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Re: [Lab.9] Il fiuto di Camilla (cap.3 di 3)

È consuetudine sostenere che sia difficile far stare un buon noir in un racconto breve.
Per me non è vero: i “gialli” sono racconti come tutti gli altri e non sono gli unici ad aver bisogno di costruzioni non banali e trame con un minimo di articolazione.
Diciamo che, forse, è difficile scrivere qualcosa di nuovo, muovendosi nell’indagine “poliziesca”, ma anche in questo senso io non ne farei una questione di genere, pretendendo di definire una sorta di scala di difficoltà. Né il noir deve essere necessariamente qualcosa che inchioda il lettore alla sedia. È piuttosto, e comunque deve essere, una sfida intellettuale, pur se semplice, nella quale l’autore che decide di concentrare la storia deve cercare di non strafare, evitare il tentativo di rappresentare il mistero estremo. Dici bene, secondo me, nelle tue risposte: un furto, un indizio, un morto. Una situazione da banale cronaca locale che prende una piega più drammatica, che sfugge di mano e costringe addirittura a compiere un delitto. È quanto basta.
La tua squadra di investigatori, in questo caso, è formata dal labrador Camilla e dal suo umano Michele. Sui generis (bene!), anche se non è nulla di mai visto. Però lo hai sviluppato e condotto in modo credibile e godibile in un tranquillo “soft-noir”.
Vero che alcune parti sembrano un po’ sbrigative, ma la struttura c’è. Il movente è plausibile, la via per la soluzione nell’ordine delle reali potenzialità di un cane addestrato in modo particolare, pur se non per lo specifico sfruttamento del suo fiuto, e del suo padrone, dotato di una sensibilità affinata dalla disabilità. Non è secondario il particolare legame fra quel tipo cane e il suo padrone, ha il suo peso proprio nella specifica vicenda e a me è piaciuto come lo hai rappresentato e usato ai fini dell’”indagine”.
Ha un peso fondamentale (e risolutivo) anche la reazione scomposta del colpevole, che si tradisce in un’improvvisa crisi di panico e conferma i sospetti. Sì, ci sta benissimo: in un certo filone di polizieschi si può definire proprio classico il crollo del colpevole che viene messo, o si vede, con le spalle al muro. Ma esattamente quella scena, altamente funzionale, mi è sembrata proprio la più “accelerata”, senza che ciò fosse utile alla narrazione (sarebbe stata giustificata solo se, invece, tu avessi scelto di inserire uno sviluppo a più elevata tensione. Cosa da non escludere a priori, ma da condurre con grande attenzione, se si decide di modificare in tal senso il finale).
Poi c’è “il caso”, certo, ma non si può dire che intervenga a gamba tesa in questa tua storia. Non più di quanto non incida, ogni giorno, sulla realtà che viviamo.
 
Un racconto che ho trovato gradevole e sul quale penso potrebbe valer la pena di lavorare un po’, per risolvere le discontinuità che ti sono state segnalate, cioè approfondendo le parti sulle quali, ti sei resa conto anche tu, sei stata un po’ troppo sbrigativa.
Lette le schede dei tuoi personaggi principali, direi che sei riuscita a rappresentarli, qui, in modo da far arrivare al lettore i loro tratti esattamente per come te li sei figurati. La scheda di ‘Ntoni, per forza di cose, è al limite dell’essenziale, ma dato che il racconto non focalizza mai su di lui, è ovvio che nemmeno tu, autrice, avevi bisogno di conoscere il personaggio più di così.

A rileggerti.

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