[MI156] Io, Gabibbo
Posted: Sun Oct 17, 2021 8:22 pm
Il mio commento
Traccia di mezzogiorno, i colori.
(Io ho scelto il rosso)
La velina mora si infila il cappotto ed esce a passo svelto. Ha un appuntamento galante con l’attaccante della Juventus.
O forse è un terzino?
Non ricordo.
Me l’ha detto durante le prove, ma non la stavo ascoltando.
Da quanto tempo non ascolto una velina?
Ne ho viste così tante passare per di qua.
Saluto chi è rimasto ed entro nel camerino.
Solita routine.
Accendo lo stereo e mando i suoni di cerniere zip che si aprono.
Mi distendo sul divano e attendo che tutti vadano via.
Di solito in un quarto d’ora non c’è più nessuno.
Ho le mani giunte sul petto e fisso il soffitto.
Ultimamente mi capita molto spesso di pensare a cosa accadrebbe se mi rivelassi.
Sarà che gli anni passano e tutti questi stratagemmi mi hanno stancato.
Ma come reagirebbe la gente?
La stampa e il web impazzirebbero. Migliaia di meme. Migliaia di articoli con il titolo a effetto: “Il Gabibbo non è un pupazzo! È reale!” oppure “Il Gabibbo è un alieno. Per anni sotto i nostri occhi e non lo avevamo capito!” o ancora “Gabibbo: minacce spaziali a ora di cena per gli italiani.”.
Sarebbe il delirio.
Probabilmente mi verrebbe a cercare la CIA.
Mi interrogherebbero per sapere dove sono i miei simili.
Dio, potrebbero persino uccidermi e sezionarmi.
Studierebbero il mio sangue, il mio DNA.
Mi alzo di scatto.
Ogni volta che faccio questi pensieri, mi inquieto, perché in un modo o nell’alto arrivo sempre al momento in cui la CIA mi rapisce e mi seziona.
Eppure quando sono arrivato qui, trentuno anni fa, sono stato sincero.
Ho raccontato tutto di me. Di chi ero davvero.
Di me che perdo il controllo della navicella.
Dello schianto notturno in un terreno fra Cernusco sul Naviglio e Cologno Monzese.
Della camminata in cerca di aiuto, verso le prime luci che vedo in lontananza.
Di me che apro la porta sul retro degli studi e capito nella riunione notturna degli autori del programma.
«Sono Gabibbo del pianeta Belandi, nella galassia Besughi e vengo in pace» dico, attivando il mio traduttore universale.
E loro giù a ridere come matti.
«Figa, che voce assurda» grida uno e il giro di risate ricomincia.
Poi si rifanno seri e un altro mi si avvicina: «Non lo so chi ti abbia mandato, ma abbiamo cercato per mesi una mascotte per il programma e tu sei perfetto. Semplicemente perfetto. Cominciamo tra una settimana.»
Sono seduto davanti allo specchio adesso e guardo il mio riflesso, incastonato in una cornice di decine di lampadine.
Penso a quel primo incontro e alla fortuna che ho avuto. Se quelli avessero capito davvero chi stavano assumendo, se le bottiglie di vino sul tavolo fossero state più piene, non so cosa mi sarebbe accaduto.
Solo nei giorni successivi ho capito che questo pianeta non aveva mai avuto incontri con altri esseri alieni, che ero il primo a mettere piede qui.
«Il primo e l’ultimo» dico con la voce amara.
I miei pensieri sono venuti fuori dalla bocca, perché ormai in testa, seppure sia bella grossa, non c’era più spazio.
Mi concedo un sospiro e spengo la registrazione delle cerniere zip.
Negli studi regna il silenzio. Posso tornare a casa.
Passo sempre davanti al punto in cui la mia navicella ha impattato il terreno. Mi aiuta a non dimenticare chi sono. Da dove vengo.
Quella notte ho usato il mio Dimensionatore a Propulsori per rimpicciolire i rottami e portarli via.
Speravo di ricomporla, di rimettere insieme qualcosa che mi potesse far lasciare la Terra. Ma non c’è stato modo.
Poi il programma è cominciato.
Mi bastava parlare, per far ridere la gente.
«Belandi!» e le facce si contraevano e si arrossavano.
«Besughi!» e le lacrime venivano fuori, a fiumi.
Il nome del mio pianeta e della mia galassia non avevano mai fatto ridere nessuno, ma gli umani li trovavano irresistibili e io, beh, mi divertivo.
Cominciava a piacermi questo posto.
E così passarono i giorni e i mesi. E infine gli anni.
Trentuno per l’esattezza. Quella che era stata una fuga adolescenziale dalle responsabilità, dai miei doveri di principe e futuro regnante del pianeta Belandi, è diventata la mia vita qui. Un’altra vita. Una vita che mai avrei immaginato. Che dopo tanti, forse troppi, anni chiede il conto.
Perché questa sera, mentre guido verso casa, mi sto facendo delle domande.
Mi sto chiedendo se davvero ne sia valsa la pena.
Mentre aspetto che il semaforo diventi verde, con il vento che mi solletica il gomito poggiato sul finestrino aperto.
«Oh, il Gabibbo! C’è il Gabibbo! Oh, Gabibbo ci facciamo un selfie?»
Due ragazzi corrono verso la mia macchina, con lo smartphone già pronto all’uso.
Lancio un rapido sguardo al finestrino retrovisore: nessuno in arrivo. Poi un’occhiata al semaforo, ancora rosso.
Posso concederglielo.
«Besughi, un bell’autoscatto!» dico, cercando di mettere nella voce almeno la metà dell’entusiasmo che vedo sulle loro facce.
Quelli sorridono e si mettono in posa, quindi cliccano sullo schermo per lo scatto.
«Svegliati»
Apro prima l’occhio sinistro, quindi il destro.
È tutto sfocato.
Sfocato e rosso.
«D-dove s-sono?» farfuglio.
«Belandi» mi risponde una voce e per la prima volta in trentun anni la parola non viene seguita da risate.
«M-madre?» azzardo, ma adesso le immagini sono più delineate e dissipano ogni dubbio.
«V-voi siete ancora v-viva» dico e un sincero fiotto di felicità mi inonda il petto.
Le mie parole non generano alcuna risposta, quindi decido di parlare di nuovo: «Io… Come mi avete…»
«Abbiamo scandagliato ogni angolo dell’universo. Non c’è stato un singolo giorno in cui non abbia pianto la tua scomparsa. Poi la terribile scoperta di qualche giorno fa. Giullare su un pianeta di primati involuti. Vorrei non averti pianto. Vorrei poter recuperare ogni lacrima. Tu hai disonorato i tuoi simili. Hai disonorato noi, la tua famiglia. La famiglia reale.»
Sono in piedi. Le parole di mia madre mi colpiscono il cuore e lo trafiggono, lasciando ferite sanguinanti. Siamo nella mia vecchia stanza di quando ero ragazzo. Tutto è rimasto uguale: il letto rosso, il materasso rosso, le coperte e le lenzuola rosse, l’orologio rosso, la tv rossa, le finestre che danno sul fiume di sangue, che scorre lungo tutto il perimetro del palazzo reale.
Non solo la mia stanza. Anche Belandi è rimasto come l’avevo lasciato. Monocromatico e spietato.
«Dov’è mio padre? Ditemelo, per cortesia» chiedo d’un tratto.
«Gobibba non ha retto al dolore. Il suo unico figlio ed erede ridotto a maschera. A figurante teatrale.»
«No, madre. No, vi prego. Non può essere.»
Sento di non poter sopportare oltre e due lacrime rosse mi rigano le guance.
«Dov’è?» urlo e lei non rompe il silenzio. Si limita a indicarmi con il muso la Torre del Sacrificio, il simbolo del potere della mia famiglia.
Non mi serve altro.
Comincio a correre e salgo ogni scalino rosso con la consapevolezza che troverò un cadavere al mio arrivo.
Il cadavere di mio padre, re di Belandi.
«Divino Gobibba!»
Davanti a me c’è l’essere che mi ha generato. Ed è disteso sul pavimento rosso.
«Perché?» mi chiede, con la voce che è un sibilo appena percettibile.
«Padre!» urlo e gli metto una mano sul petto. Il suo cuore si sta fermando.
I suoi grandi occhi mi fissano. Esigono una spiegazione.
«Non volevo passare i miei giorni a sgozzare guerrieri e a tenere vivo il Fiume del Controllo con il loro sangue. Non ero pronto.»
«E ora?» si limita a chiedermi. A differenza della venerata madre, egli non mi giudica. Vuole solo assicurarsi che il corso del Fiume del Controllo rimanga abbondante, come fece suo padre Gibabbo prima di lui e suo nonno Gobabbi prima ancora. E tutti i nostri antenati da quando la nostra famiglia regna su Belandi.
«Ora sono pronto, padre» dico.
«Che entrino gli sfidanti!» urla con le ultime forze, quindi spira tra le mie braccia.
«Per Battenar!» strilla il mio primo avversario, con un grido di battaglia che onora il pianeta da cui proviene.
Io mi rendo conto di non averlo un grido di battaglia.
Poi l’illuminazione.
«Le veline!» urlo con quanto fiato ho in gola e gli strappo la testa dal resto del corpo, versando le sue interiora nel Fiume del Controllo.
Traccia di mezzogiorno, i colori.
(Io ho scelto il rosso)
La velina mora si infila il cappotto ed esce a passo svelto. Ha un appuntamento galante con l’attaccante della Juventus.
O forse è un terzino?
Non ricordo.
Me l’ha detto durante le prove, ma non la stavo ascoltando.
Da quanto tempo non ascolto una velina?
Ne ho viste così tante passare per di qua.
Saluto chi è rimasto ed entro nel camerino.
Solita routine.
Accendo lo stereo e mando i suoni di cerniere zip che si aprono.
Mi distendo sul divano e attendo che tutti vadano via.
Di solito in un quarto d’ora non c’è più nessuno.
Ho le mani giunte sul petto e fisso il soffitto.
Ultimamente mi capita molto spesso di pensare a cosa accadrebbe se mi rivelassi.
Sarà che gli anni passano e tutti questi stratagemmi mi hanno stancato.
Ma come reagirebbe la gente?
La stampa e il web impazzirebbero. Migliaia di meme. Migliaia di articoli con il titolo a effetto: “Il Gabibbo non è un pupazzo! È reale!” oppure “Il Gabibbo è un alieno. Per anni sotto i nostri occhi e non lo avevamo capito!” o ancora “Gabibbo: minacce spaziali a ora di cena per gli italiani.”.
Sarebbe il delirio.
Probabilmente mi verrebbe a cercare la CIA.
Mi interrogherebbero per sapere dove sono i miei simili.
Dio, potrebbero persino uccidermi e sezionarmi.
Studierebbero il mio sangue, il mio DNA.
Mi alzo di scatto.
Ogni volta che faccio questi pensieri, mi inquieto, perché in un modo o nell’alto arrivo sempre al momento in cui la CIA mi rapisce e mi seziona.
Eppure quando sono arrivato qui, trentuno anni fa, sono stato sincero.
Ho raccontato tutto di me. Di chi ero davvero.
Di me che perdo il controllo della navicella.
Dello schianto notturno in un terreno fra Cernusco sul Naviglio e Cologno Monzese.
Della camminata in cerca di aiuto, verso le prime luci che vedo in lontananza.
Di me che apro la porta sul retro degli studi e capito nella riunione notturna degli autori del programma.
«Sono Gabibbo del pianeta Belandi, nella galassia Besughi e vengo in pace» dico, attivando il mio traduttore universale.
E loro giù a ridere come matti.
«Figa, che voce assurda» grida uno e il giro di risate ricomincia.
Poi si rifanno seri e un altro mi si avvicina: «Non lo so chi ti abbia mandato, ma abbiamo cercato per mesi una mascotte per il programma e tu sei perfetto. Semplicemente perfetto. Cominciamo tra una settimana.»
Sono seduto davanti allo specchio adesso e guardo il mio riflesso, incastonato in una cornice di decine di lampadine.
Penso a quel primo incontro e alla fortuna che ho avuto. Se quelli avessero capito davvero chi stavano assumendo, se le bottiglie di vino sul tavolo fossero state più piene, non so cosa mi sarebbe accaduto.
Solo nei giorni successivi ho capito che questo pianeta non aveva mai avuto incontri con altri esseri alieni, che ero il primo a mettere piede qui.
«Il primo e l’ultimo» dico con la voce amara.
I miei pensieri sono venuti fuori dalla bocca, perché ormai in testa, seppure sia bella grossa, non c’era più spazio.
Mi concedo un sospiro e spengo la registrazione delle cerniere zip.
Negli studi regna il silenzio. Posso tornare a casa.
Passo sempre davanti al punto in cui la mia navicella ha impattato il terreno. Mi aiuta a non dimenticare chi sono. Da dove vengo.
Quella notte ho usato il mio Dimensionatore a Propulsori per rimpicciolire i rottami e portarli via.
Speravo di ricomporla, di rimettere insieme qualcosa che mi potesse far lasciare la Terra. Ma non c’è stato modo.
Poi il programma è cominciato.
Mi bastava parlare, per far ridere la gente.
«Belandi!» e le facce si contraevano e si arrossavano.
«Besughi!» e le lacrime venivano fuori, a fiumi.
Il nome del mio pianeta e della mia galassia non avevano mai fatto ridere nessuno, ma gli umani li trovavano irresistibili e io, beh, mi divertivo.
Cominciava a piacermi questo posto.
E così passarono i giorni e i mesi. E infine gli anni.
Trentuno per l’esattezza. Quella che era stata una fuga adolescenziale dalle responsabilità, dai miei doveri di principe e futuro regnante del pianeta Belandi, è diventata la mia vita qui. Un’altra vita. Una vita che mai avrei immaginato. Che dopo tanti, forse troppi, anni chiede il conto.
Perché questa sera, mentre guido verso casa, mi sto facendo delle domande.
Mi sto chiedendo se davvero ne sia valsa la pena.
Mentre aspetto che il semaforo diventi verde, con il vento che mi solletica il gomito poggiato sul finestrino aperto.
«Oh, il Gabibbo! C’è il Gabibbo! Oh, Gabibbo ci facciamo un selfie?»
Due ragazzi corrono verso la mia macchina, con lo smartphone già pronto all’uso.
Lancio un rapido sguardo al finestrino retrovisore: nessuno in arrivo. Poi un’occhiata al semaforo, ancora rosso.
Posso concederglielo.
«Besughi, un bell’autoscatto!» dico, cercando di mettere nella voce almeno la metà dell’entusiasmo che vedo sulle loro facce.
Quelli sorridono e si mettono in posa, quindi cliccano sullo schermo per lo scatto.
«Svegliati»
Apro prima l’occhio sinistro, quindi il destro.
È tutto sfocato.
Sfocato e rosso.
«D-dove s-sono?» farfuglio.
«Belandi» mi risponde una voce e per la prima volta in trentun anni la parola non viene seguita da risate.
«M-madre?» azzardo, ma adesso le immagini sono più delineate e dissipano ogni dubbio.
«V-voi siete ancora v-viva» dico e un sincero fiotto di felicità mi inonda il petto.
Le mie parole non generano alcuna risposta, quindi decido di parlare di nuovo: «Io… Come mi avete…»
«Abbiamo scandagliato ogni angolo dell’universo. Non c’è stato un singolo giorno in cui non abbia pianto la tua scomparsa. Poi la terribile scoperta di qualche giorno fa. Giullare su un pianeta di primati involuti. Vorrei non averti pianto. Vorrei poter recuperare ogni lacrima. Tu hai disonorato i tuoi simili. Hai disonorato noi, la tua famiglia. La famiglia reale.»
Sono in piedi. Le parole di mia madre mi colpiscono il cuore e lo trafiggono, lasciando ferite sanguinanti. Siamo nella mia vecchia stanza di quando ero ragazzo. Tutto è rimasto uguale: il letto rosso, il materasso rosso, le coperte e le lenzuola rosse, l’orologio rosso, la tv rossa, le finestre che danno sul fiume di sangue, che scorre lungo tutto il perimetro del palazzo reale.
Non solo la mia stanza. Anche Belandi è rimasto come l’avevo lasciato. Monocromatico e spietato.
«Dov’è mio padre? Ditemelo, per cortesia» chiedo d’un tratto.
«Gobibba non ha retto al dolore. Il suo unico figlio ed erede ridotto a maschera. A figurante teatrale.»
«No, madre. No, vi prego. Non può essere.»
Sento di non poter sopportare oltre e due lacrime rosse mi rigano le guance.
«Dov’è?» urlo e lei non rompe il silenzio. Si limita a indicarmi con il muso la Torre del Sacrificio, il simbolo del potere della mia famiglia.
Non mi serve altro.
Comincio a correre e salgo ogni scalino rosso con la consapevolezza che troverò un cadavere al mio arrivo.
Il cadavere di mio padre, re di Belandi.
«Divino Gobibba!»
Davanti a me c’è l’essere che mi ha generato. Ed è disteso sul pavimento rosso.
«Perché?» mi chiede, con la voce che è un sibilo appena percettibile.
«Padre!» urlo e gli metto una mano sul petto. Il suo cuore si sta fermando.
I suoi grandi occhi mi fissano. Esigono una spiegazione.
«Non volevo passare i miei giorni a sgozzare guerrieri e a tenere vivo il Fiume del Controllo con il loro sangue. Non ero pronto.»
«E ora?» si limita a chiedermi. A differenza della venerata madre, egli non mi giudica. Vuole solo assicurarsi che il corso del Fiume del Controllo rimanga abbondante, come fece suo padre Gibabbo prima di lui e suo nonno Gobabbi prima ancora. E tutti i nostri antenati da quando la nostra famiglia regna su Belandi.
«Ora sono pronto, padre» dico.
«Che entrino gli sfidanti!» urla con le ultime forze, quindi spira tra le mie braccia.
«Per Battenar!» strilla il mio primo avversario, con un grido di battaglia che onora il pianeta da cui proviene.
Io mi rendo conto di non averlo un grido di battaglia.
Poi l’illuminazione.
«Le veline!» urlo con quanto fiato ho in gola e gli strappo la testa dal resto del corpo, versando le sue interiora nel Fiume del Controllo.