Traccia 1 - "Bene o male"
Racconto commentato:
Una brava persona
Uomini colpiti
─ Perché piangi, pa’?
Ignazio era un bambino quando vide per la prima volta suo padre piangere. Allora si trovavano a casa davanti al televisore in bianco e nero; la mamma sparecchiava la tavola da pranzo, la sorellina litigava con il fratellino mentre pasticciavano un disegno su un quaderno.
Il papà indossava la camicia bianca e la cravatta nera, le maniche leggermente arrotolate sulle braccia, i pantaloni neri con le bande laterali rosse; tra un po’ si sarebbe messo la giacca da carabiniere per scendere nella caserma al piano sotto la loro casa, perché quel giorno era di turno di piantone. Poteva permettersi di guardare la televisione in attesa del caffè.
Trasmettevano un documentario con vedute di edifici bombardati, le guglie di una cattedrale sventrata, soldati che affollavano le strade, file di morti che si intravedevano ai lati. Ignazio guardava senza troppo interesse e vide suo padre, seduto a fianco, che tossiva e sospirava strofinandosi rudemente una guancia fino ai folti baffi neri.
─ Perché piangi pa’?
─ Non è niente.
Passò del tempo, ma anche un paio d’anni sono tanti per un bambino.
─ Pa’, cosa vogliono dire quei nastri colorati che hai sulla giacca?
─ Oh, niente. Medaglie che danno a noi, sai…
─ E questo nastro della bandiera con due stelle? È il più bello di tutti.
─ Ah, questo! Sì. Me l’hanno dato dopo la guerra.
─ Hai fatto la guerra pa’?
Il padre aveva tardato a rispondere, per un attimo lo sguardo sembrava essersi estraniato dal posto dov’erano.
─ Sì ─ disse soltanto con un lieve sorriso, accarezzando il figlio e andando al lavoro.
Passò altro tempo. Quell’anno Ignazio avrebbe dovuto diplomarsi. Come ogni estate erano andati al mare, nel paese dei nonni. Suo padre non sapeva nuotare, si limitava a immergersi nell’acqua fino al petto e poi si distendeva al sole sorridendo contento sotto i baffoni che stavano cominciando a diventare bianchi, guardando tranquillo i turisti che affollavano la spiaggia.
Ignazio era appena uscito grondante acqua dal mare, distendendosi sull’asciugamano che sua madre aveva sistemato a fianco del padre.
─ Quando vai in pensione, pa’?
─ Oh! Non manca molto ormai. Tu sarai già all’università.
─ Pa’?
─ Sì?
─ Ma che film era quella volta, tanti anni fa a casa, che ti aveva fatto piangere? Ricordi?
─ Ah! Sì. Ricordo. Non era un film. Era un documentario su Dresda al tempo di guerra.
─ Ecco ─ rispose Ignazio. ─ E di cosa parlava? Perché piangevi? Me lo ricordo.
Ignazio sembrava divertirsi. Per lui suo padre era una roccia e vederlo in difficoltà davanti a una domanda che all’apparenza gli sembrava banale non era una cosa usuale; il fatto lo incuriosiva.
─ Vecchie storie di quando ero giovane ─ rispose il padre raccogliendo il giornale buttato in un angolo e aprendolo a caso.
Ignazio si mise seduto sull’asciugamano. ─ Perché non mi racconti qualcosa? Non mi dici mai niente.
Il padre lo guardò socchiudendo gli occhi al sole, accennò un sorriso, chiuse il giornale con cura piegandolo diverse volte e mettendolo da parte, strinse le braccia intorno alle ginocchia guardandosi intorno. I bagnanti si tuffavano allegri in acqua, i bambini urlavano giocando a pallone in un campetto improvvisato, con due infradito infilate nella sabbia a delimitare la porta. Chinò il capo sospirando. Pensieroso. Quando rialzò la testa il suo sguardo era cambiato, sembrava vedere altre cose.
─ Le parole non bastano. La guerra è brutta, Ignazio.
─ Tu dimmi. Io volevo sapere.
Il padre annuì.
─ Lo sai che avevo un anno più di te, diciotto nel 1942, quando dovevo partire soldato, ma io scelsi di andare nei carabinieri. Mi andava così. Mi mandarono A Roma alla scuola allievi. Dopo un paio di mesi uscimmo in libera uscita per la prima volta, sai, vestiti di grigioverde con le fasce ai piedi e il cappello a lucerna senza pennacchio, anche quello avvolto di tela grigioverde. Io e i colleghi spendemmo tutta la nostra paga, che non era molta, per comprare cartocci di castagne arrosto. Avevamo una fame… L’anno dopo, proprio il giorno del giuramento, nel luglio del 1943, gli Alleati bombardarono Roma e uccisero il generale comandante dell’Arma che ci aveva passato in rassegna. Le cose non andavano bene. Ricordi quella piccola foto dove sono con altri colleghi sotto i portici della scuola allievi? Ci avevano appena messo gli alamari e qualcuno sorrideva contento.
─ Ah sì! Devi farla ingrandire, è davvero bella.
─ Quando ci promossero carabinieri alcuni di quei ragazzi finirono in Jugoslavia. Sono morti quasi tutti. Morti male. A me e altri ci mandarono a Torino. Ma dopo l’armistizio, quell’otto settembre 1943, i tedeschi ci misero su un treno e ci portarono prigionieri in Germania.
─ Quanto ci sei rimasto?
─ Due anni. Due stellette, ricordi?
─ Ah! Quelle!
─ Per due anni io e gli altri prigionieri abbiamo girato tutta la Germania. Ci hanno fatto sfilare davanti alla gente sotto la porta di Brandeburgo a Berlino. Sono stato in Alsazia, ad Amburgo, in Polonia.
Ci consideravano internati anche se eravamo prigionieri. Non ricevevamo assistenza dalla Croce Rossa, a casa pensavano che fossi morto. Ci facevano lavorare. Raccoglievamo i rottami degli aerei Alleati abbattuti dalla contraerea, li caricavamo sui camion che li portavano alle acciaierie Krupp che li fondevano per fare cannoni e carri armati.
Aiutavamo le squadre soccorso a recuperare morti e feriti nelle città bombardate dagli Alleati. Ci mandavano nelle campagne per lavorare i campi assieme ai contadini che avevano i figli al fronte. Mangiavamo tutti assieme con le loro mogli e i bambini. Non ci trattavano male. Un camion ci portava al lavoro il mattino e la sera veniva a riprenderci per riportarci al campo.
─ Perché non sei scappato?
─ E dove potevo andare?
─ Tornare a casa.
─ Non era facile. Mica bastava prendere il treno. Ho avuto una possibilità di tornare in Italia però.
─ Quando?
─ Dall’Italia vennero degli ufficiali belli puliti per dirci che chi aderiva al nuovo governo che si era formato dopo l’armistizio sarebbe tornato subito in Italia.
─ E tu?
─ Ho rifiutato.
─ Ma perché? Se potevi…
─ No. Avrei dovuto stare con gente che non mi piaceva, fare cose che non volevo fare. Non sarei più stato un carabiniere. Io e quasi tutti i miei colleghi preferimmo restare prigionieri.
─ E poi?
─ Avevo imparato a parlare un po’ di tedesco, le cose essenziali. C’era fame, malattie, sofferenza. Molti non ce l’hanno fatta. Io resistevo perché ero giovane e forte. Quando dopo i bombardamenti lavoravamo con le squadre soccorso e i vigili c’era bisogno di molta manodopera e i prigionieri erano sempre impegnati. Ho preso e trasportato tanti morti nei bombardamenti, donne, vecchi, bambini che non c’entravano niente con la guerra.
─ Adesso ho capito perché piangevi vedendo il documentario. Ti sei ricordato tutto.
─ No. Non avevo mai dimenticato. Non è possibile. La guerra stava per finire nel febbraio 1945, gli Alleati e i Russi erano già in Germania, come si spostava il fronte i tedeschi spostavano anche i prigionieri e un giorno ci portarono a Dresda. Era una città antica e piena di belle cose, non avevo mai visto niente di più bello in vita mia. Non era stata mai bombardata fino ad allora, non sembrava nemmeno che ci fosse la guerra, c’era tanta gente, tanti sfollati di altre città. Ci fermammo per riposare e subito dopo gli Alleati la bombardarono senza fermarsi mai per tre giorni. Io con altri colleghi e dei soldati tedeschi ci nascondemmo sotto le rovine di un grande ponte che ci proteggeva, rimanendo nascosti per tre giorni e tre notti sotto le esplosioni continue, senza mangiare e senza bere.
Ignazio si mordeva le labbra salate.
─ Alla fine uscimmo, coperti di polvere in mezzo a Dresda che non esisteva più. Solo fiamme, un vento rovente che soffiava forte ci spingeva e faceva cadere in mezzo agli incroci di avanzi di strade e alle rovine dei palazzi; montagne di morti accatastati gli uni sugli altri come venivano estratti dalle macerie.
─ Il documentario…
─ Hanno fatto vedere solo una piccola parte. Camminavamo in mezzo ai morti bruciati dal fosforo, schiacciati dai crolli dei palazzi, a gente che urlava e correva impazzita, l’aria piena di quell’odore tremendo… Quell’odore… sai…
Il padre aveva chiuso gli occhi, stringendo un pugno, sollevandolo appena e poi aprendo piano le dita come a chiedere, aspettare una risposta. Ignazio era rimasto in silenzio, incantato a guardare quella mano, la mano di suo padre.
─ Si sentivano degli spari ogni tanto ─ riprese.
─ A chi sparavano?
─ Eravamo spaventati, non capivamo, non riuscivamo a parlare. Avevamo già visto tanti morti ma qui era tutto davvero troppo.
Un capitano della Wehrmacht con la divisa a pezzi e bianca di polvere come le nostre si mise davanti a noi e ci fermò.
─ Italienisch! ─ urlò.
Ci fermammo aspettando ordini. Eravamo abituati a ricevere ordini. Il capitano non riusciva a parlare, ricordo quei grandi occhi grigi spalancati in mezzo alla faccia bianca. Poi parlò. ─ Italienisch! In nome di Dio..! Aiutateci! ─ e si mise le mani in faccia piangendo.
─ E voi cosa avete fatto? Erano nemici, no?
Ignazio vide suo padre guardarlo in maniera severa, come quando da piccolo stava per sgridarlo per qualche mancanza.
─ Erano uomini colpiti, come noi. Eravamo tutti uomini. Ci unimmo alle loro squadre soccorso, come già fatto tante altre volte e tirammo fuori dalle macerie i morti; venivano accatastati come legna e i tedeschi dopo averli cosparsi di benzina li mettevano fuoco. Impossibile seppellire tutta quella gente. Impossibile.
Io e un altro collega ci trovammo in un fossato dove prima c’erano dei palazzi, ora solo rovine in fiamme e una grande pozza di fango nero piena di cadaveri bruciati, alcuni che ancora bruciavano. Qualcuno si muoveva in mezzo a quei morti. Era un bambino completamente bruciato, vicino ai resti di una donna morta, forse sua madre. Del bambino si vedeva intera solo una parte della testa con i capelli e gli occhi bianchi che non vedevano più. Era quasi tutto sotto il fango, appena tirava fuori a fatica un braccio o una gamba si riempiva di fuoco e doveva rimetterla sotto il fango urlando di dolore, come un animale.
Un SS Sturmscharführer – un sergente maggiore SS - con la divisa nera, si avvicinò. Era stravolto, con gli occhi di fuori e i capelli sugli occhi. Ci fece cenno di spostarci. Si inginocchiò vicino al bambino, affondando le mani nel fango, parlandogli, prendendolo delicatamente, aiutandolo a risollevare la testa per respirare e immergendolo di nuovo per spegnere le fiamme, così per diverse volte, senza curarsi del fuoco che si era attaccato anche alle maniche della sua divisa e alle sue mani. Non ricordo cosa diceva al bambino, sembrava una cantilena, una ninna nanna come per farlo dormire. Il bambino si lamentava di meno, si era agganciato al militare con una forza disperata, con le mani consumate dal fuoco. Il sottufficiale tirò fuori la pistola, si sentì uno sparo. Il bambino aveva smesso di lamentarsi affondando tutto nel fango senza riemergere, accompagnato con delicatezza dal sergente maggiore che rimase ancora in ginocchio. Poi si alzò e venne verso di noi, la divisa sporca e bruciata, la pistola in mano.
─ Adesso ci ammazza ─ disse il mio collega. Anche io ne ero convinto vedendo la sua faccia e recitai una preghiera.
Ma il tedesco ci passò in mezzo come se non esistessimo.
Aveva l’odore dei morti che aveva visto e toccato come noi in quei giorni, aveva l’odore della carne bruciata di quel bambino: aveva il nostro stesso odore. Andò più avanti, si fermò sotto le rovine in fiamme della cattedrale di Dresda, sollevò le mani al cielo è gridò:
─ Warum..? WARUM??
Poi si inginocchiò, si appoggiò la pistola alla testa e si sparò.
Ignazio era rimasto a bocca aperta, non riuscì nemmeno a fermare un filo di saliva che gli calò sul mento.
Chiuse gli occhi per riprendersi.
Quando li riaprì vide suo padre, alzatosi senza fare rumore, che era andato in mare immergendosi tutto, cosa che non faceva mai non sapendo nuotare. Riemerse all’improvviso in un punto isolato, sollevandosi in alto con la faccia grondante acqua rivolta al cielo, la bocca aperta in un urlo silenzioso; sembrava provasse a respirare aria per la prima volta, guardandosi intorno senza vedere nessuno in quell’estate di mare, sbalordito di essere al mondo, nell’acqua e nella luce.
La guerra per lui non era mai finita.