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Re: [N20-3] Diario di bordo

Ragazzi, @Almissima @Bef ,@Talia @Loscrittoreincolore @Ippolita @Alba359 @Emy @Pulsar @bestseller2020 @@monca grazie a tutti per il passaggio. Le idee più brillanti sono di @Edu , è merito suo se il racconto vi ha fatto ridere.
Ad immaginarmi Colombo come il tiranno in Shrek, io mi sono tajata dalle risate.

[N20-3] Diario di bordo

12 ottobre 1492

Terra! Terra
! Gli uomini sono agitati e ancora corrono avanti e indietro, sul pontile, dalla poppa alla prua e dalla prua alla poppa. Dovrei passarli all’archibugio, balordi, che fino a qualche ora fa, prima che la vedetta dicesse: «Oh cazzo, terra!», si rifiutavano di compiere qualsiasi mansione, volevano lasciarsi morire di inedia e mi dicevano: «Ammira’, c’avevano ragione quegli altri, qui non si arriva da nessuna parte!».
Ma è tempo di essere magnanimi: eccola là! Terra! L’India! L’agognata meta! Ancora qualche ora di navigazione e attracchiamo.
Ho un po’ di appetito. Chissà come si mangia da queste parti.


12 ottobre1492 (più tardi)

Per stanotte mi sa che continuiamo a dormire sulla nave.
Strano popolo, quello degli indiani, strano popolo davvero… Non li facevo così.
Innanzitutto se ne vanno in giro per lo più nudi, giusto con un perizoma di foglie che copre e non copre, fa quell’effetto vedo non vedo che è pure peggio. Siamo in viaggio da settantanove giorni: nel migliore dei casi i marinai sono in astinenza da tre mesi. Ma fai conto, caro diario, che la ciurma è composta per lo più da galeotti graziati… altro che tre mesi! Insomma, il rischio che si effeminano è alto.
Per cui stavo appunto dicendo a quel minchione dell’interprete di gridare ai nostri accoglitori: «Copritevi!», quand’ancora eravamo sulla caravella, che, da terra, vedendoci, gli indiani hanno incominciato a urlare e agitarsi. Avessi un interprete decente saprei cosa hanno detto. Sembrava avessero visto il demonio.
Poi sono arrivate pure le donne indiane, con le poppe da fuori! Apriti cielo: pure i marinai sulla caravella hanno iniziato a urlare e agitarsi. Balordi!
Per riportare l’ordine ho passato all’archibugio due mozzi che stavano lì sul ponte al cazzeggio, tanto per dare l’esempio (a che mi servono i mozzi? ormai è zavorra). I miei, a quel punto, si sono calmati. Ma gli indiani hanno reagito come se avessi fatto chissacché, pareva non avessero mai sentito uno sparo in vita loro. Dapprima si sono pietrificati, hanno cambiato tre o quattro colori (da verdognoli che erano all’inizio sono diventati pellerossa) e poi hanno ripreso a strepitare più forte di prima, gli uomini pure più delle donne, e si sono dileguati nella boscaglia.
Strana gente, davvero strana, quella degli indiani. Stanotte rimaniamo a dormire sulla Santa Maria. Almeno, io rimango qui. Ho mandato un drappello in esplorazione sulla terra ferma: che si preoccupi la manovalanza di trovare un albergo, che io ho già le mie pene. Ho fame, e in tutto il trambusto di quest’oggi i nostri ospiti non ci hanno offerto un fico secco (d’India o non d’india che fosse).


13 ottobre 1492

Ho passato all’archibugio l’interprete. Quando è troppo e troppo. Mi ha mentito: non sa nulla di Indiano. «Ma questi non parlano Indiano», diceva, il bugiardo, a sua assurda discolpa, «a me mi pare più Americano». Gli ho fatto mozzare la lingua e poi l’ho archibugiato.
Mi è toccato scendere personalmente sul suolo orientale, inzuppandomi le babbucce sulla battigia. Devo sbrigarmela sempre da solo.
«¿Dónde está el gran Khan, dónde está?», ho gridato alla platea di nudisti che, riavutasi dallo spavento, era tornata ad affollare la spiaggia in infradito.
Silenzio.
«Onde está o grande Khan, onde ele está?».
Niente.
«Il gran Khan dove cazzo sta?!».
Nada de nada. Però le giovani donne hanno iniziato a fare un balletto agitando rami di palma.
Ho fame. Una maledettissima fame. Ma almeno si è trombato.


14 ottobre 1492

In un modo o nell’altro gli esploratori hanno procurato del cibo. Radici. Non sono malaccio, il sapore assomiglia a quello delle castagne. Ho dovuto ad ogni buon conto farli archibugiare, anche se mi è quasi dispiaciuto. Che cazzo, dico io, radici! È questa l’accoglienza che conviene al messo di re Ferdinando?!
Comincio a pensare che i resoconti di viaggio che circolano per l’Europa siano molto imprecisi, se non inventati di sana pianta.
Cannella? Incenso? Pollo Tandoori? Manco l’ombra. Radici, radici, radici. Punto e basta.
Ho fame. E non mi si venga a dire che la mia è più voglia di qualcosa di buono. No, ho proprio fame!


15 ottobre 1492

Caro diario, oggi mi è venuta un’idea. Ho fatto abbattere un albero di palma e ci ho fatto costruire una croce. Bisogna pure consacrare la terra, no? Può darsi che l’incenso e il pollo Tandoori vengano di conseguenza… Anzi, di certo. Stupido io a chiedere al Signore Domeneddio senza prima dare.
Mentre lo abbattevano, dalle fronde, sono cadute delle sfere di legno che, rompendosi al suolo, hanno rivelato un cuore di latte e una polpa pure dal sapor di latte, buona da mangiare. “Noci di latte”, le chiamerò. O “di cocco”, sono ancora indeciso. Mi sa che alla fine opterò per “di cocco”.
Cocco… come il pupazzetto dal pelo marrone di quando ero bambino… quanti ricordi, quanta tenerezza. Lo feci passare all’archibugio, ancora non me ne do pace. (A proposito, appunto per me stesso: ricordati di centellinare la polvere da sparo, sta finendo. Bisogna trovarne al più presto in qualche negozio indiano).
Abbiamo issato la fiera croce cristiana sulla terra indiana.
Gli indiani sono rimasti a fissarla un po’ perplessi, con sguardi ottusi. A me sembrano tanto dei rincoglioniti.


16 ottobre 1492

Caro diario, la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere?
Tanta inconcludenza mi spinge alla filosofia: quante aspettative, quanta sete di scoperta, quanti nobili desideri… non dico oro e gemme, ma che cazzo, almeno le spezie sì, porca miseria, almeno quelle era lecito sognarle? Qui non c’è un cazzo, a parte le radici e il cocco: a che mi serve quest’India, perdio?!
Con le radici e il cocco non si diventa viceré di alcunché, né si tirano su le palanche.
Così filosofando, mi sono un attimo adagiato sulla battigia. Il sole, coi suoi caldi raggi, mi feriva le palpebre.
India, India… quanto ti ho desiderata, e adesso tu mi deludi in questo modo.
Ho sfilato le pesanti babbucce e ho messo a bagno nell’acqua marina i piedi dolenti. Mi sono pure un po’ scoperto la panza e il petto. Tre mesi al mare… mi potevo portare la crema, mannaggia a me.
Mentre ero lì sono comparse tre giovani indiane. Una aveva due noci di cocco considerevoli.
Vabbè, continuo ad aver fame, e in quanto a tesori manco l’ombra. Però, a trombare, in India si tromba.


17 ottobre 1492

Caro diario, oggi, mentre prendevo il sole sulla spiaggia e mi facevo sventolare con le palme da cocco dall’indiana dalle grandi noci di cocco, ti vedo sopraggiungere quattro fustacchioni su una barchetta. Tutti quei muscoli, tutti quei capelli, quei centimetri in altezza, quei centimetri in… e che è? Un oltraggio. Io avevo i rotoli della pancia a strisce rosse e bianche.
Quando mi sono avvicinato al carico, fragranze che non avevo mai sentito si sono frammiste all’odore del mare. Mi sembrava di essere immerso in una nuvola di vapore al gusto marshmallow. Stai a vedere che vendono i profumi, mi sono detto. Che siano questi i tesori delle Indie? Qualcosa alla regina Isabella gli devo pur portare, se non le spezie almeno i bagnoschiuma.
«Che vendete?», ho chiesto, mentre attraccavano.
Uno di loro, bello grosso, si è passato la mano nei capelli, ha fatto scorrere il pollice sul labbro inferiore e mi ha sorriso.
Cazzo ti ridi… Vi faccio il culo a stelle e strisce!, ho pensato, ma avevo finito la polvere da sparo.
«Chi siete, e cosa portate?», ho insistito.
«Siamo i ragazzi della compagnia delle Indie», ha risposto Big Jim, in perfetto italiano, «ci occupiamo di cosmetici e articoli di profumeria».
Avvicinandomi ancora un po’, ho notato che non erano indigeni, ma uomini bianchi. Erano solo abbronzati. E che afrore! Ammetto di esserne rimasto impressionato.
Pure io, però, devo aver fatto colpo, perché il più anziano di loro, il capo, mi ha squadrato e ha strabuzzato gli occhi.
«Ma voi… voi siete il famoso… l’illustrissimo tenente…».
«Ma che tenente e tenente! Mica porto il trench e ho l’occhio di vetro. Sono ammiraglio, io. Sono giunto qui nelle Indie attraverso l’Atlantico».
«No!».
«Sì!».
«Ma che, davero?».
«Sì!».
«E quanto ci avete impiegato?».
«Meno di ottanta giorni!».
«Noi due settimane. Ma perché c’era traffico dalle parti dello stretto di Malacca».
«Ah, beh…».
«E come mai vi siete fermati in questo strambo luogo? Non siete stato ricevuto dal gran Khan?».
Insomma, caro diario, questo dialogo che ti ho voluto trascrivere mi ha rivelato che dietro la spedizione c’è stato un gran bell’equivoco (tre o quattro persone che so io dovrò farle archibugiare per questo!).
L’isolotto su cui eravamo approdati non era la vera India, e i suoi abitanti non erano veri indiani (ahimé, le vere indiane sono molto più vestite).
Era solo l’isolotto dove gli indiani confinano i pazzi, situato a poche leghe dal grande regno. Forse ho sbagliato a far archibugiare l’interprete.
Gli avvenenti ragazzi della compagnia delle indie hanno guidato la mia flotta verso la costa del subcontinente.
Durante il trasferimento si è trombato, lo ammetto.


18 ottobre 1492

Caro diario, a volte crediamo siano le nostre gesta a condurci ai nostri traguardi, che i nostri sogni si realizzino perché ce lo siamo meritati. Scusa se torno a essere filosofico e meditabondo, ma le vicende di questi giorni mi portano a confermare le mie supposizioni: solo questione di culo.
Una volta, una zingara di nome @Emy, leggendomi la mano, mi disse: «Gira e spera, il desiderio si avvera!». In fin dei conti così ho fatto, ho girato dall’altra parte del globo per arrivare dove sono adesso. Ma il culo è culo, e se non avessi incontrato i ragazzi della compagnia delle Indie…
Domani sarò ricevuto dal gran Khan.


23 maggio 1503

Quando mi aggiro per le strade d’Europa e d’Asia, la gente che incrocia il mio cammino si prostra in inchini e salamelecchi.
La nuova rotta per l’india che ho scoperto e percorso, contro il parere dei dotti e contro ogni avversità, non mi è valsa la fortuna del grande mercante. Nessuno mi ha nominato viceré di alcun posto. Quando ci incontrammo, ormai più di dieci anni fa, il gran Khan mi sbeffeggiò e derise. «Comodo come volare da Parigi a Londra facendo scalo a Cuba». Così mi disse. Poi aggiunse: «Col cazzo che facciamo affari assieme».
Cos’è che compie il destino dell’uomo, la capacità o il culo?
Direi proprio il culo…
Quello che volevo l’ho ottenuto comunque: sono diventato più ricco del Khan, e dello stesso re Ferdinando.
Ho portato con me alcuni dei frutti raccolti sull’isola dei pazzi, quelli che all’inizio chiamavo “noci di cocco”. Agli europei piacciono molto. Dopo il lungo viaggio, essiccati e ridotti in polvere, hanno rivelato proprietà inaspettate e stupefacenti. Ora va di moda pronunciarne il nome alla francese, con una sola c e la a finale.
Eppure a volte mi sembra di vivere un destino e una vita che non sono i miei.
Di notte sogno spesso quel viaggio. Nel sogno non arrivo mai in India. A metà strada mi imbatto sempre nell’isola dei pazzi. Rincontro quegli uomini nudi (e soprattutto quelle donne nude) che mi accolgono come un dio. Nel sogno, solo nel sogno, sono il primo e l’unico ad aver scoperto quelle terre: praterie sconfinate abitate da grossi bovini che si chiamano buffoli e da gente pura ed ingenua, pronta a credere a ogni mia parola e a obbedirmi.
Che sogno.
E allora io prima li converto al vero Dio, poi li archibugio, li archibugio tutti!

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