-Marco, quanto manca?- gli grido con l’ultimo fiato che ho in gola.
-Poco, manca poco- fa lui senza guardarmi.
Lo conosco e quando dice “poco” vuol dire che siamo solo a metà strada. Faccio come se niente fosse e mi rimetto in marcia. La salita è serrata, non dà scampo. Un muro verticale che non rallenta, che si affronta con coraggio e abnegazione. Sono immerso nel bosco, galleggio nell’esplosione di verde che è il mese di maggio. Le piante, l’erba, i piccoli arbusti, tutti insomma sfogano la loro voglia di vita, la urlano. Non ce la faccio quasi più, vorrei dire a Marco che mi fermo, che non riesco a continuare, vorrei arrendermi alla stanchezza, alla salita. Il cuore ormai ha cambiato posizione, si è trasferito nelle mie tempie e l’unico rumore che sento è il mio catarro da fumatore che pare essersi staccato dai polmoni in cerca di libertà. Poi mi volto e vedo il lago dall’alto e tutto cambia, il cuore rallenta e la fatica scompare per un attimo. Il lago è lì, ottocento metri sotto di me, lungo e placido, pare addormentato. Da qui sembra verde anche lui, ma non del colore delle foglie, piuttosto di un verde profondo. La sua superficie liscia e rigida è spezzata solo da qualche barca solitaria che ne disegna arterie bianche. Marco mi dice qualcosa ma non capisco. Abbasso la testa e vado avanti. Quanto invidio il mio amico, saltella come un camoscio su questa verticalità non adatta all’uomo. L’ultimo tratto è il più impegnativo. Il vuoto sulla mia sinistra mi spaventa e mi tengo bene alle catene per non cadere. Adesso il cuore è tornato a battermi in testa e il respiro aumenta, aumenta, tanto da farmi preoccupare. Cerco di tenerlo sotto controllo per non fare agitare Marco: ci teneva a mostrarmi questo luogo. Poi, dopo un piccolo tratto semi pianeggiante, aggirato un grosso costone di montagna, l’Om. Un monolito di granito alto trenta metri mi osserva, scruta ogni mio passo, difendendo come una guardia la “sua” montagna. È fiero, si staglia lasciando poco spazio per il cielo alle sue spalle. L’attore principale, il protagonista, io un imbucato allo spettacolo. Mi fermo, prendo fiato e l’osservo. Provo a scrutarne l’essenza. Un’espressione di forza, stoicismo e libertà. Il suo controllo rassicura, tranquillizza. Lui che gode di questa vista magnifica, lui che è figlio della montagna. Lui che aspetta... Poi d’impeto un conato mi assale, bolle dal basso e mi inquina la bocca. L’Om è un prigioniero, penso. Immobile può solo aspettare, aspettare il tempo, il passare del tempo, degli anni, dei secoli. Solo la sua ombra cambia, si allunga e si ritira, si sviluppa verso valle per poi tornare sulla montagna. Anche la mia ombra è sovrapposta alla sua, si nasconde, vigliacca e silenziosa. Poi alzo lo sguardo, e vedo che quell’Om sono io nella paura che ho del cambiamento, nell’immobilità. Sono io e vorrei distruggerlo, spaccarlo in mille frammenti di granito per poi triturarli fino a farli diventare sabbia, atomi di silicio e disperderli nel vento. Lui continua ad aspettare. Lo odio e mi odio.
Marco mi chiama. Riprendo la salita e mi lascio alle spalle l’Om. Il tempo torna a scorrere nel suo lento, inesorabile conto alla rovescia.