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Re: [Lab12] Mal d'amore

Grazie a te @bestseller2020. Specie se, come leggo, ci sei dentro fino al collo:
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"Non lo faccio di professione, ma ho all'attivo tante risoluzioni casi"
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 Non so se te ne rendi conto, ma il popolo rumoreggia: Lui? Come? Perché?  :o
Pensi di continuare ad ammantarti di mistero o dobbiamo assoldare qualcuno per saperlo? 
bestseller2020 ha scritto: Qui non si spiega il ricovero tra le suore, al posto di una clinica, e senza consenso del marito...
Il ricovero dalle suore non è una soluzione originalissima dato che la meschina, al netto del Gaslighting, viene semplicemente messa in salvo dalle angherie del signor LaBestia, il consenso del quale evidentemente non è previsto  :nono: 

<3
 

[Lab12] Mal d'amore

Alle 7.50 di un venerdì qualunque, Paride Benincasa, pallido, emaciato e con addosso solo il pigiama, entra in commissariato, arranca fino al bancone e ci si aggrappa con le mani rinsecchite.
«Voglio denunciare un assassinio, il mio» mormora con un filo di voce e si accascia a terra.
«Commissario, corra!» urla l’agente Guareschi.
Ancora col cappotto addosso, Ermete Nardelli si china sul corpo «Chiama un’ambulanza!» Mette due dita sul collo dell’uomo, scuote la testa: «È andato.»
Dieci minuti, barella, lenzuolo, il corpo sale, il portellone si chiude.
«Paride!» urla un uomo che arriva di corsa.
«Dove lo portano? Perché quel lenzuolo?» grida un altro.
«Paride!» urla un terzo. Un attimo di silenzio poi tutti dentro, sempre di corsa, sgomitando e spintonando Guareschi che cerca di fermarli: «Calmatevi, signori, calmatevi!»
«Portali da me» fa Nardelli e subito, a sentire quella voce, i tre si placano e si lasciano condurre nella stanza del commissario.
Luigi Fontana, ex farmacista, Torquato Passalacqua, ex barbiere e Clemente Arrigoni, ex giardiniere comunale, tutti ex data l’età, se ne stanno seduti davanti alla scrivania.
«Ora, con calma, mi dite quello che è successo» dice Nardelli.
«Eh no, commissario!» insorge Torquato «Siamo noi che vogliamo saperlo!»
Quello sospira e guarda l’orologio sul muro: Ora di colazione e un quarto. Invece niente, manco un caffè, cominciamo bene.
«Il vostro amico è deceduto, e questo l’avete capito.» Lo dice pacato, come farebbe con dei bambini spaventati. «Il resto ce lo dirà il medico legale.»
«Sì, ma quando?» fa Luigi.
«Appena potrà. Adesso invece ho bisogno di sapere da voi chi era Paride, perché si chiamava così, vero?»
«Sissignore» fa Clemente, «Paride Benincasa. E per noi era molto più che un amico.»
«Un fratello. Sì, un fratello!» dice Torquato.
E, un poco alla volta, tra un sospiro e un singhiozzo trattenuto, i tre riescono a dare caotica quanto accorata testimonianza dei fatti. Non tanto di come Paride sia potuto finire col cartellino al piede su un tavolo d’acciaio, ma di tutto quello che era successo prima. Perché di cose ne erano successe a quella famiglia disgraziata, che chiamarla famiglia sembra quasi deriderla.
«Mi creda, commissario» dice Luigi, «non ci fossimo stati noi a confortarlo, a strappargli un sorriso, sarebbe crollato e avrebbe fatto la stessa fine della povera Clara, che era la moglie. Oddio, moglie … »
«Bella come un angelo, era una furia dell’inferno» fa Clemente. «Pensi che una volta Paride arrivò con una mano fasciata. Un morso, capisce? Gli aveva affondato i denti fino all’osso, che fu costretto a darle un colpo in testa per liberarsi.»
«Un’altra volta» dice Torquato, «gli si avventò con una bottiglia rotta che, guardi, c’è mancato un pelo e finiva sgozzato.»
«Quindi fu costretto a darle un altro colpo in testa.»
«Questo non lo so, certo fu la goccia che fece traboccare il vaso» dice Luigi. «Dovette farla ricoverare, perché capisce, in quelle condizioni, come poteva gestirla? Fece venire l’ambulanza di notte, che nessuno vedesse, e da allora è rimasta là.»
«Una famiglia distrutta» dice Clemente. «E il bambino? Povero figlio, Paride fu costretto ad allontanarlo. «Non deve vedere in che stato è ridotta la madre!» disse e non finiva più di piangere.»
«Una creatura, nemmeno due anni» fa Luigi. «Strappato da casa e affidato a certi zii americani, vissuto e cresciuto laggiù, non è mai tornato, sicuro che non sa manco chi siano i veri genitori. Ma se l’immagina?»
«Quindi Clara adesso è…» dice Nardelli.
«No, non è» fa Torquato.
«In che senso?»
«Dopo il ricovero le crisi divennero sempre più violente e alla fine si tolse la vita.»
«Ah. Ma dove è successo?»
«Paride non ce l’ha mai voluto dire» dice Luigi.
«Quindi, fatemi capire, nessuno di voi ha visto mentre la portavano via.»
«Di notte, commissario, per decenza.»
«E nessuno sa nemmeno dove l’abbiano portata.»
«Gliel’ho detto: Paride non ha voluto. Del resto, che differenza avrebbe fatto? Un posto o l’altro nessuno ci sarebbe mai andato. A fare cosa, poi?»
«Lui invece sì, ci andava almeno una volta a settimana» dice Clemente. «Perché, nonostante tutto, continuava ad amarla. «È la donna della mia vita» diceva. Partiva a buon’ora e tornava di sera con una faccia che non le dico.»
«E quando è morta» fa Torquato, «tutti abbiamo temuto che anche lui la facesse finita.»
«Però non è successo perché voi gli siete stati vicino. Dico bene?»
«Le cene, commissario. È stata un’idea di Luigi per distrarlo. Si andava tutti a casa sua, si mangiavano cose buone e poi si giocava a carte, si chiacchierava, si beveva un bicchiere e quando ce ne andavamo lui sembrava un po’ più sereno.»
«Poi però…» fa Clemente con un sospiro «ha cominciato a deperire. Dolori terribili all'addome, non riusciva più a camminare. I medici trovarono ulcere in tutto l'intestino, anomalie nel sangue e infiammazioni a fegato e pancreas. Alla fine era così debole che le cene le facevamo in camera da letto, dato che di alzarsi proprio non ne aveva la forza. Mangiare, poi è una parola grossa. Lo imboccavamo con un cucchiaino e per bere una cannuccia.»
«Però non lo abbiamo abbandonato. Mai. C’era sempre qualcuno con lui.»
«Anche stanotte?»
Torquato e Clemente si voltano verso Luigi.
«Sì, avrei dovuto esserci io» dice quello a bassa voce.
«Come avrei?» fa Torquato «Li hai voluti tu i turni di notte perché soffri di insonnia!»
«Mi sono allontanato solo un momento, un quarto d’ora, venti minuti al massimo.»
«Quindi l’hai lasciato da solo!» inveisce Clemente.
«Ma no, è che…»
«No un cazzo!»
«Scusate!» fa il commissario e dà una manata sulla scrivania. «Se permettete, qui le domande le faccio io.»
Silenzio. I tre fissano Nardelli.
«Allora, signor Fontana…»
«È vero: mi sono allontanato, ma per poco. Giusto il tempo di una boccata d’aria che in quella stanza… insomma, commissario quel poveretto…»
«Scoreggiava e allora?» grida Torquato «Che non scoreggi tu?»
«Ma sapeva di morto, cristo santo! Tutto là dentro sapeva di morto!»
«Una boccata d’aria, va bene» fa il commissario. «Però poi è rientrato, giusto?».
«Sì, ma Paride non c’era più. L’ho cercato per tutta casa, niente. Allora sono corso fuori e, siccome di lui non c’era traccia, ho chiamato gli altri e sono venuto qui. Il resto lo sa.»
 
Rimasti soli, il commissario Ermete Nardelli e il suo vice, Pier Giacomo Carsoli, si guardano in silenzio.
«Brutta storia» fa Carsoli.
In quel momento si affaccia l’agente Guareschi: «Ci sarebbe la signora Anna Pontremoli, la governate dei Benincasa. Faccio passare?»
Il donnone biondo si accomoda e fissa corrucciata il commissario, manco le avesse fatto qualcosa.
«Mi dica tutto, signora.»
«Io non ci volevo venire, che con voi sbirri sono sempre guai, però…» tira fuori un fazzolettino ricamato e ci strombazza dentro «Però una cosa così… Prima la signora, adesso il signore, ma sant’Iddio, non c’è mai pace per quei poveri disgraziati!» dice piangendo.
«La signora sarebbe la moglie.»
«E certo! Chi sennò?» mugola stizzita «Ci sto da quindici anni coi Benincasa, che s’erano appena sposati. Lui più che benestante, viveva di rendita, lei appena ventenne, un fiore, che il marito stravedeva, guai a chi le avesse dato un’occhiata di troppo. Poi successe qualcosa, non saprei dire che, ma la signora Clara andò fuori di testa. Lui se l’è tenuta finché ha potuto, però chiusa in una stanza perché, è brutto da dire, ma si vergognava di avere una pazza in casa. E allora cominciò l’inferno. L’inferno, commissario, mi creda. Lui faceva finta di niente, ma io la sentivo gridare, persino raspare alla porta come una bestia in gabbia. Finché una mattina vidi quella porta aperta, la stanza vuota e un silenzio da ghiacciare il sangue. «È meglio così, Anna. Adesso la cureranno e troverà un po’ di pace.» Così mi disse il signor Paride. Un po’ di pace… Forse adesso l’ha trovata anche lui.»
«Va bene, grazie signora Anna.»
Lei si alza, fa per andarsene, si gira: «Prendetevela pure con calma. Tanto quello che doveva succedere è già successo.» esce e chiude la porta.
«Che avrà voluto dire?» fa Carsoli.
Il commissario si stringe nelle spalle, poi comincia a pizzicarsi il mento. «Ma non ti suona strano? Tutti sanno tutto, ma nessuno ha visto niente. Non direttamente, almeno.»
«In effetti...»
«E tutto ruota attorno a quella donna. Voglio sapere dove e come è morta.»
«Sempre che sia morta davvero.»
«Oh cristo santo!»
«Sempre sia lodato.» Corpulenta, occhi di cristallo, una suora di quelle con le maniche arrotolate, abituata a usare le mani per fare cose, più che a tenerle giunte, sorride sulla soglia. «Lo è, commissario. Clara si è schiantata dalla torretta del convento.»
«Scusi, lei è…?»
«Suor Teresa, dal convento delle Ancelle di Maria. Ho sentito al notiziario di quel poveretto, Paride Benincasa, e il cognome mi ha fatto tornare in mente un’altra brutta storia che accadde da noi. Allora ho pensato che forse avreste avuto bisogno di quel tassello, per comporre il puzzle intendo. Ed eccomi qui.»
«Le va un caffè?»
«Magari, sono sveglia dalle quattro e la corriera non arrivava mai.»
«Carsoli.»
Quello scatta in piedi e si ferma sulla porta: «Sorella, gradisce pure un cornetto?»
E così, davanti a una bella colazione, suor Teresa comincia a raccontare.
«Clara arrivò da noi in condizioni pessime: passava le giornate a fissare il muro, senza mangiare né dormire. Poi ci furono quelle telefonate e lei rifiorì. Si faceva bella, usciva e al ritorno le si leggeva negli occhi la speranza di una vita nuova.»
«Immagino che non sappia chi fosse.»
«Altrimenti glielo avrei detto, no? Quello che invece so è che un giorno tornò con la faccia scura, uscì sempre meno, finché si chiuse in camera, ricominciò a fissare il muro e a mangiare quasi niente.»
«Un momento, mi faccia capire. Mi sta dicendo che Clara all’inizio era felice di quegli incontri, poi invece no. Cos’era cambiato?»
«E non lo so, altrimenti…»
«Me l’avrebbe detto, certo. Continui.»
«Un pomeriggio di aprile, arrivò un uomo con un gran mazzo di rose. Disse di essere il fratello di Clara. Lei non sembrò affatto felice, ma quello fu così gentile che alla fine accettò di parlargli. Sembrava una situazione tranquilla: passeggiavano, parlavano serenamente e poi andarono ad ammirare il panorama su in torretta.»
«In torretta? Ma scherza?»
«Non mi dica niente» fa Teresa contrita. «Infatti è lì che è successo tutto. Non me lo sono mai perdonato.»
«Quindi i due salgono in torretta.»
«Esattamente. All’improvviso sentimmo delle grida e la voce di lui che urlava: «No, Clara non farlo! Ti prego, non farlo!» Ci fu un gran trambusto. Qualcuna cercò di raggiungerli, altre si precipitarono fuori. Clara era sul ciglio del parapetto. Aprì le braccia come per spiccare il volo e si schiantò a terra. Lui arrivò stravolto, urlava, piangeva e mostrava i segni dei tagli che le aveva fatto. Perché, vede commissario, chissà come Clara aveva preso un coltello dalle cucine. E lo usò.»
«E poi?»
«E poi ambulanza, polizia e tutto il resto.»
«Quale resto, scusi?»
«Il resto fu che Clara non aveva nessun fratello e quello era il marito: Paride Benincasa. Anche questa è una delle cose che non mi perdono, ma che le devo dire? Non siamo abituate a chiedere i documenti alle persone, quello lo fate voi. E infatti la polizia lo seppe cinque minuti dopo ch’era arrivata. Il caso venne archiviato come suicidio e la cosa non stupì più di tanto. Del resto Clara era prigioniera della sua follia e nessuno avrebbe potuto salvarla.» Mette le mani in grembo e tace. Fine delle trasmissioni.
«Grazie, sorella. Ci è stata molto utile.»
 
Rimasti soli, Carsoli guarda il commissario: «Molto utile, dice?»
«Preferivi Fanculo suora di merda potevi starci più attenta
«No è che alla fine, con tutto il rispetto, a noi di quella poveretta che ce ne frega?»
«Ce ne frega eccome, perché suor Teresa ha detto che Clara arrivò in condizioni pessime. Arrivò, non venne portata
L’altro si illumina: «Quindi tutta la faccenda del ricovero coatto è una balla!»
«E chi ce l’ha raccontata?»
«Gli amici di Paride. O meglio Paride che l’aveva raccontata a loro.»
«Bravo. Perché, come ti ho già detto, qui tutti sanno tutto, ma nessuno sa un cazzo. Poi c’è l’altra questione, quella degli incontri di Clara. In un primo tempo con effetti benefici, poi con esito tragico.»
«E questo non è chiaro e nemmeno la suora ce l’ha saputo spiegare.»
«Non è chiaro se pensiamo a un solo uomo. Ma se invece fossero due?»
«E certo: uno che l’ama davvero e l’altro che le da la caccia e la vuole morta. Ma chi? Perché?»
«Corna, Carsoli. Nei triangoli è sempre questione di corna.»
«Quindi Clara era una zoccola.»
«Ma no, perché? Questo è quello che pensava…»
«Il marito, Paride Benincasa! È lui il cornuto che però non vuole perdere la faccia e allora si inventa tutta la storia della moglie pazza, la tiene prigioniera, magari la sevizia per punizione, ma quella riesce a scappare col bambino…»
«Continua, stai andando benissimo.»
«Lo affida ai cognati americani e si rifugia nel convento di suor Teresa. Qui viene raggiunta dall’amante, ma anche il marito la trova e vuole riportarsela a casa, cioè all’inferno, lei ne ha orrore e preferisce buttarsi di sotto.» Prende fiato e guarda il commissario: «Come sono andato?»
«Alla grande. Bravo, Carsoli.»
«Sì però, chi è l’amante di Clara?»
«Ma come, non l’hai capito? È quello che ha ucciso Paride Benincasa. Ha sopportato tutto, ma quando pensava di portarsi via la sua bella, arriva l’altro e la perde per sempre. Mi pare un buon movente, non credi?»
«Va bene, ma potrebbe essere chiunque, pure l’idraulico.»
«Dice il saggio: quando senti scalpitare dietro la porta, prima di pensare alla zebra, pensa al cavallo.»
«Bello, ma che mi significa?»
«Che aspettiamo una telefonata e poi vediamo.»
Dopo poco il cellulare vibra e Nardelli risponde: «Dimmi, dottore. Sono tutto orecchi.» Sorride, annuisce e chiude.
«Come immaginavo: avvelenamento da tallio. Qualcuno glielo ha messo in corpo, giorno dopo giorno.» 
«Le cene!» fa Carsoli. «Ci vuole niente a mettere un veleno nel piatto o nel bicchiere.»
«E magari, quando le cose stavano precipitando e dunque l’opera era compiuta, si è preso pure la soddisfazione di dirglielo.»
«Ecco perché il Benincasa è venuto qui.»
«Esatto. E chi è che faceva i turni di notte, l’ultimo che l’ha visto vivo? Dai, andiamo. Non è educazione far aspettare le persone.»
«Non è necessario» dice una voce dalla porta.
Il commissario si blocca, poi torna a sedere. «Prego, si accomodi» dice e indica la sedia davanti alla scrivania.
Carsoli è allibito. Non se l’aspettava.
«Vogliamo ricominciare da capo?» dice Nardelli.
«Certo. Che se non venivo io, stavate ancora a cincischiare con le vostre scemenze. Mi domando per cosa vi paghiamo.»
«Di questo magari parliamo dopo. Carsoli, occupati del verbale. Prego, l’ascolto.»
«La porta della stanza di Clara non l’ho trovata aperta» dice Anna Pontremoli. «L’ho sfondata una sera che la bestia era fuori.»
«La bestia sarebbe…»
«Paride Benincasa. Lei me la sono caricata in braccio e l’ho portata al convento delle Ancelle di Maria.» Si gira per controllare che Carsoli abbia scritto e continua: «Gli amici, quelli delle cene per capirsi, hanno creduto a tutte le immonde bugie che diceva quello. Tutti meno uno: Luigi Fontana che invece la verità la sapeva. Gliela aveva raccontata Clara. Perché vede, commissario, quei due si sono amati fino all’ultimo. E l’avrebbe portata via, in America, a riabbracciare il figlio. Ma poi Clara è morta, schiacciata dall’orrore di ritrovarsi davanti il suo aguzzino.»
«Ma come l’aveva trovata?»
«Questo avreste dovuto scoprirlo voi, sì, figuriamoci!»
«Quindi, morta Clara, Luigi …»
«No, lui gli avrebbe sparato in faccia e si sarebbe costituito. Io. Sono abituata a far lievitare il pane, ad aspettare. Così l’ho convinto a lasciarmi fare, che avrebbe avuto comunque la sua vendetta. Non avevo niente da perdere: ho un cancro al quarto stadio.»
«Mi spiace.»
«È la vita… per così dire.»
«Quindi ha fatto tutto lei. Ma come?»
«Commissario, non faccia finta di non saperlo. Tallio. Tre volte al giorno durante i pasti. Una mano santa.»
 
 
 
 
 
 
 
 

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