[MI145] Doppi vetri e doppi specchi
Posted: Sun Feb 21, 2021 11:59 pm
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Traccia: il labirinto.
Lascia che inizi da una scena qualsiasi della sequenza. Ecco, ad esempio, da quello che ho adesso davanti agli occhi: la signora del palazzo di fronte stende i panni ad asciugare al sole. Io non ho un balcone con la giusta esposizione, tant’è che non è montato nemmeno il supporto per il filo stendi-biancheria. Ma lei sì, c’è l’ha. La sua storia, evidentemente, è diversa dalla mia.
Non ho mai visto suo marito stendere i panni. Al balcone si affaccia raramente. Hai voglia di discorsi sulla parità di genere, si vive ancora così… Magari lamentandosi, magari sbraitando verso lui, che rimane nascosto al mio sguardo, ma è sempre lei, la donna, a svolgere i servizi domestici, con un ordine che rasenta l’ossessione-compulsione. Prima le calze di lei – tre paia, color carne –, poi i calzini di lui, che a giudicare dalla quantità è uno che cambia spesso la biancheria: di capi stesi ad asciugare ne avrà il doppio di suo figlio, i cui calzini sono disposti in ultimo.
Lo vedi, quante differenze? I miei calzini, sullo stenditoio che lascio all’interno dell’appartamento, non sgomitano con quelli di nessun altro, per trovar posto. Così li metto alla rinfusa, almeno potranno contendersi lo spazio con le camicie e i pantaloni, darò loro la sensazione di non esser soli.
Sai cosa? Quando stende i panni, la vicina è talmente vicina che è come se stesse in camera mia. Ogni tanto, quando esco dalla doccia, dimentico di mettere i vestiti puliti a portata di mano. Così vado nudo all’armadio, dove potrebbero benissimo arrivare i suoi occhi. Lo faccio apposta. Chiaro che lo faccio apposta. Ma perché?, visto che, se davvero io lo volessi, potresti stendere tu lo sguardo sulle imperfezioni del mio corpo, perdonarle come può fare un prete in confessione, giusto tre avemaria e ogni bruttura è espiata…
Ho cucinato, ho ritirato le lenzuola che finalmente si sono asciugate, ho persino pulito il bagno con la candeggina. Mi sono lavato. Segnali che mi dicono che sto in piedi, nonostante tutto, anche se non ho rifatto il letto. Bisogna imparare a dirsi “bravo!” da sé, quando si vive soli. “Bravo, ti sei alimentato ancora una volta!”.
Questa cosa della didattica a distanza è insopportabile per me, che sono il vicino, figuriamoci per loro. Sono stato tentato a più riprese di intervenire, di dire alla mamma di lasciar perdere il bambino per un po’, di dargli respiro, che così è una tortura. Ma sarebbe la prima volta che ci parliamo. Perché non ci parliamo, in effetti? Perché mai? È un patto tacito: ci guardiamo ma non ci parliamo.
E con te, perché non ci parliamo?
Lo sai, può essere più semplice guardarsi allo specchio e dire al proprio riflesso: “così siamo noi due soli, vecchio mio. Ma ce la faremo, siamo due ragazzi in gamba”. Può essere più facile, ma è adesso che il sangue scorre nelle vene, e vengono le fitte alle viscere. Per essere soli, con le viscere al chiuso di un cassettone, c’è tutta una morte.
Poi va a finire che a furia di giocare a fare i profondi si scoperchiano le voragini vere. E allora mi sa che devo rifare il letto, perché affrontare le voragini rimanendo in un tale difetto può essere straziante.
Il marito compare sul balcone soltanto di domenica. Me ne accorgo solo adesso: a volte si hanno le cose davanti agli occhi e non ci si fa caso. Mi sorprende mentre fumo con ancora indosso i pantaloni del pigiama, sebbene sia mezzogiorno. La cosa mi mette a disagio, ma sia io che lui facciamo finta di niente. Mi saluta e attacca bottone. Mi chiede se i coinquilini sono via a causa delle restrizioni anti-covid. Scoppio a ridere e gli spiego che i due balconi affiancati appartengono a due appartamenti diversi, che non ho coinquilini.
Lui fa una faccia un po’ strana e si lascia sfuggire che, in effetti, sembro un po’ troppo anziano per essere uno studente fuorisede. E questo e poco ma sicuro. Poi aggiunge che magari siamo quasi coetanei, la qual cosa, invece, mi crea disappunto. No, penso di no, deve avere un bel po’ di anni più di me, almeno spero. Viene fuori che, in effetti, di anni in più di me ne ha solo tre, e questo mi butta giù. È così che appaio, un uomo fatto e maturo, come lui?
Evidentemente l’ho malgiudicato, non è questione di disparità di genere: lavora tutto il giorno tutti i giorni, tranne la domenica, mentre la moglie rimane a casa. Ovvio che sia lei a stendere i panni.
Spengo la sigaretta e rientro in casa. Gli sono grato per aver inserito una variante nelle tappe del mio gioco dell’oca. Nella camera da letto, generalmente, mi inceppo e mi rinceppo su questioni che riguardano te. Credo che la scelta della location non sia un caso. La cucina, invece, è il regno delle ipocondrie e dei tremori. Nel bagno penso alla vita passata fatta di giornate diseguali l’una dall’altra, e la cosa mi sembra un’invenzione di fantasia. Nello studiolo osservo la vicina stendere i panni, oppure, se non c’è, la immagino. O meglio, immagino di osservare me stesso attraverso il filtro dei suoi occhi. La domanda è fondamentalmente sempre la stessa: le sembro una persona normale o un derelitto? Questo accade tutti i giorni, tranne la domenica.
Il marito mi ha parlato come si fa con una persona normale. Questo devo ricordarmelo, e devo smetterla di stupirmene. Penso di scrivere un bigliettino a mo’ di promemoria e attaccarlo alla parete sopra la scrivania. Ma poi, per pigrizia, lascio perdere.
Non sto sempre in piedi, sai. Ieri sera, ad esempio, sono caduto e ho sbattuto la schiena sulla sedia dello studiolo. Il dolore l’ho percepito solo stamattina, perché l’alcol funge da analgesico, ma in fin dei conti la testa mi doleva anche di più.
Anche tu hai visto in me una persona normale. Dovrei smettere di stupirmi anche di questo. Sono pensieri da camera da letto, e infatti è un nuovo giorno, apro gli occhi e ti penso. La tua immagine riposa nella mia testa sul cuscino. Poi i tremori del caffè. Poi, nel bagno, la vita passata e i suoi spazi aperti. Poi lo studiolo. La vicina oggi compare alle 10.43.
Un altro nuovo giorno: mi alzo a fatica dal letto, pensandoti. Durante la colazione mi sento male. Nel bagno penso agli spazi aperti. La vicina quest’oggi mi aspetta già, oltre i doppi vetri, quando entro nello studiolo.
Ancora una sigaretta sul balcone. Talvolta mi ricordo di alzare gli occhi al cielo. E allora mi sembra di vederla, la curvatura del giorno, il punto in cui la cappa celeste si piega, si avvolge su se stessa. Quanto manca alla domenica? Da quant’è che il cielo si è curvato e i giorni si sono disposti in cerchio?
Quelli con te erano giorni in linea retta. In quei giorni la sequenza dei miei spostamenti da una stanza all’altra non era mai la stessa, e potevo pensare qualsiasi cosa in qualsiasi luogo. Poi mi sono incuneato nel labirinto.
Lo specchio mi rimanda un’immagine che non è la mia. Queste occhiaie, le rughe sulla fronte, i capelli che ingrigiscono, sono solo una parvenza.
So bene dov’è la porta di ingresso, ma non fa parte del mio circuito quotidiano, perché io non possa uscirne e tu non possa entrare. E così non mi resta che attendere che un giorno segua l’altro, parlando poco con il vicino, mai con la vicina, e non mostrandomi nemmeno al bambino, per timore di spaventarlo.
È ricomparso il marito. Dev’essere di nuovo domenica. Lui ha fatto un cenno con la mano, io ho ricambiato. Per uscir fuori a fumare ho aspettato che rientrasse. Oggi non mi va di parlare. Oggi penso a te. Oggi me la racconto per quella che è.
Ti credevo il Minotauro. Solo dopo ho compreso la vera natura della mia paura. Chi abita il labirinto non sei tu, e l’immagine riflessa dal mio specchio è una parvenza. Non sei il Minotauro, sei qualcosa di molto più spaventoso: sei tu stessa uno specchio che riflette la realtà delle cose. Capisci, dunque, perché non ti ho lasciato entrare. Non posso permettere che tu mostri a me stesso il mio volto, il pelo che lo ricopre, gli occhi vacui, le lunghe corna sopra le tempie; non posso lasciarti conficcare questa lama di Teseo nel petto.
Traccia: il labirinto.
Lascia che inizi da una scena qualsiasi della sequenza. Ecco, ad esempio, da quello che ho adesso davanti agli occhi: la signora del palazzo di fronte stende i panni ad asciugare al sole. Io non ho un balcone con la giusta esposizione, tant’è che non è montato nemmeno il supporto per il filo stendi-biancheria. Ma lei sì, c’è l’ha. La sua storia, evidentemente, è diversa dalla mia.
Non ho mai visto suo marito stendere i panni. Al balcone si affaccia raramente. Hai voglia di discorsi sulla parità di genere, si vive ancora così… Magari lamentandosi, magari sbraitando verso lui, che rimane nascosto al mio sguardo, ma è sempre lei, la donna, a svolgere i servizi domestici, con un ordine che rasenta l’ossessione-compulsione. Prima le calze di lei – tre paia, color carne –, poi i calzini di lui, che a giudicare dalla quantità è uno che cambia spesso la biancheria: di capi stesi ad asciugare ne avrà il doppio di suo figlio, i cui calzini sono disposti in ultimo.
Lo vedi, quante differenze? I miei calzini, sullo stenditoio che lascio all’interno dell’appartamento, non sgomitano con quelli di nessun altro, per trovar posto. Così li metto alla rinfusa, almeno potranno contendersi lo spazio con le camicie e i pantaloni, darò loro la sensazione di non esser soli.
Sai cosa? Quando stende i panni, la vicina è talmente vicina che è come se stesse in camera mia. Ogni tanto, quando esco dalla doccia, dimentico di mettere i vestiti puliti a portata di mano. Così vado nudo all’armadio, dove potrebbero benissimo arrivare i suoi occhi. Lo faccio apposta. Chiaro che lo faccio apposta. Ma perché?, visto che, se davvero io lo volessi, potresti stendere tu lo sguardo sulle imperfezioni del mio corpo, perdonarle come può fare un prete in confessione, giusto tre avemaria e ogni bruttura è espiata…
Ho cucinato, ho ritirato le lenzuola che finalmente si sono asciugate, ho persino pulito il bagno con la candeggina. Mi sono lavato. Segnali che mi dicono che sto in piedi, nonostante tutto, anche se non ho rifatto il letto. Bisogna imparare a dirsi “bravo!” da sé, quando si vive soli. “Bravo, ti sei alimentato ancora una volta!”.
Questa cosa della didattica a distanza è insopportabile per me, che sono il vicino, figuriamoci per loro. Sono stato tentato a più riprese di intervenire, di dire alla mamma di lasciar perdere il bambino per un po’, di dargli respiro, che così è una tortura. Ma sarebbe la prima volta che ci parliamo. Perché non ci parliamo, in effetti? Perché mai? È un patto tacito: ci guardiamo ma non ci parliamo.
E con te, perché non ci parliamo?
Lo sai, può essere più semplice guardarsi allo specchio e dire al proprio riflesso: “così siamo noi due soli, vecchio mio. Ma ce la faremo, siamo due ragazzi in gamba”. Può essere più facile, ma è adesso che il sangue scorre nelle vene, e vengono le fitte alle viscere. Per essere soli, con le viscere al chiuso di un cassettone, c’è tutta una morte.
Poi va a finire che a furia di giocare a fare i profondi si scoperchiano le voragini vere. E allora mi sa che devo rifare il letto, perché affrontare le voragini rimanendo in un tale difetto può essere straziante.
Il marito compare sul balcone soltanto di domenica. Me ne accorgo solo adesso: a volte si hanno le cose davanti agli occhi e non ci si fa caso. Mi sorprende mentre fumo con ancora indosso i pantaloni del pigiama, sebbene sia mezzogiorno. La cosa mi mette a disagio, ma sia io che lui facciamo finta di niente. Mi saluta e attacca bottone. Mi chiede se i coinquilini sono via a causa delle restrizioni anti-covid. Scoppio a ridere e gli spiego che i due balconi affiancati appartengono a due appartamenti diversi, che non ho coinquilini.
Lui fa una faccia un po’ strana e si lascia sfuggire che, in effetti, sembro un po’ troppo anziano per essere uno studente fuorisede. E questo e poco ma sicuro. Poi aggiunge che magari siamo quasi coetanei, la qual cosa, invece, mi crea disappunto. No, penso di no, deve avere un bel po’ di anni più di me, almeno spero. Viene fuori che, in effetti, di anni in più di me ne ha solo tre, e questo mi butta giù. È così che appaio, un uomo fatto e maturo, come lui?
Evidentemente l’ho malgiudicato, non è questione di disparità di genere: lavora tutto il giorno tutti i giorni, tranne la domenica, mentre la moglie rimane a casa. Ovvio che sia lei a stendere i panni.
Spengo la sigaretta e rientro in casa. Gli sono grato per aver inserito una variante nelle tappe del mio gioco dell’oca. Nella camera da letto, generalmente, mi inceppo e mi rinceppo su questioni che riguardano te. Credo che la scelta della location non sia un caso. La cucina, invece, è il regno delle ipocondrie e dei tremori. Nel bagno penso alla vita passata fatta di giornate diseguali l’una dall’altra, e la cosa mi sembra un’invenzione di fantasia. Nello studiolo osservo la vicina stendere i panni, oppure, se non c’è, la immagino. O meglio, immagino di osservare me stesso attraverso il filtro dei suoi occhi. La domanda è fondamentalmente sempre la stessa: le sembro una persona normale o un derelitto? Questo accade tutti i giorni, tranne la domenica.
Il marito mi ha parlato come si fa con una persona normale. Questo devo ricordarmelo, e devo smetterla di stupirmene. Penso di scrivere un bigliettino a mo’ di promemoria e attaccarlo alla parete sopra la scrivania. Ma poi, per pigrizia, lascio perdere.
Non sto sempre in piedi, sai. Ieri sera, ad esempio, sono caduto e ho sbattuto la schiena sulla sedia dello studiolo. Il dolore l’ho percepito solo stamattina, perché l’alcol funge da analgesico, ma in fin dei conti la testa mi doleva anche di più.
Anche tu hai visto in me una persona normale. Dovrei smettere di stupirmi anche di questo. Sono pensieri da camera da letto, e infatti è un nuovo giorno, apro gli occhi e ti penso. La tua immagine riposa nella mia testa sul cuscino. Poi i tremori del caffè. Poi, nel bagno, la vita passata e i suoi spazi aperti. Poi lo studiolo. La vicina oggi compare alle 10.43.
Un altro nuovo giorno: mi alzo a fatica dal letto, pensandoti. Durante la colazione mi sento male. Nel bagno penso agli spazi aperti. La vicina quest’oggi mi aspetta già, oltre i doppi vetri, quando entro nello studiolo.
Ancora una sigaretta sul balcone. Talvolta mi ricordo di alzare gli occhi al cielo. E allora mi sembra di vederla, la curvatura del giorno, il punto in cui la cappa celeste si piega, si avvolge su se stessa. Quanto manca alla domenica? Da quant’è che il cielo si è curvato e i giorni si sono disposti in cerchio?
Quelli con te erano giorni in linea retta. In quei giorni la sequenza dei miei spostamenti da una stanza all’altra non era mai la stessa, e potevo pensare qualsiasi cosa in qualsiasi luogo. Poi mi sono incuneato nel labirinto.
Lo specchio mi rimanda un’immagine che non è la mia. Queste occhiaie, le rughe sulla fronte, i capelli che ingrigiscono, sono solo una parvenza.
So bene dov’è la porta di ingresso, ma non fa parte del mio circuito quotidiano, perché io non possa uscirne e tu non possa entrare. E così non mi resta che attendere che un giorno segua l’altro, parlando poco con il vicino, mai con la vicina, e non mostrandomi nemmeno al bambino, per timore di spaventarlo.
È ricomparso il marito. Dev’essere di nuovo domenica. Lui ha fatto un cenno con la mano, io ho ricambiato. Per uscir fuori a fumare ho aspettato che rientrasse. Oggi non mi va di parlare. Oggi penso a te. Oggi me la racconto per quella che è.
Ti credevo il Minotauro. Solo dopo ho compreso la vera natura della mia paura. Chi abita il labirinto non sei tu, e l’immagine riflessa dal mio specchio è una parvenza. Non sei il Minotauro, sei qualcosa di molto più spaventoso: sei tu stessa uno specchio che riflette la realtà delle cose. Capisci, dunque, perché non ti ho lasciato entrare. Non posso permettere che tu mostri a me stesso il mio volto, il pelo che lo ricopre, gli occhi vacui, le lunghe corna sopra le tempie; non posso lasciarti conficcare questa lama di Teseo nel petto.