Contest di poesia 15 - Topic ufficiale

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CONTEST DI POESIA 15
"IL MARE IN UN BICCHIERE"
TOPIC UFFICIALE
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Buongiorno, carissimi! 
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Il contest ha inizio alle 12:00 di oggi, 27 maggio e terminerà alle 24:00 di sabato 01 giugno. Avrete a disposizione quattro giorni per pubblicare il testo (dal 27 al 30 maggio) e due giorni per esprimere le vostre preferenze (dal 31 maggio al 1 giugno)
Fonte d’ispirazione questa volta sarà la prosa: tre testi brevi di autori famosi. 
Ciò che dovrete fare sarà trasformare il brano prescelto in un testo poetico; far entrare, appunto, "il mare in un bicchiere".
La poesia non dovrà necessariamente rappresentare la vicenda narrata, ma essere fedele ai sentimenti e ai pensieri espressi nel testo prescelto e/o al messaggio da esso veicolato.

Abbinata alla prima traccia, abbiamo una breve lettera attribuita ad Albert Einstein di circa 2600 caratteri; alla seconda traccia, un racconto di Edgar Allan Poe di circa 5700 caratteri; e alla terza un racconto di J. Joyce di circa 10.000 caratteri. Di quest'ultimo è possibile scegliere anche un estratto, l'importante è che venga indicato, accanto alla traccia, l'inizio e la fine del periodo che ha ispirato il vostro componimento.

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REGOLAMENTO
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  • Ogni utente potrà partecipare con un solo componimento.
  • La gara inizierà lunedì 27 maggio alle 12:00 e terminerà sabato 1 giugno alle 24:00.
  • Le poesie andranno pubblicate entro le 24:00 di giovedì 30 maggio.
  • I testi dovranno essere in versi, senza altri vincoli di forma, e andranno postati nella sezione Contest di Poesia all'interno di Gare e Tornei.
  • Nel titolo andrà inserito il tag [CP15].
  • Nel TU andrà riportato il link al racconto, seguito dal numero e nome della traccia scelta; prima del racconto, invece, numero e nome della traccia scelta e il link al commento(se già pubblicato).
  • Ogni poesia postata dovrà seguire le regole dell'Officina creativa e andrà quindi effettuato un commento secondo lo spirito di CDM.
  • Il commento potrà essere postato anche successivamente alla poesia, ma non oltre le 24:00 di sabato 1 giugno.
  • Alla chiusura della prima fase sarà postato l'elenco delle poesie ammesse e le regole per la seconda fase: la votazione.
  • La votazione inizierà dalle 10:00 di venerdì 31 maggio e terminerà alle 24:00 di sabato 1 giugno.
  • I voti andranno espressi aprendo una discussione con il proprio nome nella Stanza delle votazioni.
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E ora, ecco a voi le tracce:

Traccia n. 1 
"L'ultima risposta" Attribuita a Albert Einstein

"Quando esplicitai la teoria della relatività, furono in pochi a capire, e anche quello che ti rivelerò ora, affinché tu lo trasmetta all'umanità, si scontrerà con l'incomprensione e i pregiudizi del mondo. Ti chiedo, ciò nonostante, di custodirlo per tutto il tempo che sarà necessario, anni, decenni, fino a che la società avrà progredito quanto basta per comprendere ciò che ti dirò tra poco.
C'è una forza estremamente potente per la quale finora la scienza non ha trovato una spiegazione formale. È una forza che include e governa tutte le altre, e che inoltre soggiace a qualsiasi fenomeno che opera nell'universo e che ancora non abbiamo identificato. Questa forza universale è l'amore.
Tentando di delineare una teoria unificata dell'universo, gli scienziati dimenticarono la più invisibile e potente delle forze.
L'amore è luce, perché illumina chi lo dà e chi lo riceve. L'amore è gravità, perché fa sì che alcune persone si sentano attratte da altre. L'amore è potenza, perché moltiplica la parte migliore di noi, e permette che l'umanità non si estingua nel suo cieco egoismo. L'amore rivela e disvela. Per amore si vive e si muore. L'amore è Dio, e Dio è amore.
Questa forza spiega tutto e dà un senso enorme alla vita. Questa è la variabile che abbiamo a lungo tralasciato, forse perché l'amore ci fa paura, dato che è l'unica energia dell'universo che l'essere umano non ha imparato a manovrare a suo piacimento.
Per porre in risalto l'amore, ho fatto una semplice sostituzione nella mia equazione più celebre. Se al posto di E = mc al quadrato accettiamo che l'energia per guarire il mondo può ottenersi attraverso l'amore moltiplicato per la velocità della luce al quadrato, arriveremo alla conclusione che l'amore è la forza più potente che esista, perché non ha limiti.
Dopo il nostro umano fallimento nell'utilizzo e nel controllo delle altre forze dell'universo, che si sono ribellate a noi, è necessario che impariamo ad alimentarci di un altro tipo di energia. Se vogliamo che la nostra specie sopravviva, se ci proponiamo di trovare un senso alla vita, se vogliamo salvare il mondo e ogni essere senziente che vi abita, l'amore è l'unica e l'ultima risposta.
Probabilmente ancora non siamo pronti a fabbricare una bomba d'amore, un congegno sufficientemente potente da distruggere l'odio, l'egoismo e l'avidità che devastano il pianeta. Tuttavia, ogni individuo porta dentro sé un piccolo ma potente generatore di amore la cui energia aspetta di essere liberata.
Quando impareremo a dare e ricevere questa energia universale, proveremo che l'amore vince tutto, tutto trascende e tutto può, perché l'amore è la quintessenza della vita."
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Traccia n. 2
"Ombra" di  Edgard Allan Poe 

"Voi che mi leggete siete ancora tra i viventi; ma io che scrivo, da molto, da molto tempo sarò partito per la regione delle ombre. Poiché, in verità, succederanno di ben strane cose, molti segreti saran rivelati, molti secoli passeranno prima che queste parole sian vedute dagli uomini. E quando le avranno vedute, gli uni non le crederanno, gli altri dubiteranno, e ben pochi troveranno materia di meditazione nei caratteri che su queste tavolette vo tracciando con uno stile di ferro.
L’anno era stato un anno di terrore, pieno di sentimenti più intensi del terrore, pei quali non c’è un nome sulla terra. Poiché c’erano stati molti prodigi e molti segni, e da tutte le parti, sulla terra e sul mare; le negre ali della Peste s’eran largamente spiegate. Ma quelli ch’eran sapienti nelle stelle non ignoravano che i cieli aveano un aspetto di sventura; e per me, tra gli altri, il greco Oinos, era evidente che stavamo al ricorso di quel settecentonovantaquattresimo anno, in cui, all’entrata in Ariete, il pianeta Giove si trova in congiunzione col rosso anello del terribile Saturno. Lo spirito particolare dei cieli, se non m’inganno di molto, manifestava la sua potenza non soltanto sul globo fisico della terra, ma ben anche sulle anime, sui pensieri, sulle meditazioni dell’umanità.
Una notte, eravamo in sette, in fondo a un nobile palazzo in una triste città chiamata Tolemaide, seduti intorno ad alcune anfore d’un vino rosso di Chio. E la nostra camera non aveva altra entrata che un’alta porta di bronzo; e la porta era stata lavorata dall’artista Corinno, ed era d’una rara perfezione, e si chiudeva per di dentro. Del pari, dei panneggiamenti neri, proteggendo questa camera melanconica, ci risparmiavamo l’aspetto della luna, delle stelle lugubri e delle vie spopolate: – ma il presentimento e il ricordo del flagello non s’erano potuti così facilmente escludere. C’erano, intorno, presso a noi, delle cose di cui non posso render completamente ragione,- delle cose materiali e spirituali, – una pesantezza nell’atmosfera, – una sensazione di soffocamento, d’angoscia, – e, soprattutto quel terribile modo d’esistenza che subiscono le persone nervose, quando i sensi son crudelmente viventi e svegli, e le facoltà dello spirito assopite, intristite. Un peso mortale ci schiacciava. Si stendeva sulle nostre membra, – sul mobilio della sala, – sulle coppe in cui si beveva; e tutte le cose parevano oppresse, prostrate in quell’abbattimento,- tutto, eccetto le fiamme delle sette lampade di ferro che rischiaravano la nostra orgia. Allungandosi in minuti filamenti di luce, rimanevano tutte così, e bruciavano pallide e immobili; e nella rotonda tavola d’ebano, attorno a cui sedevamo, e che il loro chiarore trasformava in specchio, ogni convitato contemplava il pallore della sua propria faccia e il lampo inquieto degli occhi tristi dei suoi compagni. Nondimeno si mandavan delle risate, ed eravamo allegri a nostro modo, – un modo isterico; e si cantavano le canzoni d’ Anacreonte, – che non son che follia; e si beveva molto, quantunque la porpora del vino ci rammentasse la porpora del sangue. Perchè c’era nella camera un ottavo personaggio, il giovane Zoilo.
Morto, lungo disteso e seppellito, egli era là il genio e il demone della scena. Ahimè! Non aveva parte, lui, al nostro divertimento; salvoché la sua faccia, sconvolta dal male, e gli occhi, dove la morte non avea spento che a mezzo il fuoco della peste, sembrava prendere tanto interesse alla nostra gioia quanto posson prendere i morti alla gioia di quelli che devon morire. Ma, benché io, Oinos, mi sentissi addosso, fissi su me, gli occhi del defunto, nondimeno mi sforzai di non comprendere l’amarezza della loro espressione, e, figgendo ostinatamente lo sguardo nelle profondità dello specchio d’ebano, cantai con voce alta e sonora le canzoni del poeta di Teo. Ma grado a grado il mio canto cessò, e gli echi, correndo lontano fra le nere drapperie della camera, divennero fievoli, indistinti, e svanirono. Ed ecco che dal fondo di quelle drapperie nere ove andava a morire il suono della canzone, s’arderse un’ombra, fosca, indefinita, – un’ombra simile a quella d’un corpo di un uomo, quando la luna è bassa nel cielo; ma non era l’ombra né d’un uomo, né di un Dio, né d’alcun altro essere comune. E quasi rabbrividendo, oscillando per un istante fra le drapperie, rimase infine visibile e dritta, sulla superficie della porta di bronzo. Ma l’ombra era vaga, senza forma, indefinita; non era l’ombra né di un uomo né di un Dio,- né di un Dio di Grecia, né d’un Dio di Caldea, né d’alcun altro Dio egiziano. E l’ombra riposava sulla gran porta di bronzo e sulla cornice scolpita, e non si muoveva, e non pronunciava una parola: ma si fissava sempre più, e restò immobile. E la porta sulla quale l’ombra riposava era, se ben mi ricordo, proprio di contro ai piedi del morto Zoilo. Ma noi, i sette compagni, avendo veduto l’ombra mentre usciva dalle drapperie, non osavamo contemplarla fissamente; ma abbassavamo gli occhi, figgendoli sempre nelle profondità dello specchio d’ebano. E, finalmente, io, Oinos, ardii pronunziare alcune parole a bassa voce, e domandai all’ombra il suo nome e la sua dimora. E l’ombra rispose:
Io sono OMBRA, e la mia dimora è vicina alle catacombe di Tolemaide, e presso quelle cupe lande infernali, dove scorrono le acque impure di Caronte! –
E allora, tutti e sette, ci rizzammo inorriditi sui nostri seggi, e restammo così, tremanti, terrorizzati, convulsi; perché il timbro della voce dell’ombra non era quello d’un solo individuo, ma d’una moltitudine d’esseri; e quella voce, variando le sue inflessioni di sillaba in sillaba, veniva a caderci confusamente negli orecchi, imitando gli accenti noti e familiari di mille e mille amici scomparsi!"

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Traccia n. 3 
Eveline di J. Joyce

"Seduta alla finestra guardava la sera invadere il viale. Teneva la testa appoggiata contro le tendine e sentiva nelle narici l'odore del crétonne polveroso. Era stanca.
Poca gente per strada. Passò l'inquilino della casa di fondo che rientrava. Sentì i passi risuonare sul marciapiede di cemento, poi lo scricchiolio della ghiaia sul sentiero dinanzi alla fila di costruzioni nuove, color mattone.
Un tempo c'era un campo laggiù e loro solevano giocarci ogni sera, insieme agli altri ragazzi del quartiere. Poi l'aveva comprato un tale di Belfast e ci aveva costruito delle case; non misere casupole nere come le loro, ma case chiare in mattoni, dal tetto lucente. Tutti i ragazzi del viale avevano giocato in quel campo: i Devine, i Water, i Dunn, il piccolo Keogh lo zoppo e lei coi suoi fratelli e sorelle. Solo Ernest non ci giocava: era troppo grande. Spesso veniva il padre a scacciarli di là col suo bastone di pruno, ma di solito il piccolo Keogh stava di guardia e chiamava non appena lo vedeva arrivare. Eppure parevan bei tempi quelli! Il padre non era ancora così cattivo e la mamma era ancora viva.
Molti anni erano passati da allora: adesso lei e i suoi fratelli e sorelle s'erano fatti grandi e la mamma era morta. Anche Tizzie Dunn era morto e i Water erano tornati in Inghilterra. Come tutto cambia!
Toccava a lei ora d'andarsene come gli altri, lasciare la casa.
La sua casa! Si guardò attorno nella stanza fissando ad uno ad uno gli oggetti familiari che in tutti quegli anni aveva spolverato regolarmente una volta alla settimana, domandandosi sempre da dove poteva venire tanta polvere. Forse non li avrebbe più visti quegli oggetti, dai quali mai aveva immaginato di  doversi separare un giorno. Nonostante ne fosse passato del tempo, ancora non era riuscita a sapere il nome del prete la cui fotografia ingiallita pendeva dalla parete sopra l'harmonium scordato, accanto alla stampa a colori dei voti dedicati alla Beata Margherita Maria Alacoque. Era stato un compagno di scuola del padre e ogni volta che questi mostrava il ritratto a un visitatore non mancava d'accompagnare il
gesto con una parola casuale: «E’ a Melbourne adesso.»
Sì, aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la casa. Ma era ragionevole da parte sua? Si sforzava di prendere in considerazione ogni lato del problema. Lì almeno non le sarebbero mai mancati cibo e alloggio; né, quel che più conta, le persone che era avvezza a vedersi intorno sin dalla nascita. Certo doveva lavorare, e lavorare sodo, sia in casa che fuori. Chissà cosa avrebbero detto ai Magazzini quando si fosse risaputo che era scappata con un giovanotto? Le avrebbero dato della scema, forse, e messo un annuncio sul giornale per sostituirla. Sarebbe stata contenta la signorina Gavan. Non le aveva mai risparmiato le sue stoccate, specie se c'era gente che sentiva.
«Non vedete che le signore aspettano, signorina Hill?»
«Ma svegliatevi signorina Hill, fatemi il piacere...»
Non c'era da piangerci davvero a lasciare i Magazzini.
Nella casa nuova però, in un paese lontano e sconosciuto, non sarebbe andata così. Sarebbe stata una donna maritata lei, Eveline, e la gente le avrebbe usato rispetto. Non si sarebbe lasciata trattare come sua madre, no. Ancora adesso, per quanto avesse già diciannove anni compiuti, le avveniva a volte di temere la violenza paterna. Era stata questa paura, lo sapeva, a farle venire le palpitazioni. Prima, quando erano ancora piccoli, il padre non si sfogava mai su di lei come su Harry e Ernest, perché era una ragazza; ma in seguito aveva cominciato a minacciarla e a dirle che, se non fosse stato per la memoria di
quella buon'anima di sua madre, non avrebbe mancato di darle il fatto suo. E ora non c'era più nessuno a proteggerla. Ernest era morto e Harry, che faceva il decoratore di chiese, era sempre via, lontano da casa. C'erano poi le eterne discussioni per i soldi, il sabato sera; discussioni che la sfinivano. Dava lo stipendio intero in famiglia – sette scellini alla settimana – e Harry mandava quanto poteva; ma il guaio era cavarli al padre, i quattrini. Era una spendacciona, le diceva, una scervellata e non se la sentiva lui di darle i soldi guadagnati con tanta fatica per vederli buttare dalla finestra; questo e altro le diceva, perché
era sempre di cattivo umore il sabato sera. Alla fine però glieli dava e le chiedeva se non aveva per caso l'intenzione di comperare qualcosa per il pranzo della domenica. Così le toccava scappar via a fare la spesa, aprendosi la strada a gomitate tra la folla, il borsellino di pelle nera stretto nel pugno, per rincasare poi, tardi, carica di provviste.
C'era da faticare, è vero, a tenere in ordine le stanze e a stare attenta che i due fratellini minori, affidati alle sue cure, andassero a scuola ogni mattina e avessero di che
mangiare. Un lavoro duro, sì, una vitaccia; eppure, ora che stava per lasciarla, già non la trovava più così insopportabile.
Ne avrebbe cominciata un'altra, adesso, con Frank. Era buono e forte Frank, e di cuore generoso.
Sarebbe andata via con lui quella sera, col piroscafo della notte. Sarebbe andata via per diventare sua moglie e vivere con lui a Buenos Aires nella casa che l'aspettava. Come ricordava bene la prima volta che l'aveva visto! Aveva preso alloggio in una casa sulla strada principale, dove lei aveva degli amici. Le pareva fossero passate poche settimane da allora. Stava sul cancello, il berretto tirato all'indietro sulla nuca e i capelli che gli ricadevano a ciocche sulla fronte abbronzata. Poi si erano conosciuti. Ogni sera andava a prenderla all'uscita dei Magazzini e l'accompagnava fino a casa. Una volta l'aveva anche portata
a sentire La ragazza di Boemia e a lei era parso un sogno potersene stare lì fianco a fianco, a teatro, in posti che non le erano abituali. Gli piaceva la musica a Frank e sapeva anche cantare. Tutti erano al corrente del loro amore e così quand'egli cantava la canzone della ragazza innamorata del marinaio,
Eveline non poteva fare a meno di sentire un certo dolce imbarazzo. La chiamava Poppy, tanto per ridere. In principio l'idea di avere un corteggiatore le aveva dato alla testa, ma poi s'era messa a volergli bene sul serio. Le parlava di paesi lontani, di come avesse cominciato da mozzo,a una sterlina al mese, su una nave della linea Allan che andava al Canada. E le diceva i nomi delle altre navi su cui era stato e dei diversi servizi, le raccontava di quando aveva passato lo Stretto di Magellano e le sue mirabolanti avventure coi selvaggi. Aveva avuto fortuna a Buenos Aires, diceva, e in patria c'era tornato solo per godersi una vacanza. Naturalmente il padre era venuto a saperlo e le aveva proibito d'avere a che fare con lui.
«Li conosco, va' là, questi marinai!» aveva detto.
Un giorno avevano litigato, Frank e il padre, e da allora avevano dovuto vedersi di nascosto.
La sera s'andava infittendo sul viale e il bianco delle due lettere che aveva in grembo si faceva indistinto.
Una era per Harry, l'altra per il padre. Il suo prediletto, veramente, era stato Ernest, ma anche a Harry voleva bene. Aveva notato che in quegli ultimi tempi il padre era un po' invecchiato; avrebbe sentito la sua mancanza. Anche lui a volte sapeva essere gentile. Non molto tempo prima, un giorno che era stata a letto, malata, s'era messo a leggerle una storia di fantasmi e le aveva abbrustolito il pane sul fuoco.
Un'altra volta, quando ancora era viva la madre, erano andati tutti insieme a far merenda sulla collina di Howth e ricordava com'egli si fosse messo in testa il cappellino della moglie, per farli divertire.
Il tempo passava ma lei rimaneva lì seduta presso la finestra, la testa appoggiata contro le tendine e l'odore polveroso del crétonne nelle narici. Giù dal viale saliva il suono di un organetto. Lo conosceva quel motivo. Strano che venisse proprio quella sera a rammentarle la promessa fatta alla madre, la promessa di tenere insieme la famiglia fintanto che avesse potuto. Le tornò a mente l'ultima notte della sua malattia. Si rivide nella stanza buia, chiusa, in fondo al corridoio: da fuori giungeva il melanconico suono dell'organetto. Avevano dato sei pence al sonatore, perché se ne andasse. E ricordava il padre che tornava in punta di piedi nella camera dell'ammalata dicendo: «Dannati italiani! Proprio qui debbono venire!»
E mentre stava lì a meditare, la penosa visione della vita della madre operava nel più profondo del suo essere una specie di maleficio; una vita di sacrifici meschini conclusasi nella pazzia finale. Tremò riudendo la voce materna ripetere con vuota insistenza: «Derevaun Seraun! Derevaun Seraun!»
S'alzò di scatto, sotto l'impulso del terrore. Fuggire! Fuggire doveva! Frank l'avrebbe salvata. Le avrebbe dato vita e forse anche amore. E voleva vivere lei! Perché avrebbe dovuto essere infelice? Anche lei aveva diritto alla felicità. E Frank l'avrebbe presa fra le braccia, l'avrebbe stretta fra le braccia, l'avrebbe salvata.
Era alla stazione di North Wall, in mezzo alla folla ondeggiante. Egli la teneva per mano ed essa sapeva che le stava parlando, che le ripeteva qualche cosa sulla traversata. La stazione era piena di soldati coi loro bagagli scuri e attraverso le ampie porte della tettoia si scorgeva a tratti, oltre la murata della banchina, la massa immobile e nera della nave, con gli oblò illuminati. Taceva. Si sentiva le guance pallide e fredde e in quel groviglio di disperazione pregava Iddio d'illuminarla, di mostrarle qual era il suo dovere. Il lungo, lamentoso fischio della sirena tagliò la nebbia. Se partiva, domani si sarebbe trovata in alto mare, con Frank, diretta a Buenos Aires. Avevano già fissato i posti. Come poteva tirarsi indietro dopo tutto quel che aveva fatto per lei? Lo sgomento le dette quasi un senso di nausea: continuava a
muovere le labbra in tacita e fervida preghiera.
Una campana le rintoccò sul cuore. Sentì ch'egli l'afferrava per mano.
«Vieni!»
Tutti i mari del mondo le s'infrangevano sul cuore. E lui la trascinava dentro, la voleva annegare. Con ambo le mani s'aggrappò alla cancellata.
«Vieni!»
No! no! no! Era impossibile. Le mani strinsero frenetiche le sbarre. E dal fondo dei mari ella alzò un grido d'angoscia. «Eveline! Evy!»
Lo vide correre di là dai cancelli, chiamandola perché lo seguisse. Gli gridarono di andare avanti ma egli continuava a chiamarla. Volse allora verso di lui la faccia pallida, passiva, come un povero animale impotente, e i suoi occhi non gli diedero alcun segno d'amore o di addio o di riconoscimento."


Buona poesia!  :sss:
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Re: Contest di poesia 15 - Topic ufficiale

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Buongiorno, carissimi!

Che meraviglia vedere tanta partecipazione a questo contest poetico! Un grazie di cuore a tutti: a chi è sempre presente, a chi partecipa di tanto in tanto e a chi ci prova, anche se non sempre riesce.  :sss:

Ricordate, avete tempo fino alle 24:00 di questa sera, 30/5, per inviare le vostre opere.

Un abbraccio!
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Re: Contest di poesia 15 - Topic ufficiale

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Eccomi qui!  :D

Vince la 15ª edizione del contest poetico di CdM:

@Albascura con 6 voti. 🏆 


A seguire:

@bestseller2020 e @Ippolita con 4 voti

@Adel J. Pellitteri, @@@Monica e @Poeta Zaza con 3 voti

@Mina con 2 voti

@Alberto Tosciri e @Mario con 1 voto


Congratulazioni alla vincitrice e complimenti a tutti gli altri partecipanti! Sono felice che le tracce vi abbiano ispirato e che abbiate partecipato così numerosi. Un contest da ricordare! 
:ola: :ola: :ola:

Grazie di cuore a tutti voi e arrivederci alla prossima edizione!  :love:
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Re: Contest di poesia 15 - Topic ufficiale

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Albascura ha scritto: dom giu 02, 2024 9:29 am Mariangela, ti dedico questo piccolo mio traguardo. Sembrerebbe poca cosa ma, per me, in questo periodo significa moltissimo. 
Grazie per avermi esortato fino a quasi la scadenza per postare. 
Ti ringrazio della dedica.  <3

Sono lieta:
1) che tu abbia partecipato
2) che tu abbia superato gli ostacoli delle tue autocritiche
3) che tu abbia costruito una bella poesia

Alla prossima, amica mia @Albascura  :hug:  
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


Poeta con te - Tre spunti di versi

Re: Contest di poesia 15 - Topic ufficiale

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complimenti a @Albascura che diventa sempre più dark  :D

Questo contest è stato proficuo. Ognuno ha partecipato dando la sua idea di poesia. Le due correnti si sono confrontate e ha vinto il classico. Però, due al secondo posto con l'alternativa, non è da gettare via. Al prossimo contest speriamo di confrontarci ancora su questo tema. Vi ringrazio tutti.
Grazie a @Sira per il supporto  :sss:

p.s. @Alberto Tosciri ho scoperto per caso che il deserto che hai citato non è infinito, perché ha gli stati attorno. Siamo punto a capo! :asd:

Il tuo infinito assomiglia tanto a quello che cantava la Mia Martini! A si biri..

Tratti di pioggia sopra Auschwitz. Tra oblio e orgoglio

Re: Contest di poesia 15 - Topic ufficiale

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bestseller2020 ha scritto: dom giu 02, 2024 12:07 pmp.s. @Alberto Tosciri ho scoperto per caso che il deserto che hai citato non è infinito, perché ha gli stati attorno. Siamo punto a capo! :asd:
No che non è infinito  :D
Ma prova a camminarci a piedi, butta una moneta a rappresentare il mondo, continua a camminare per allontanarti e avrai l'idea di infinto   :D
Si salveranno solo coloro che resisteranno e disobbediranno a oltranza, il resto perirà.
(Apocalisse di S. Giovanni)
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