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Re: Facciamo sul serio

@Luigi

Ciao Luigi, grazie mille per l'attenzione con la quale hai letto il mio testo, e grazie per i preziosi consigli.
Il racconto che ho postato come hai ben capito è un capitolo di un romanzo storico che ho scritto sulle Brigate Rosse. Il capitolo è stato rapidamente e malamente riadattato, direi molto malamente a questo punto, per essere pubblicato qui: gli errori di formattazione, almeno quelli, sono dovuti a un frettoloso copia/aggiusta/incolla.
Devo dire che ho trovato molto intelligenti alcune tue osservazioni sul testo: in particolare le tue considerazioni sull'uso che ho fatto della lingua o meglio dello stile, nonché ho apprezzato le critiche seppur negative alla drammaturgia del romanzo.
Mi piacerebbe molto leggere un tuo parere sulla mia idea complessiva di come andrebbe confezionato un romanzo storico di questo tipo, ti scrivo le righe che seguono sperando che mi leggerai e mi risponderai ancora.
Ho iniziato a scrivere questo romanzo circa tre anni fa spinto dalle mie velleità da scrittore e dalla mia passione per la storia, ho sentito il bisogno artistico di consegnare un messaggio che trasferisse al lettore l'esperienza giovanile degli anni di piombo. Mi piaceva il fatto di consegnare dentro un romanzo che tutto nel mondo si può cambiare e che il lavoro non è necessariamente il perno di tutta l'esistenza umana, specificando dettagliatamente che alla legittima aspirazione al cambiamento vanno accordati metodi adeguati.  Per non dilungarmi troppo non mi soffermerò sui messaggi che il romanzo auspica di far arrivare al lettore.
Per quanto riguarda la mia attività artigianale …  nello scrivere un romanzo del genere ho pensato a un protagonista che racconta al lettore dei fatti noti (trattandosi di un romanzo storico non potrebbe essere altrimenti), e che ogni volta trasferisce insieme ai fatti storici le proprie sensazioni, le emozioni, e il continuo formarsi e sgretolarsi delle proprie convinzioni. Il romanzo in alcuni capitoli è attraversato come correttamente osservi: da una specie di flusso di coscienza. È un metodo narrativo che adotto forse impropriamente per spiegare al lettore il senso di alcune scelte di vita oggi incomprensibili: fare la rivoluzione, decidere di vivere in clandestinità, scegliere l'omicidio politico come strumento di lotta.  Ti dico inoltre per darti un'idea quanto più chiara dell'opera che si tratta di un romanzo corale, il protagonista è un soldato semplice dell'organizzazione e la sua dimensione di personaggio protagonista è volutamente rimpicciolita in favore dei tanti personaggi che compaiono nel corso del romanzo.
Il romanzo attraversa il periodo storico che va dalla fondazione delle BR a un attimo prima del sequestro Moro.
Un’ultima cosa in merito allo show: il sequestro Amerio nel romanzo completo è diviso in due capitoli, la cattura e il sequestro, in più la narrazione si estende ulteriormente all'interno di alcuni documenti dell'epoca riportati all'interno dei capitoli; documenti che ho tagliato nel racconto ma che fanno parte del romanzo.
E.N.

Re: Facciamo sul serio

@Kasimiro

Grazie mille per i rilievi e per i consigli, farò tesoro delle dritte sulla punteggiatura e condivido alcune tue osservazioni sulla "macchinosità" in alcune parti del testo.

Come dicevo a @Monica il racconto altro non è che un capitolo del mio romanzo sulle BR. Trattandosi di una sezione di un'opera molto più ampia (circa 350 pagine) è impossibile ottenere l'ordine che può darti un racconto che nasce come tale, diciamo che ho sezionato uno dei capitoli che potevano vivere meglio in autonomia rispetto al tutto (tecnicamente un acrocchio😅).
Il protagonista in quel capitolo non parla direttamente, osserva e racconta i fatti, quindi il suo ruolo non si coglie pienamente. L'opera dovrebbe (dico dovrebbe perché sono alla prima stesura e non escludo errori) svolgersi tutta in un passato ormai chiuso il passato remoto, e il protagonista dovrebbe raccontare della scelta rivoluzionaria che ha travolto quella generazione.
Alla fine il protagonista non si pente di niente (ne  ha combinate tante eh!) ma si dimette, perché  si rende conto che un' epoca è finita. Il protagonista è l'unico personaggio "non storico" del romanzo, e la coscienza critica degli anni di piombo, Ettore è un militante regolare delle BR e rappresenta il pessimo eroe che affiora in tutti i processi storici che cambiano il mondo.

Re: Facciamo sul serio

@Monica

Grazie mille intanto per l'accuratezza con  cui hai analizzato il mio racconto, farò tesoro dei tuoi rilievi e consigli, in particolare la punteggiatura è un aspetto che devo rivedere con molta cura, meno la formattazione, alcune sbavature sul formato sono presenti perché si tratta di una prima stesura e credo che spariranno con la prima revisione del testo.
Il mio racconto comunque nasce da un trucco, un piccolo trucco (spero di non aver violato il regolamento).  Il racconto l'ho ricavato dall'estrazione di un capitolo del mio romanzo storico sulle BR. Ho appena ultimato il romanzo e quindi quella sezione risente di tutti i sintomi della prima stesura, inoltre il protagonista e voce narrante in quel capitolo è evanescente perché purtroppo non si rivolge direttamente a nessuno ma osserva dall'interno la prima grande operazione del gruppo. 
Già che ci sono ti dico che si tratta di un romanzo di circa 350 pagine che affronta il fenomeno del terrorismo rosso nella parabola temporale che va dalla fondazione delle BR a un attimo prima del sequestro Moro. Il romanzo cerca di processare le ragioni della scelta "rivoluzionaria" e le responsabilità assunte da una generazione che poteva solo perdere in quello scontro, ma che nonostante tutto non ha esitato nello scegliere la morte e la galera pur di provarci. Il protagonista è l'unico personaggio non storico del romanzo, la sua è la voce critica del gruppo.

Facciamo sul serio

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Dovevamo darci un tono!
Il nostro linguaggio doveva essere autorevole ma di larghissima fruibilità, dovevamo incontrare il gusto letterario delle masse proletarie. Non era semplice.
Un rivoluzionario per essere tale deve per forza affiancare l’attività militare a quella altrettanto importante della produzione intellettuale, dovevamo costruire un dialogo con il popolo, e per avere un dialogo bisognava parlare nella stessa lingua.
Decidemmo, che i comunicati politici e ogni altro documento ad uso esterno avrebbero avuto senza troppi giri di parole un linguaggio di immediata comprensione,  dovevamo andare dritti al cuore del problema, e soprattutto dovevamo dare la nostra soluzione del problema. In questo comunicato volevamo due chiarissime cose dalla Fiat:
1-     La fine della Cassa Integrazione per tutti;
2-     Smetterla di assumere sempre e solo fascisti e raccomandati, almeno tra gli operai;  
Cosa avremmo fatto se il capo del personale o l’azienda si fosse rifiutato di far passare le nostre riforme?  Semplice, lo avremmo ucciso.
E’ impossibile non ribadire il concetto, eravamo in guerra, è il capo del personale del gruppo Fiat era uno dei più alti nemici, nessuno di noi avrebbe avuto tentennamenti a premere il grilletto, ma volevamo trattare, non eravamo interessati al sangue per il sangue, ci hanno dipinto per anni come dei sadici, la gioventù bruciata innamorata del piombo e del terrore, ma non era per niente così: noi chiedevamo le riforme al paese! Certo in un sistema capitalista erano riforme inaccettabili da qualunque governo, ma non erano niente di più che riforme; in quella fase della nostra storia nell’attesa della rivoluzione comunista, il cambiamento radicale era quello che chiedevamo.
 
-         Tutto il giorno che piange;
-         Che ti aspettavi da un servo di Agnelli?
-       Si dichiara colpevole di tutto, dei licenziamenti del fascismo alla Fiat, di ogni cosa, e se lo liberiamo dice che fa ogni cosa, cambia le regole in          fabbrica ci fa avere i soldi, si licenzia, e viene con noi a fare la lotta armata;
-         Ne invidio la libertà d’azione, meno il coraggio;
-         E’ un bugiardo! E se lo liberiamo sulla parola facciamo la figura dei coglioni;  
 
Il Cavaliere fu pronto da subito a collaborare, riconobbe senza fatica il nostro ruolo e le nostre ragioni,  possiamo dire che non oppose la minima resistenza, i suoi comportamenti erano ovviamente fortemente condizionati dalla paura,   Renato Curcio con i suoi modi sempre estremamente garbati e rispettosi lo interrogò, le domande che gli pose riguardavano alcuni aspetti economici che interessavano il personale, in particolare il ricorso sistematico alla Cassa Integrazione, e il Cavaliere si dimostrò per tutta la sua prigionia assolutamente collaborativo, aveva capito prima di chiunque altro, che non scherzavamo per niente.
Avevamo intrappolato il cavaliere in uno sgabuzzino, in un buco di nostra proprietà dalle parti di Corso Taranto, la prigione era stata ricavata modificando i tramezzi di un appartamento di 60 mq, dei compagni avevano coperto l’ingresso del loculo con un armadio ad ante scorrevoli, l’armadio era sempre pieno zeppo di vestiti che bisognava rimuovere tutte le volte per accedere alla cella del prigioniero, e poi la parete di accesso alla prigione si confondeva per colore e materiale con l’interno dell’armadio, stavamo al quinto piano senza ascensore di un condominio abitato da soli turnisti meridionali, tutta gente con mille problemi lavorativi e umani, gente che restava dentro casa solo per mangiare e dormire, gente stanca poco interessata agli affari altrui e culturalmente omertosa. Tutta la madama del mondo non l’avrebbe mai trovato vivo.
I giornali dal canto loro non sembrano eccessivamente allarmati, parlarono di noi con toni sprezzanti, l’Unità ci apostrofava ancora con quel insopportabile   “ le sedicenti Brigate Rosse” insinuando che con le nostre azioni avremmo alla fine danneggiato la classe operaia, perché le azioni di rivendicazione salariale non potevano confondersi con atti di teppismo. Il classico atteggiamento superiore di chi ha capito tutto, a nostro giudizio l’atteggiamento  di chi fa solo finta di interessarsi alla causa degli ultimi, e sostiene in propria difesa che per portare avanti questa causa gli ultimi  non debbano combattere mai, procrastinando la lotta a date future e indefinite, che mai arriveranno in calendario, o meglio gli ultimi secondo il giornale del PCI si difendevano  non facendo arrabbiare troppo i padroni, che invece il problema di farli incazzare loro agli ultimi non se lo sono mai posto, neanche per un attimo. 
 
-          Cavaliere, mi ascolti… Le volevo dire, che il tribunale del popolo prevede la pena di morte, capisce, cosa le sto dicendo?;
-         Vi ho detto che faccio qualsiasi cosa? Ho già scritto in azienda, li posso rovinare tutti se voglio! Facciamolo insieme, roviniamo quella maledetta fabbrica;
-         Non basta caro il mio cavaliere, deve migliorare la condizione operaia in Fiat, e deve farlo subito, da oggi;
-         Io vi giuro che non ci sarà una più una sola richiesta di Cassa da parte mia, darò le dimissioni se servirà;
-         Cavaliere,  facciamo cosi, Lei faccia ritirare alla Fiat tutte le richieste di Cassa Integrazione in corso, e noi lo prenderemo come un gesto di buona volontà da parte sua;
-         Come posso far ritirare quelle in corso!? Sarebbe ammettere che abbiamo fatto richieste fasulle, dire che abbiamo i bilanci taroccati, se facciamo una cosa del genere, penseranno che siamo dei ladri;
-         Esatto Cavaliere, è proprio quello che vogliamo.
Il bello di avere che fare con il Cavaliere Amerio era che ci si capiva al volo.
Imparammo presto che il nostro miglior interlocutore nella lotta era senza dubbio un dirigente o un padrone. Davanti a noi il padrone smetteva di far finta, non poteva più fingersi eroe, o recitare la solita farsa dell’uomo che rischia il proprio per il bene di tutti. Per Ettore Amerio gli operai erano carne da cannone, e nulla più, li voleva pagare il meno possibile e spremerli ogni giorno di più, il suo lavoro consisteva nel cavare da ogni operaio fino all’ultima goccia di sangue, fino alla morte. Con uno cosi per forza ti capivi con uno sguardo.
Cosa diversa era la politica, i politici erano incomprensibili, le loro scelte sembravano sempre contorte e profondamente irrazionali, non rispondevano mai a te, il politico di fronte a una tua richiesta rispondeva guardando all’opinione pubblica all’opposizione interna, al giudizio della chiesa, alla lobby economica avversa, il problema che gli ponevi alla fine non lo riguardava, era più preoccupato di altri fattori estranei a te e a lui, a maggior ragione eravamo convinti che con uno stato cosi non ci potevi proprio parlare, potevi solo provare ad abbatterlo, e farci la guerra.
Lo stato provò invano a cercare il prigioniero, e in quell’occasione oltre a non intimorirci ci mostro la profonda debolezza dei propri mezzi, la lentezza nelle azioni sempre goffe e poco lucide, in quei giorni del sequestro Amerio crebbe in noi la convinzione che avevamo più di una possibilità di vincerla la nostra guerra,  quel paese era stato costruito sull’nulla, o su qualcosa che era sempre instabile, diffidente, comunque qualcosa di corrotto, si reggeva sulle amicizie, sui ricatti, sulle menzogne, sulle raccomandazioni agli amici degli amici,  la macchina burocratica era un carrozzone lento, e le forze di polizia non si rendevano ancora conto di cosa fosse la lotta armata, e  non si rendevano conto del potenziale rischio che rappresentavano per lo stato le azioni eversive di un partito armato.
La pessima prova di forza dello stato italiano nei confronti del sequestro Amerio ci spinse ad osare, ad alzare l’asticella del rischio, a sussurrare all’orecchio del potere democristiano un beffardo “prova a prenderci” allora decidemmo di lasciare  un comunicato di rivendicazioni nella stessa cabina del telefono nella quale avevamo lasciato il primo comunicato, stesso posto stessa ora, sicuramente era un posto già piantonato e tenuto d’occhio dalle guardie, in questo secondo comunicato dicevamo semplicemente che senza un rapido accoglimento delle nostre richieste avremmo condannato a morte il sequestrato. Per l’occasione a Milano nei pressi della Sit Simens dentro un auto con un megafono mandavamo agli operai un messaggio delle BR, rivendicavamo il sequestro Amerio e  annunciavamo le richieste salariali che BR avrebbero avanzato al paese a beneficio di tutta la classe operaia.
Dopo il quinto giorno di sequestro ci incaricammo tramite un emissario di fare arrivare un messaggio chiaro e definitivo in Fiat:
”Ritirate tutte le richieste di Cassa Integrazione e cambiate per sempre le politiche di assunzione, oppure tra due giorni troverete il cadavere del Cavalier Amerio davanti ai cancelli di Mirafiori, freddato con un colpo di pistola alla nuca. Informiamo a mezzo della presente la dirigenza del gruppo Fiat che subito dopo il Cavaliere verremo a prendere un altro di voi. Avete 2 giorni di tempo,  Cordiali Saluti,  Brigate Rosse “ .
Scrissi io il messaggio per l’azienda, mi piaceva l’idea di continuare a chiamare il sequestrato Cavaliere, trovavo elegante il riconoscimento dei ruoli in quelle circostanze drammatiche, dava idea di una guerra ufficiale, era un modo cosi giacobino di porsi, in quei momenti mi sentivo un autentico rivoluzionario,  riconoscevo i titoli del nemico anche se si trattava di titoli provenienti da un’ onorificenza ultraborghese, che per tutte le ragioni del mondo non meritava rispetto alcuno, fossimo mai andati al potere titoli del genere li avremmo aboliti senza neanche doverne discutere.
Comunicati o no, sapevamo che lo stato italiano non ci  avrebbe mai riconosciuto come organizzazione politica, non saremmo mai stati considerati rivoluzionari o prigionieri politici,  noi saremmo sempre stati solo assassini o terroristi, questo a me personalmente non mi importava, erano le regole del gioco,  ma noi ci tenevamo a rimarcare che eravamo diversi da loro, e esattamente come loro volevamo una guerra e non una faida tra teppisti.  
 
Dopo il sequestro, dopo qualche comunicato e qualche lettera intimidatoria, dopo un goffo tentativo da parte loro di scovarci, arrivarono le prime vere buone notizie, era il 16 dicembre del 1970, e con una circolare ufficiale a tutte le organizzazioni sindacali il gruppo Fiat dichiarava inaspettatamente e con grande stupore da parte di tutti che l’azienda per ragioni di opportunità aveva ritirato ogni richiesta di Cassa Integrazione in corso.
Il comunicato aziendale testualmente diceva: “Il gruppo Fiat informa tutto il personale e le organizzazioni sindacali di aver in dada odierna ritirato tutte le richieste di Cassa Integrazione, e comunica contestualmente che non verranno formulate nuove richieste di Cassa Integrazione su istanza formulata da società appartenenti al gruppo Fiat” i vertici aziendali non aggiunsero altro al comunicato, né motivazioni né ragioni. Era clamoroso!
Inoltre, a stretto giro di posta clandestina fummo informati che il sindacato CISNAL (quello dei fasci!) non avrebbe più avuto in azienda un ruolo privilegiato nel reclutamento del personale.
Era incredibile, avevamo vinto, avevamo stravinto, si erano piegati alle nostre richieste fino all’ultimo. Una cosa mai vista, le nostre riforme erano passate, avevamo ottenuto più noi in una settimana con un sequestro, che il PCI in venticinque anni di opposizione in parlamento.
Rilasciammo subito il Cavaliere Amerio, volevamo essere di parola, gli accordi in guerra si rispettano. 
I tempi che ci attraversarono furono frizzanti, il nostro consenso stava crescendo, ricordo nel 71 che un operaio della Sit Simens ci portò una cassetta piena di tessere del PCI e della CGIL erano tessere strappate, ridotte a brandelli, ci disse che era modo con cui i suoi compagni vollero aderire almeno idealmente alle BR, noi incoraggiati da questo consenso  continuammo a intensificare lo scontro militare, negli anni 70 c’era la fabbrica c’era la politica e c’erano le attività di autofinanziamento (le rapine),  il dialogo con la masse sembrava cominciare, le nuove organizzazioni nate dal vento delle nostre battaglie parlavano ora di lotta armata come soluzione possibile per il rovesciamento del sistema, ci svegliavamo al mattino e scoprivamo ogni giorno un cartello, un portone, un ponte, un muro: BR, Stella nel cerchio.
Il nostro stendardo appariva al mattino sotto i ponti nelle strade di città e di campagna, la stella a cinque punte marchiava i reparti delle  fabbriche e i portoni degli uffici, la lotta al cuore dello stato era iniziata, eravamo all’alba degli anni di piombo. Il disastro che avrebbe rovinato le nostre vite stava per arrivare.
 

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