[Caronte] Il figlio del male
Posted: Sat Jan 30, 2021 3:37 pm
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Racconto traghettato (scritto per il contest di Halloween 2020): Accanto al cespuglio di more
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Aveva i capelli rossi come il fuoco dell’inferno e due occhi verdi, di vetro, che sembravano vedere cose che solo lei vedeva.
Non aveva pianto la notte in cui era nata. Notte senza luna, cielo nero lacerato dai lampi, flagello di pioggia battente.
Era meglio che moriva anche lei, pensò la levatrice dopo averla tirata fuori dal grembo della madre.
Quella bambina non era come le altre, se n’era accorta subito, ma il perché non sapeva spiegarselo. Non piangeva, malgrado la sculacciasse tenendola per i piedi a testa in giù; neanche un gemito, un gridolino, niente di niente. Strabuzzava gli occhi quasi stesse soffocando, di certo non ce l’avrebbe fatta a superare la notte.
Ma l’indomani respirava ancora, gli occhi spalancati dentro la culla, avvolta in una nuvola di tulle, ed era ancora lì l’indomani e i giorni che seguirono.
La madre fu sepolta sotto una lapide di pietra, accanto agli altri due figlioletti morti in fasce uno dietro l’altro.
Lucrezia invece era viva. E osservava il mondo con gli occhi color smeraldo e i capelli ardenti più del fuoco. Senza piangere.
Le lacrime ruppero gli argini nel giorno del battesimo. Il prete l’asperse con l’acqua santa e Lucrezia buttò un grido come se stessero per scannarla, e continuò a strillare finché non la trascinarono fuori dalla chiesa.
Ha scelto proprio un bel momento, rise fra sé il barone suo padre. La piccola era tutto ciò che gli rimaneva dell’amata moglie, della sua famiglia. Grazie a Dio adesso piangeva anche lei, come tutti i bambini del mondo.
Era silenziosa, Lucrezia, troppo silenziosa. Cresceva fra il chiuso della stanza e gli alberi in giardino, disdegnando la compagnia degli esseri umani. Aveva legato soltanto con Diego, il figlio dello stalliere. Diego aveva le gambe gracili come quelle di un rospo e il cuore puro di un agnellino. Era disposto a rinunciare a tutti i suoi soldatini pur di accarezzare almeno una volta i capelli di Lucrezia. Lo irretiva il torrente di fuoco che le inondava la schiena, non aveva mai visto capelli di quel colore, non aveva mai visto bambine come Lucrezia. A volte gli pareva che sarebbe rimasto accecato dal rosso dei suoi capelli, o che un giorno o l’altro quegli occhi l’avrebbero trasformato in una statua di sale. Lucrezia era strana, Diego lo capiva, ma non ne era impaurito, anzi gli piaceva per questo e ogni pomeriggio correva da lei.
Un giorno rientrò piangendo come un dannato. Alle domande del padre, si trincerò in un silenzio di pietra e non volle rivelare il motivo dello sgomento. Giurò che non avrebbe messo più piede a casa del barone, Lucrezia non voleva vederla mai più. Piuttosto avrebbe preferito morire.
Il giorno del funerale del padre, Lucrezia non versò una lacrima. Stretta nell’abitino di raso nero, fissava davanti a sé il prete alla maniera dei ciechi che guardano senza vedere, la chioma luccicava come un tizzone fra i banchi della chiesa.
La gente la osservava da lontano, senza osare avvicinarsi, e mormorava parole immonde fra i denti: che il barone era morto di dolore, quella figlia era una disgrazia… impura, malvagia… bastava guardarle i capelli… capelli di strega! Quale peccato doveva scontare la sorella del barone per meritarsi un castigo così?
Lucrezia partì con la zia il giorno dopo la sepoltura. Doveva lasciare la casa in cui era cresciuta, ora che suo padre non c’era più. Non provava né affetto né dolore per quel vecchio malinconico che l’aveva soffocata col suo amore morboso. La sua morte era stata per lei una liberazione. La prospettiva di vivere con la zia però non l’allettava affatto. Una zitella acida e bigotta, buona soltanto a battersi il petto e piagnucolare in ginocchio ai piedi del crocifisso, come se la pagliacciata di quel giudeo fosse davvero servita a redimere gli uomini dal peccato. Perché poi darsi tanto da fare a cancellare l’unico piacere che rende amabile la vita? Gliel’aveva rivelato lui, la prima volta che si erano incontrati, in giardino. Era riapparso nella stanza di notte, e lei lo aveva ascoltato rapita. Lo aspettava ogni sera e ogni sera lui arrivava, puntuale. Da allora si era preso cura di lei e non l’aveva più lasciata.
A differenza di Diego. Si era illusa di convertirlo, quello stupido, ma anche lui era come tutti gli altri, un essere meschino privo di cervello. Per questo era fuggito e non era più tornato.
C’era rimasta appena qualche mese dalla zia. Una mattina la baronessa era piombata nella sua stanza e le aveva intimato di preparare le valigie. Sarebbe andata in convento, le suore l’aspettavano.
Non le disse la baronessa zia che lei in casa non ce la voleva più. Lo spifferò al sacerdote, da cui era corsa a chiedere conforto perché l’aiutasse a scacciare il male il più lontano possibile da casa sua. Quella nipote, raccontò al prete, le faceva paura. Era cattiva, stava sempre a fissarla con gli occhi vuoti, muta, cosa le passava per la testa lo sapeva solo il diavolo. E poi, la notte… dalla sua stanza provenivano rumori strani, sussurri, come se parlasse con qualcuno. L’aveva spiata ma la porta era chiusa a chiave, e l’indomani, quando le chiedeva spiegazioni, lei negava, negava tutto! Giacomo, il giardiniere, aveva trascorso all’addiaccio tre notti: non è passata anima viva di qui, le aveva detto, non sarà sonnambula? Eppure ogni notte sempre gli stessi rumori … non ne posso più, padre! Aiutatemi!
E il padre l’aveva aiutata. Si era ricordato di alcune amicizie che aveva nel convento delle Cappuccine. L’aria di montagna le schiarirà le idee, disse alla baronessa, le suore accoglieranno vostra nipote a braccia aperte, insieme con l’offerta che voi non mancherete di fare… sapete, il convento deve farsi carico di tante spese.
Lucrezia odiò il convento di un odio viscerale sin dal momento in cui lo vide dalla corriera immerso nella nebbia. E odiò anche le suore e le loro cantilene. Non smettevano di ripeterle che la preghiera cura tutte le ferite e avrebbe curato anche le sue. Lucrezia però di farsi curare non aveva nessuna voglia. Rifiutava di recitare il rosario, di svolgere le mansioni che le suore le affidavano, come cambiare l’acqua ai fiori sull’altare della Vergine. Mai nessuna delle sorelle la sentì pregare, nella cappella se ne stava in disparte, non parlava con nessuno. Odiava più di tutte suor Agnese: le stava sempre appiccicata, la seguiva in giardino, fino al cespuglio di more, pronta a coglierla in fallo, quella stupida suorina con il naso a becco d’uccello! Che piacere avrebbe provato se un bel giorno non se la fosse trovata più tra i piedi!
Le restava lui. L’aveva seguita fino a lì, in mezzo alle montagne, lui non l’aveva abbandonata come facevano tutti. La notte la raggiungeva nella cella, lei gl’intimava di non fare rumore, aveva paura di essere scoperta.
Adesso il tempo non lo passavano più solo a parlare.
Doveva stare attenta. Quelle maledette suore le stavano col fiato sul collo, pareva non avessero niente di meglio da fare che impicciarsi degli affari suoi.
Fino al giorno che cominciò a star male.
Al mattino vomitava, il resto della giornata non riusciva a inghiottire quasi nulla, l’odore del cibo le dava la nausea.
Le suore mandarono a chiamare il dottore.
È incinta, fu la sentenza.
Suor Agnese non si dava pace. Com’era potuto accadere? Nel convento non entrava mai uomo, a parte il facchino delle consegne. Se ne andava via subito, Lucrezia neanche lo conosceva. Come avrebbe fatto a riferirlo alla baronessa zia?
Ma a riferirlo alla baronessa, suor Agnese non fece in tempo. Lucrezia scomparve la notte stessa, nessuno volle sapere dove fosse finita. Neanche la zia.
Uscì nella neve, con una valigia in mano. Fitte atroci le tagliavano il ventre come pugnali. Fuori dal convento i dolori divennero insopportabili. Cadde a terra oltre il cancello, non si rialzò più. Annegò lì, nella neve e nel sangue.
Una pianta dai fiori bianchi spruzzati di rosso sbocciò sul suo corpo. Spandeva intorno un dolce profumo di miele.
Accanto al cespuglio di more.
Racconto traghettato (scritto per il contest di Halloween 2020): Accanto al cespuglio di more
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Aveva i capelli rossi come il fuoco dell’inferno e due occhi verdi, di vetro, che sembravano vedere cose che solo lei vedeva.
Non aveva pianto la notte in cui era nata. Notte senza luna, cielo nero lacerato dai lampi, flagello di pioggia battente.
Era meglio che moriva anche lei, pensò la levatrice dopo averla tirata fuori dal grembo della madre.
Quella bambina non era come le altre, se n’era accorta subito, ma il perché non sapeva spiegarselo. Non piangeva, malgrado la sculacciasse tenendola per i piedi a testa in giù; neanche un gemito, un gridolino, niente di niente. Strabuzzava gli occhi quasi stesse soffocando, di certo non ce l’avrebbe fatta a superare la notte.
Ma l’indomani respirava ancora, gli occhi spalancati dentro la culla, avvolta in una nuvola di tulle, ed era ancora lì l’indomani e i giorni che seguirono.
La madre fu sepolta sotto una lapide di pietra, accanto agli altri due figlioletti morti in fasce uno dietro l’altro.
Lucrezia invece era viva. E osservava il mondo con gli occhi color smeraldo e i capelli ardenti più del fuoco. Senza piangere.
Le lacrime ruppero gli argini nel giorno del battesimo. Il prete l’asperse con l’acqua santa e Lucrezia buttò un grido come se stessero per scannarla, e continuò a strillare finché non la trascinarono fuori dalla chiesa.
Ha scelto proprio un bel momento, rise fra sé il barone suo padre. La piccola era tutto ciò che gli rimaneva dell’amata moglie, della sua famiglia. Grazie a Dio adesso piangeva anche lei, come tutti i bambini del mondo.
Era silenziosa, Lucrezia, troppo silenziosa. Cresceva fra il chiuso della stanza e gli alberi in giardino, disdegnando la compagnia degli esseri umani. Aveva legato soltanto con Diego, il figlio dello stalliere. Diego aveva le gambe gracili come quelle di un rospo e il cuore puro di un agnellino. Era disposto a rinunciare a tutti i suoi soldatini pur di accarezzare almeno una volta i capelli di Lucrezia. Lo irretiva il torrente di fuoco che le inondava la schiena, non aveva mai visto capelli di quel colore, non aveva mai visto bambine come Lucrezia. A volte gli pareva che sarebbe rimasto accecato dal rosso dei suoi capelli, o che un giorno o l’altro quegli occhi l’avrebbero trasformato in una statua di sale. Lucrezia era strana, Diego lo capiva, ma non ne era impaurito, anzi gli piaceva per questo e ogni pomeriggio correva da lei.
Un giorno rientrò piangendo come un dannato. Alle domande del padre, si trincerò in un silenzio di pietra e non volle rivelare il motivo dello sgomento. Giurò che non avrebbe messo più piede a casa del barone, Lucrezia non voleva vederla mai più. Piuttosto avrebbe preferito morire.
Il giorno del funerale del padre, Lucrezia non versò una lacrima. Stretta nell’abitino di raso nero, fissava davanti a sé il prete alla maniera dei ciechi che guardano senza vedere, la chioma luccicava come un tizzone fra i banchi della chiesa.
La gente la osservava da lontano, senza osare avvicinarsi, e mormorava parole immonde fra i denti: che il barone era morto di dolore, quella figlia era una disgrazia… impura, malvagia… bastava guardarle i capelli… capelli di strega! Quale peccato doveva scontare la sorella del barone per meritarsi un castigo così?
Lucrezia partì con la zia il giorno dopo la sepoltura. Doveva lasciare la casa in cui era cresciuta, ora che suo padre non c’era più. Non provava né affetto né dolore per quel vecchio malinconico che l’aveva soffocata col suo amore morboso. La sua morte era stata per lei una liberazione. La prospettiva di vivere con la zia però non l’allettava affatto. Una zitella acida e bigotta, buona soltanto a battersi il petto e piagnucolare in ginocchio ai piedi del crocifisso, come se la pagliacciata di quel giudeo fosse davvero servita a redimere gli uomini dal peccato. Perché poi darsi tanto da fare a cancellare l’unico piacere che rende amabile la vita? Gliel’aveva rivelato lui, la prima volta che si erano incontrati, in giardino. Era riapparso nella stanza di notte, e lei lo aveva ascoltato rapita. Lo aspettava ogni sera e ogni sera lui arrivava, puntuale. Da allora si era preso cura di lei e non l’aveva più lasciata.
A differenza di Diego. Si era illusa di convertirlo, quello stupido, ma anche lui era come tutti gli altri, un essere meschino privo di cervello. Per questo era fuggito e non era più tornato.
C’era rimasta appena qualche mese dalla zia. Una mattina la baronessa era piombata nella sua stanza e le aveva intimato di preparare le valigie. Sarebbe andata in convento, le suore l’aspettavano.
Non le disse la baronessa zia che lei in casa non ce la voleva più. Lo spifferò al sacerdote, da cui era corsa a chiedere conforto perché l’aiutasse a scacciare il male il più lontano possibile da casa sua. Quella nipote, raccontò al prete, le faceva paura. Era cattiva, stava sempre a fissarla con gli occhi vuoti, muta, cosa le passava per la testa lo sapeva solo il diavolo. E poi, la notte… dalla sua stanza provenivano rumori strani, sussurri, come se parlasse con qualcuno. L’aveva spiata ma la porta era chiusa a chiave, e l’indomani, quando le chiedeva spiegazioni, lei negava, negava tutto! Giacomo, il giardiniere, aveva trascorso all’addiaccio tre notti: non è passata anima viva di qui, le aveva detto, non sarà sonnambula? Eppure ogni notte sempre gli stessi rumori … non ne posso più, padre! Aiutatemi!
E il padre l’aveva aiutata. Si era ricordato di alcune amicizie che aveva nel convento delle Cappuccine. L’aria di montagna le schiarirà le idee, disse alla baronessa, le suore accoglieranno vostra nipote a braccia aperte, insieme con l’offerta che voi non mancherete di fare… sapete, il convento deve farsi carico di tante spese.
Lucrezia odiò il convento di un odio viscerale sin dal momento in cui lo vide dalla corriera immerso nella nebbia. E odiò anche le suore e le loro cantilene. Non smettevano di ripeterle che la preghiera cura tutte le ferite e avrebbe curato anche le sue. Lucrezia però di farsi curare non aveva nessuna voglia. Rifiutava di recitare il rosario, di svolgere le mansioni che le suore le affidavano, come cambiare l’acqua ai fiori sull’altare della Vergine. Mai nessuna delle sorelle la sentì pregare, nella cappella se ne stava in disparte, non parlava con nessuno. Odiava più di tutte suor Agnese: le stava sempre appiccicata, la seguiva in giardino, fino al cespuglio di more, pronta a coglierla in fallo, quella stupida suorina con il naso a becco d’uccello! Che piacere avrebbe provato se un bel giorno non se la fosse trovata più tra i piedi!
Le restava lui. L’aveva seguita fino a lì, in mezzo alle montagne, lui non l’aveva abbandonata come facevano tutti. La notte la raggiungeva nella cella, lei gl’intimava di non fare rumore, aveva paura di essere scoperta.
Adesso il tempo non lo passavano più solo a parlare.
Doveva stare attenta. Quelle maledette suore le stavano col fiato sul collo, pareva non avessero niente di meglio da fare che impicciarsi degli affari suoi.
Fino al giorno che cominciò a star male.
Al mattino vomitava, il resto della giornata non riusciva a inghiottire quasi nulla, l’odore del cibo le dava la nausea.
Le suore mandarono a chiamare il dottore.
È incinta, fu la sentenza.
Suor Agnese non si dava pace. Com’era potuto accadere? Nel convento non entrava mai uomo, a parte il facchino delle consegne. Se ne andava via subito, Lucrezia neanche lo conosceva. Come avrebbe fatto a riferirlo alla baronessa zia?
Ma a riferirlo alla baronessa, suor Agnese non fece in tempo. Lucrezia scomparve la notte stessa, nessuno volle sapere dove fosse finita. Neanche la zia.
Uscì nella neve, con una valigia in mano. Fitte atroci le tagliavano il ventre come pugnali. Fuori dal convento i dolori divennero insopportabili. Cadde a terra oltre il cancello, non si rialzò più. Annegò lì, nella neve e nel sangue.
Una pianta dai fiori bianchi spruzzati di rosso sbocciò sul suo corpo. Spandeva intorno un dolce profumo di miele.
Accanto al cespuglio di more.