[MI156] Varechina rosso fuoco
Posted: Sun Oct 17, 2021 8:39 pm
Traccia di Mezzogiorno: "Colori primari".
Ho due grandi paure nella vita: la più grande è bere varechina al posto dell'acqua. Ho paura di accorgermi dell'errore mortifero solo mentre il liquido sta scorrendo nell'esofago, quando sputare o tentare di vomitare risulterebbe del tutto inutile.
Mi spiego meglio.
Il mio timore non è quello di aprire un flacone di varechina e versarlo nel bicchiere: questo si chiamerebbe suicidio. Ho proprio paura che qualcuno mi versi della varechina per sbaglio: non so, un barista distratto, un'amica alterata.
Può capitare. Anzi, è capitato. Il fatto che sia capitato lo rende possibile, e non è detto che non succeda di nuovo a me. Nonostante io metta in atto ogni precauzione – osservare attentamente che il barista prenda l'acqua dal rubinetto; aspettare che l'amica beva prima di me –, la paura rimane inalterata.
Guardo con orrore alla consapevolezza della morte che incombe, mentre, ignara, mando giù una sorsata di varechina. Ammesso che io riesca a sputare un po' del liquido e a limitare i danni, il percepire il mio esofago e la mucosa gastrica pieni di lesioni e ulcere mi farebbe stare così male che di certo impazzirei. Non so se nella realtà succederebbe davvero tutto quello che temo; so solo che immagino con lucida chiarezza il tubo – attraverso il quale scende ciò che ingeriamo – mentre si spappola, separando così per sempre la gola dallo stomaco, e lo stomaco stesso fondersi e dilatarsi in un eccesso di pustole violacee e maleodoranti, fino a scomparire inglobato dal fegato e dalla milza.
Anche la lingua si scioglierebbe alle fiamme subdole dell'acido e colerebbe giù nel ventre: non più attraverso l'esofago, ormai liquefatto, ma, come da una cloaca, a grumi informi verso l'impasto purpureo degli organi in poltiglia.
Il cuore, poco a poco, cesserebbe di battere: non prima, però, di aver accelerato vertiginosamente il suo movimento ritmico, tanto da darmi l'impressione di fuoriuscire dalla bocca. E sarebbe impresa facile, dal momento che la via, non più ostruita dall'esofago e dalla lingua, risulterebbe oltremodo agevole da percorrere.
Lo vedo, lo visualizzo: il cuore che si stacca con prepotenza dalle arterie e schizza su, abbandonando il comodo luogo che occupa di solito nella gabbia toracica. Schizza su: incontra il buco della gola, vi si infila ruotando su sé stesso, si adagia sulla base della bocca, ormai priva di lingua.
Mi troverei, pertanto, col cuore in mezzo ai denti, forse non ancora morta ma di certo sul punto di spirare. So che tenterei, in un lacrimoso sussulto, di non sputare il mio cuore, stringendo le labbra per tenerlo dentro; non vorrei mai e poi mai vederlo rotolare al di fuori di me, nella terra già intrisa di sangue, solo perché non sono stata abbastanza attenta a serrare i denti come si deve.
Questi, dunque, sono i motivi per cui sono sempre molto vigile quando mi accingo a bere.
Se la prima paura che mi possiede è grande, la seconda è senz'altro più insidiosa e invalidante. Temo, difatti, che un ago mi si infili in qualche parte del corpo senza che io me ne accorga e, un po' alla volta, raggiunga il cuore, provocandomi la morte.
Una volta nell'organo, so che l'ago mi causerebbe un dolore così acuto da farmi gridare giorno e notte. Nessuno, però, capirebbe il motivo, neppure i medici degli ospedali. L'ago, difatti, una volta penetrato nella cute e imboccata una vena qualsiasi, risulterebbe del tutto invisibile; il buchetto d'entrata, dopo aver prodotto la fuoriuscita di una stilla di sangue, si richiuderebbe quasi all'istante e nessuno sarebbe testimone della tragedia in atto.
Quanto tempo può impiegare un ago ad arrivare fino al cuore? A occhio potrei dire un giorno intero, ma non è detto che non ci metta una settimana.
In questo momento, ad esempio, non mi sentirei di escludere del tutto che un ago, infilatosi nel mio corpo chissà come, stia pacificamente nuotando verso il cuore attraverso il liquido rosso che ci sostiene. Potrebbero mancare soltanto pochi minuti alla mia morte.
E infatti ecco il dolore, lo sento: una fitta orrenda, per la quale porto la mano al petto, carezzandolo con furia e poi schiacciandolo, quasi a voler spegnere il fuoco. Ma il movimento repentino della mano sul petto, ne sono certa, avrà fatto innervosire l'ago, che ora si muoverà senza posa e in ogni direzione, crivellando di colpi acuti l'organo cavo e ancora pulsante.
E il sangue uscirà dappertutto, trasborderà da vene e arterie e arriverà agli occhi, alle orecchie, alle narici, alla bocca: affogherò nel liquido vermiglio, col cuore bucherellato e sfinito.
La mia vita, però, non sarà passata invano: studieranno i miei resti, li sottoporranno ad autopsia, e sono certa che qualcuno dotato di spirito d'acribia comprenderà la causa del decesso e la renderà pubblica, proteggendo in questo modo milioni di altre vite da una morte così terribile e ingiusta.
Ho due grandi paure nella vita: la più grande è bere varechina al posto dell'acqua. Ho paura di accorgermi dell'errore mortifero solo mentre il liquido sta scorrendo nell'esofago, quando sputare o tentare di vomitare risulterebbe del tutto inutile.
Mi spiego meglio.
Il mio timore non è quello di aprire un flacone di varechina e versarlo nel bicchiere: questo si chiamerebbe suicidio. Ho proprio paura che qualcuno mi versi della varechina per sbaglio: non so, un barista distratto, un'amica alterata.
Può capitare. Anzi, è capitato. Il fatto che sia capitato lo rende possibile, e non è detto che non succeda di nuovo a me. Nonostante io metta in atto ogni precauzione – osservare attentamente che il barista prenda l'acqua dal rubinetto; aspettare che l'amica beva prima di me –, la paura rimane inalterata.
Guardo con orrore alla consapevolezza della morte che incombe, mentre, ignara, mando giù una sorsata di varechina. Ammesso che io riesca a sputare un po' del liquido e a limitare i danni, il percepire il mio esofago e la mucosa gastrica pieni di lesioni e ulcere mi farebbe stare così male che di certo impazzirei. Non so se nella realtà succederebbe davvero tutto quello che temo; so solo che immagino con lucida chiarezza il tubo – attraverso il quale scende ciò che ingeriamo – mentre si spappola, separando così per sempre la gola dallo stomaco, e lo stomaco stesso fondersi e dilatarsi in un eccesso di pustole violacee e maleodoranti, fino a scomparire inglobato dal fegato e dalla milza.
Anche la lingua si scioglierebbe alle fiamme subdole dell'acido e colerebbe giù nel ventre: non più attraverso l'esofago, ormai liquefatto, ma, come da una cloaca, a grumi informi verso l'impasto purpureo degli organi in poltiglia.
Il cuore, poco a poco, cesserebbe di battere: non prima, però, di aver accelerato vertiginosamente il suo movimento ritmico, tanto da darmi l'impressione di fuoriuscire dalla bocca. E sarebbe impresa facile, dal momento che la via, non più ostruita dall'esofago e dalla lingua, risulterebbe oltremodo agevole da percorrere.
Lo vedo, lo visualizzo: il cuore che si stacca con prepotenza dalle arterie e schizza su, abbandonando il comodo luogo che occupa di solito nella gabbia toracica. Schizza su: incontra il buco della gola, vi si infila ruotando su sé stesso, si adagia sulla base della bocca, ormai priva di lingua.
Mi troverei, pertanto, col cuore in mezzo ai denti, forse non ancora morta ma di certo sul punto di spirare. So che tenterei, in un lacrimoso sussulto, di non sputare il mio cuore, stringendo le labbra per tenerlo dentro; non vorrei mai e poi mai vederlo rotolare al di fuori di me, nella terra già intrisa di sangue, solo perché non sono stata abbastanza attenta a serrare i denti come si deve.
Questi, dunque, sono i motivi per cui sono sempre molto vigile quando mi accingo a bere.
Se la prima paura che mi possiede è grande, la seconda è senz'altro più insidiosa e invalidante. Temo, difatti, che un ago mi si infili in qualche parte del corpo senza che io me ne accorga e, un po' alla volta, raggiunga il cuore, provocandomi la morte.
Una volta nell'organo, so che l'ago mi causerebbe un dolore così acuto da farmi gridare giorno e notte. Nessuno, però, capirebbe il motivo, neppure i medici degli ospedali. L'ago, difatti, una volta penetrato nella cute e imboccata una vena qualsiasi, risulterebbe del tutto invisibile; il buchetto d'entrata, dopo aver prodotto la fuoriuscita di una stilla di sangue, si richiuderebbe quasi all'istante e nessuno sarebbe testimone della tragedia in atto.
Quanto tempo può impiegare un ago ad arrivare fino al cuore? A occhio potrei dire un giorno intero, ma non è detto che non ci metta una settimana.
In questo momento, ad esempio, non mi sentirei di escludere del tutto che un ago, infilatosi nel mio corpo chissà come, stia pacificamente nuotando verso il cuore attraverso il liquido rosso che ci sostiene. Potrebbero mancare soltanto pochi minuti alla mia morte.
E infatti ecco il dolore, lo sento: una fitta orrenda, per la quale porto la mano al petto, carezzandolo con furia e poi schiacciandolo, quasi a voler spegnere il fuoco. Ma il movimento repentino della mano sul petto, ne sono certa, avrà fatto innervosire l'ago, che ora si muoverà senza posa e in ogni direzione, crivellando di colpi acuti l'organo cavo e ancora pulsante.
E il sangue uscirà dappertutto, trasborderà da vene e arterie e arriverà agli occhi, alle orecchie, alle narici, alla bocca: affogherò nel liquido vermiglio, col cuore bucherellato e sfinito.
La mia vita, però, non sarà passata invano: studieranno i miei resti, li sottoporranno ad autopsia, e sono certa che qualcuno dotato di spirito d'acribia comprenderà la causa del decesso e la renderà pubblica, proteggendo in questo modo milioni di altre vite da una morte così terribile e ingiusta.