[CN2021/R] Canto di Natale
Posted: Mon Jan 03, 2022 4:53 pm
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Traccia 2
Nella nebbia cammino.
Avanzo perso in una coltre così spessa, così densa, che solo i piedi sanno trovare il senso del terreno. Tutto il resto è lattiginosa assenza.
Non mi chiedo nemmeno più da quanto tempo sto vagando qui fuori.
L’umido gelo è divenuto brina sui miei vestiti, i muscoli del viso sono irrigiditi. Il fiato è così freddo che neppure condensa.
Non ho una meta. Non più.
E se pure riuscissi a crearmene una, perso in questa nebbia così assoluta, così perfetta, non troverei la via.
Eppure, avanzo.
Gli occhi non trovano appigli nella bianca barriera e con essi la mente. Scivola verso pensieri incoerenti. Scivola come una lacrima lungo il viso. Come la stilla calda che dall’occhio mi riga la guancia. Scende, indugia, poi si ferma. E si perde con le mille altre gocce di questa nebbia.
La mente scivola e perde memoria del perché io sia qui fuori.
O lo farebbe, se le dita intirizzite non stringessero la carta. Liscia e talmente pesante d’avermi trascinato qui.
Questa lettera d’inchiostro infantile che una mano sconosciuta mi ha porto.
Dalla finestra osservavo il mondo a mani in tasca. Il pomeriggio ancora terso. Le persone passare con gran da fare. Con l’utile sensazione d’essere utili.
Un tempo anch’io.
È squillato il campanello.
Un poco. Timido.
Caro Babbo Natale,
Che lo so che sei tu e sono una bambina fortunata a vivere vicino a Babbo Natale. Ma forse non mi conosci anche se tu sicuramente conosci tutti i bambini.
Sua figlia l’ha infilata nella mia buca, dice l’uomo alla porta. Con il suo ventre gonfio e la barba sudiciamente bianca.
Afferma d’essere un vicino.
Mi passa il foglio e mi lascia lì, sull’uscio aperto e sull’orlo della lettera.
Che leggo. Con la verità dietro cui non posso più nascondermi.
Poi ho fatto solo un passo, e sono stato in strada.
Un altro e la nebbia era con me.
E da allora vago.
I denti battono inarrestabili, mentre da qualche parte il sole s’abbassa e s’ingrigisce il bianco.
Sotto le suole terreno sconnesso dei campi.
Mi fermo e il silenzio è assoluto. Nemmeno il rumore di un pensiero.
No, un suono c’è.
Un ritmato scattare metallico che non sentivo da tanto, tanto tempo.
Mi volto nella sua direzione. Un passo e trovo una stanza. Piccola. Ingombra di pezze, stoffe, ritagli.
E le spalle di mia nonna, curva sullo sferragliare della macchina da cucire.
È come era allora.
Non come sul letto dell’ospedale, quando, piegato sul suo guscio incosciente, le ho sussurrato che era il mio compleanno. Che il regalo sarebbe stato il suo risveglio o il suo trovare la pace; che avrei capito in ogni caso.
Ma da allora non riesco più a festeggiare, nonna, le dico.
Lei ferma la macchina e si volta verso di me. Il volto olivastro, gli occhiali spessi e il contorno canuto dei capelli. Nel suo sguardo quell’adorazione assoluta, quell’amore immotivato che nessun altro mi ha mai donato.
Sorride. Non dice nulla.
Accanto a lei lo sgabello da cui la osservavo, bambino. Come allora mi seggo e, come spesso, la sua mano m’accarezza il viso. È calda di conforto.
La trattengo per godere quanto più di quel gesto dimenticato.
Io mi impegno sempre a fare la brava e mi lavo i denti tutte le sere anche se non mi va e faccio tutti i compiti e solo qualche volta quando c’è il minestrone allora dico che ho il maldipancia per non mangiarlo. Ma poi se ci mettono il formaggino lo mangio piano piano.
Però prometto che sono una bambina buona.
È buona davvero, dico, lei è una bimba… Mi fermo. Per un attimo la nebbia s’intrufola tra di noi, velando le forme della stanza, ma la dissipo con parole vere. Perché non si tratta di mia figlia, qui. Non di Aurora. No, si tratta di me.
Non meritavo la tua fiducia, nonna. Vedi? Ingrigisco anch’io, adesso. E ho fallito.
Non ho più un lavoro da quasi due anni e mi sono illuso che ce l’avrei fatta, che sarei ripartito. Finora.
Adesso so che le mura dell’indifferenza sono invalicabili come quelle di Gerico. E il settimo giorno non c’è stato alcun miracolo, per me.
Non conto nulla per chi potrebbe darmi un lavoro.
Ho tradito la fiducia della mia famiglia, nonna. Sono solamente un peso per loro.
Di nuovo la sua immagine sbiadisce. Sono le mie lacrime, ora, non la nebbia.
Le poso il capo sul grembo. Tienimi qui con te, ti supplico.
Ma il sole è ormai scomparso e le dita dell’oscurità strappano i contorni delle cose, lasciandomi di nuovo solo, oltre il mio passato.
Senza sapere dove andare, nel buio assoluto che mi circonda.
Avanzo nella claustrofobica notte.
Non so quanto tempo ci voglia, prima che una piccola, tenue, luce mi regali la direzione.
Un passo verso di essa, e sono accanto a un’auto color crema.
I vetri appannati. Il motore acceso e un’ovattata musica al suo interno. Mi brucia il cuore. Riconosco questa vecchia, scomoda macchina.
È stata la nostra fuga, la nostra alcova.
Apro lo sportello e sono dentro. I sedili reclinati come tante sere. Nel calore dell’abitacolo, le candide curve di mia moglie mi attendono nude.
Non le ossute forme di noi ragazzi, ma la matura sensualità d’oggi.
È il presente in cui la amo. Ora come allora.
Mi aspetta per accogliermi, impudica. Ma trattengo l’impulso di sfiorarle il seno.
Ci sono tante cose che vorrei per Natale, però io sono solo una bambina e sono sicura che tu conosci tantissimi regali che io nemmeno mi immagino. Allora per Natale vorrei una sorpresissimissima di quelle che mi lasciano a bocca aperta. Tanto tu hai i poteri magici di Babbo Natale.
Mi dispiace amore. Non posso darti nemmeno il regalo per nostra figlia. Non posso comprarti un vestito nuovo. Nemmeno portarti fuori a cena. Darti un futuro.
Sono crollato, amore, sputato via dal mondo che volevo conquistare. E sto trascinando voi giù con me.
Non vi meritate questo. Non lo meriti tu.
Lei si mette seduta e con un dito mi sfiora le labbra.
Ancora una volta mi chiedo cosa l’abbia spinta a legarsi a me. Anche adesso. Anche ora che sono uno scarto.
Guardo i suoi occhi profondi. Il riflesso di trent’anni sognati assieme.
Il mio significato sarà nel non esserci più, amore. Lasciarti libera di me.
Non in un futuro, non un domani, ma oggi. Adesso.
Liberare te e Aurora della mia inutilità.
Ti amo, sussurro, e sono fuori dall’auto.
Adesso la campagna è così oscura che non capisco nemmeno se vi sia ancora la nebbia.
Non vedo nulla. E non importa.
Ho talmente freddo che non sento più le mani. Talmente che quando mi siedo, le ginocchia quasi non si piegano. Talmente che, supino, il terreno mi sembra caldo.
Tengo lo sguardo dritto sul nulla.
Penso che a morire congelati nel sonno non si provi dolore.
Va bene così.
Tolgo il disturbo.
Vorrei che ci fossero i due soldati con il fucile a guidarmi (1), ma alla fine si muore soli.
Non compare nemmeno il fantasma del futuro. Ho una tale paura del domani che non riesce a prendere alcuna sembianza.
Ho nostalgia di speranza e felicità.
Prometto che poi mi impegnerò a mangiare sempre tutto il minestrone.
Davvero ho creduto che bastasse impegnarsi. Essere onesti. Buoni. Che alla fine i conti sarebbero tornati. Una sorta di equilibrio della vita dove ogni bene è ripagato.
Ora so che era illusione.
Nessuno ti ripaga. È solo menzogna.
Abbasso le palpebre, rigide di gelo. E stringo la lettera.
La stringo e non muoio, Aurora mi desta.
Salta sul letto, illuminata dall’idea della sorpresissimissima.
Mi siedo sul bordo. Dalla finestra solo il bianco della nebbia.
Accanto litigano già.
Mia moglie resta sul fianco, di schiena, nel suo terzo di letto. Finge di dormire.
Accendo la stufetta, poi guardo Aurora, che all’angolo della stanza ora salta giuliva.
Accanto all’alberello, la sagoma incartata d’una bicicletta.
La guardo incredulo.
Quasi non bado alla mia piccolina che mi spiega d’averlo visto. D’aver spiato il vicino portare il regalo, vestito di rosso e con il sorriso bonario.
Penso all’uomo dal ventre gonfio e la barba sudicia. Penso alla notte. Al mio disperato presente.
Forse questo è il regalo che la mia mente si fa in punto di morte.
Aurora mi porge una busta con il mio nome.
Dice che viene da lui.
Dentro, solo un cartoncino con una breve frase su ogni lato:
La realtà è illusione.
e
Buon Natale.
(1) Haruki Murakami: Kafka sulla spiaggia
Traccia 2
Nella nebbia cammino.
Avanzo perso in una coltre così spessa, così densa, che solo i piedi sanno trovare il senso del terreno. Tutto il resto è lattiginosa assenza.
Non mi chiedo nemmeno più da quanto tempo sto vagando qui fuori.
L’umido gelo è divenuto brina sui miei vestiti, i muscoli del viso sono irrigiditi. Il fiato è così freddo che neppure condensa.
Non ho una meta. Non più.
E se pure riuscissi a crearmene una, perso in questa nebbia così assoluta, così perfetta, non troverei la via.
Eppure, avanzo.
Gli occhi non trovano appigli nella bianca barriera e con essi la mente. Scivola verso pensieri incoerenti. Scivola come una lacrima lungo il viso. Come la stilla calda che dall’occhio mi riga la guancia. Scende, indugia, poi si ferma. E si perde con le mille altre gocce di questa nebbia.
La mente scivola e perde memoria del perché io sia qui fuori.
O lo farebbe, se le dita intirizzite non stringessero la carta. Liscia e talmente pesante d’avermi trascinato qui.
Questa lettera d’inchiostro infantile che una mano sconosciuta mi ha porto.
Dalla finestra osservavo il mondo a mani in tasca. Il pomeriggio ancora terso. Le persone passare con gran da fare. Con l’utile sensazione d’essere utili.
Un tempo anch’io.
È squillato il campanello.
Un poco. Timido.
Caro Babbo Natale,
Che lo so che sei tu e sono una bambina fortunata a vivere vicino a Babbo Natale. Ma forse non mi conosci anche se tu sicuramente conosci tutti i bambini.
Sua figlia l’ha infilata nella mia buca, dice l’uomo alla porta. Con il suo ventre gonfio e la barba sudiciamente bianca.
Afferma d’essere un vicino.
Mi passa il foglio e mi lascia lì, sull’uscio aperto e sull’orlo della lettera.
Che leggo. Con la verità dietro cui non posso più nascondermi.
Poi ho fatto solo un passo, e sono stato in strada.
Un altro e la nebbia era con me.
E da allora vago.
I denti battono inarrestabili, mentre da qualche parte il sole s’abbassa e s’ingrigisce il bianco.
Sotto le suole terreno sconnesso dei campi.
Mi fermo e il silenzio è assoluto. Nemmeno il rumore di un pensiero.
No, un suono c’è.
Un ritmato scattare metallico che non sentivo da tanto, tanto tempo.
Mi volto nella sua direzione. Un passo e trovo una stanza. Piccola. Ingombra di pezze, stoffe, ritagli.
E le spalle di mia nonna, curva sullo sferragliare della macchina da cucire.
È come era allora.
Non come sul letto dell’ospedale, quando, piegato sul suo guscio incosciente, le ho sussurrato che era il mio compleanno. Che il regalo sarebbe stato il suo risveglio o il suo trovare la pace; che avrei capito in ogni caso.
Ma da allora non riesco più a festeggiare, nonna, le dico.
Lei ferma la macchina e si volta verso di me. Il volto olivastro, gli occhiali spessi e il contorno canuto dei capelli. Nel suo sguardo quell’adorazione assoluta, quell’amore immotivato che nessun altro mi ha mai donato.
Sorride. Non dice nulla.
Accanto a lei lo sgabello da cui la osservavo, bambino. Come allora mi seggo e, come spesso, la sua mano m’accarezza il viso. È calda di conforto.
La trattengo per godere quanto più di quel gesto dimenticato.
Io mi impegno sempre a fare la brava e mi lavo i denti tutte le sere anche se non mi va e faccio tutti i compiti e solo qualche volta quando c’è il minestrone allora dico che ho il maldipancia per non mangiarlo. Ma poi se ci mettono il formaggino lo mangio piano piano.
Però prometto che sono una bambina buona.
È buona davvero, dico, lei è una bimba… Mi fermo. Per un attimo la nebbia s’intrufola tra di noi, velando le forme della stanza, ma la dissipo con parole vere. Perché non si tratta di mia figlia, qui. Non di Aurora. No, si tratta di me.
Non meritavo la tua fiducia, nonna. Vedi? Ingrigisco anch’io, adesso. E ho fallito.
Non ho più un lavoro da quasi due anni e mi sono illuso che ce l’avrei fatta, che sarei ripartito. Finora.
Adesso so che le mura dell’indifferenza sono invalicabili come quelle di Gerico. E il settimo giorno non c’è stato alcun miracolo, per me.
Non conto nulla per chi potrebbe darmi un lavoro.
Ho tradito la fiducia della mia famiglia, nonna. Sono solamente un peso per loro.
Di nuovo la sua immagine sbiadisce. Sono le mie lacrime, ora, non la nebbia.
Le poso il capo sul grembo. Tienimi qui con te, ti supplico.
Ma il sole è ormai scomparso e le dita dell’oscurità strappano i contorni delle cose, lasciandomi di nuovo solo, oltre il mio passato.
Senza sapere dove andare, nel buio assoluto che mi circonda.
Avanzo nella claustrofobica notte.
Non so quanto tempo ci voglia, prima che una piccola, tenue, luce mi regali la direzione.
Un passo verso di essa, e sono accanto a un’auto color crema.
I vetri appannati. Il motore acceso e un’ovattata musica al suo interno. Mi brucia il cuore. Riconosco questa vecchia, scomoda macchina.
È stata la nostra fuga, la nostra alcova.
Apro lo sportello e sono dentro. I sedili reclinati come tante sere. Nel calore dell’abitacolo, le candide curve di mia moglie mi attendono nude.
Non le ossute forme di noi ragazzi, ma la matura sensualità d’oggi.
È il presente in cui la amo. Ora come allora.
Mi aspetta per accogliermi, impudica. Ma trattengo l’impulso di sfiorarle il seno.
Ci sono tante cose che vorrei per Natale, però io sono solo una bambina e sono sicura che tu conosci tantissimi regali che io nemmeno mi immagino. Allora per Natale vorrei una sorpresissimissima di quelle che mi lasciano a bocca aperta. Tanto tu hai i poteri magici di Babbo Natale.
Mi dispiace amore. Non posso darti nemmeno il regalo per nostra figlia. Non posso comprarti un vestito nuovo. Nemmeno portarti fuori a cena. Darti un futuro.
Sono crollato, amore, sputato via dal mondo che volevo conquistare. E sto trascinando voi giù con me.
Non vi meritate questo. Non lo meriti tu.
Lei si mette seduta e con un dito mi sfiora le labbra.
Ancora una volta mi chiedo cosa l’abbia spinta a legarsi a me. Anche adesso. Anche ora che sono uno scarto.
Guardo i suoi occhi profondi. Il riflesso di trent’anni sognati assieme.
Il mio significato sarà nel non esserci più, amore. Lasciarti libera di me.
Non in un futuro, non un domani, ma oggi. Adesso.
Liberare te e Aurora della mia inutilità.
Ti amo, sussurro, e sono fuori dall’auto.
Adesso la campagna è così oscura che non capisco nemmeno se vi sia ancora la nebbia.
Non vedo nulla. E non importa.
Ho talmente freddo che non sento più le mani. Talmente che quando mi siedo, le ginocchia quasi non si piegano. Talmente che, supino, il terreno mi sembra caldo.
Tengo lo sguardo dritto sul nulla.
Penso che a morire congelati nel sonno non si provi dolore.
Va bene così.
Tolgo il disturbo.
Vorrei che ci fossero i due soldati con il fucile a guidarmi (1), ma alla fine si muore soli.
Non compare nemmeno il fantasma del futuro. Ho una tale paura del domani che non riesce a prendere alcuna sembianza.
Ho nostalgia di speranza e felicità.
Prometto che poi mi impegnerò a mangiare sempre tutto il minestrone.
Davvero ho creduto che bastasse impegnarsi. Essere onesti. Buoni. Che alla fine i conti sarebbero tornati. Una sorta di equilibrio della vita dove ogni bene è ripagato.
Ora so che era illusione.
Nessuno ti ripaga. È solo menzogna.
Abbasso le palpebre, rigide di gelo. E stringo la lettera.
La stringo e non muoio, Aurora mi desta.
Salta sul letto, illuminata dall’idea della sorpresissimissima.
Mi siedo sul bordo. Dalla finestra solo il bianco della nebbia.
Accanto litigano già.
Mia moglie resta sul fianco, di schiena, nel suo terzo di letto. Finge di dormire.
Accendo la stufetta, poi guardo Aurora, che all’angolo della stanza ora salta giuliva.
Accanto all’alberello, la sagoma incartata d’una bicicletta.
La guardo incredulo.
Quasi non bado alla mia piccolina che mi spiega d’averlo visto. D’aver spiato il vicino portare il regalo, vestito di rosso e con il sorriso bonario.
Penso all’uomo dal ventre gonfio e la barba sudicia. Penso alla notte. Al mio disperato presente.
Forse questo è il regalo che la mia mente si fa in punto di morte.
Aurora mi porge una busta con il mio nome.
Dice che viene da lui.
Dentro, solo un cartoncino con una breve frase su ogni lato:
La realtà è illusione.
e
Buon Natale.
(1) Haruki Murakami: Kafka sulla spiaggia