curvare le spalle per entrare. Il viaggio gli sembrò interminabile. Aveva fame e sete, sentiva di puzzare come un animale. Il poliziotto che lo affiancava sul sedile, teneva aperto il finestrino.
Una volta arrivati alla caserma, lo fecero accomodare in una stanza fredda. Una delle pareti sembrava uno specchio. Contò almeno tre sedie. Sopra al tavolo spiccava un fascicolo aperto. Quello che doveva essere il capo, ogni tanto sollevava la testa dal foglio e lo fissava. 
Lo sguardo rimbalzava dalla pagina al suo viso, la guancia sinistra pulsava. Strizzava gli occhi per metterlo bene a fuoco. Nonostante l’aria condizionata, un rivolo di sudore gli scorreva sulla tempia. Estrasse un fazzoletto di carta dal taschino della divisa prima di parlare.
«Mi conferma che lei è Aziz Traore?»
«Sì, sono io.»
«E perché non ha il documento?»
«Mia baraca è andata a fuoco stasera, ma tu chiede ai miei compagni. Loro sa chi sono.»
Il poliziotto battè il pugno sul tavolo «E mi dice, allora, chi è questo?» Il poliziotto prese un documento dal fascicolo e glielo mise davanti. La sua carta d’identità: Jamal Kanumba. Si riconobbe nella foto scattata qualche mese prima della partenza. Sentì le gambe tremare.
«Ho sete.»
Il militare fece un cenno impercettibile verso il vetro.
Poco dopo, un agente gli portò un bicchiere e una bottiglietta d’acqua.
«Kanumba, lei si è registrato nel nostro Paese con una identità falsa. Per la legge, è un clandestino. Dobbiamo rimpatriarla prima possibile.»
Non poteva sorridere in quel momento. Si schiarì la gola :«Dove trovato mio documento?»
Vide i poliziotti scambiarsi un’occhiata d’intesa.
«È finito nella rete di un pescatore. Lo abbiamo mostrato al direttore del centro di accoglienza. L’ha riconosciuta subito. Anche se lì si fa chiamare Aziz.»
La nave era pronta per la partenza. Non era certo il guscio fatiscente del viaggio di andata. Con la coda dell’occhio riconobbe Kofi che si sbracciava da lontano.
«Posso salutare mio amico?»
«No. Non possiamo farla avvicinare.»
Jamal cercò lo sguardo di Kofi tra la gente, ma non riuscì più a individuarlo. 
Prima di salire, il militare gli consegnò un pacchetto. «Tieni, te lo manda il tuo amico.» 
Jamal alzò il sopracciglio. 
«Che c’è? Non ti fidi? Non siamo mica delle bestie…»
Lo mise in tasca senza aprilo. 
Una volta a bordo lo scartò. Conteneva una manciata di monete annerite dal fumo.
Prese un lungo respiro e sorrise. Il mare era liscio come una tavola.

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