[MI187] Arlecchino
Posted: Thu May 29, 2025 11:40 pm
Traccia 2. "Incipit"
Quello che aveva davanti agli occhi non era logico, era senza senso... “Scarafaggi, scarafaggi!” continuava a gridare lo sconosciuto, storcendo i lineamenti del volto in maschere grottesche. “Vi schiaccerò tutti, insulsi scarafaggi!” Ripeteva quella parola ogni volta che apriva la grossa bocca dai denti storti e ingialliti, gli occhi spiritati che non si soffermavano mai su di un unico punto per più di pochi secondi. Era esageratamente alto per quella sua forma così striminzita, quasi fragile, gli abiti che in qualche modo sembravano sbagliati, ogni indumento di un colore diverso. Eppure nessuno osava fermarlo. La prima che ci aveva provato era stata anche l’ultima; e ora giaceva a terra, il volto una matassa indistinta di carne e sangue. Ogni tanto emetteva dei rantoli, simili a gorgoglii sommessi che uscivano a forma di piccole bolle d’aria da un’unica fessura, un tempo formata da naso e bocca. Non c’era più molto da fare, per lei. Qualcuno le si era persino avvicinando cercando di tastarle il polso, ma quello era balzato su di lui con movimenti da cavalletta imbizzarrita, colpendolo alla schiena. Il ragazzo era caduto disteso e l’altro aveva continuato a colpirlo, i colpi che riecheggiavano nella galleria, secchi come la legna che si spaccava, mentre il silenzio piombava sugli altri.
Da allora nessuno si era più mosso né un sussurro era sfuggito alle loro labbra; erano una decina, più o meno. Stranamente pochi ma, d’altronde, a quell’ora la stazione era quasi sempre un po' vuota. E l’arlecchino, dalla giacca rattoppata da losanghe multicolori continuava a sghignazzare, alzando goffamente le gambe ossute schiacciando insetti immaginari. Menò l’aria con il randello che teneva a due mani, una specie di bastone avvolto da filo spinato, il fruscio che ad ogni arco compiuto risuonava più sinistro. Eccolo che ricomincia, pensò, mentre quel folle si voltava, avanzando verso di lui; non lo perdeva di vista, lo sguardo fisso sui suoi colori sgargianti, evitando comunque di guardarlo negli occhi. Mi ammazza, mi ammazza si ripeteva questo qui mi ammazza sul serio! Ma non accadeva, appena pochi passi prima di raggiungerlo si voltava bruscamente, ricominciando il girotondo. Erano passati sì e no dieci minuti, eppure sentiva di essere intrappolato, di non avere via di scampo da quel gioco perverso, le nocche sbiancate delle dita tremanti che si aggrappavano con disperazione al sedile attaccato al muro. Le unghie affondarono nella vernice, staccandone alcuni pezzi; doveva agire, fare qualcosa; lui non ci voleva morire, lì.
Non aveva alcun piano né tantomeno una seppur vaga idea di che cosa stesse facendo; semplicemente, sopraffatto dalla paura, anzi, da un’emozione che assomigliava tanto al terrore, si scaraventò su quel pazzo, agguantando l’assurda giacca variopinta; si spinse su di lui con tutto il proprio peso e, cogliendolo alla sprovvista, lo trascinò con sé a terra. Il bastone gli cadde dalle mani e i due rotolarono verso i binari. Per un attimo, la vista gli si offuscò, avendo sbattuto la testa sul cemento; ma un fischio lo risvegliò dal torpore; il treno si stava avvicinando. Era finito sotto all’uomo, il volto dello sconosciuto un’informe macchia grigia. Tentò di toglierselo di dosso, di spingerlo di sotto, sulle rotaie, ma quegli resistette. Infine, lottando e scalciando, riuscì a sovvertire le loro posizioni. Fu allora che li sentì, come se qualcuno avesse riattivato i suoni premendo su di un interruttore invisibile; grida, pianti e lo sferragliare che si faceva sempre più forte, sempre più vicino. Qualcosa lo scuoteva, una forte vibrazione che sembrava provenire dall’interno gli risaliva lungo la schiena; di certo erano causate dal treno che si stava avvicinando. Con un ultimo strappo si liberò le mani; le dita cercarono quegli occhi stralunati, occhi da pazzo, occhi malvagi. Le palpebre dalle venature rossastre si chiusero per un attimo e i suoi polpastrelli si posarono su di esse – prima piano, poi premendo con sempre più forza. Un urlo, strozzato, gli sfuggì; ma si perse nel frastuono generale proprio quando le porte del treno iniziavano ad aprirsi.
Era ormai buio. La ressa serale si era dispersa e poche persone si ostinavano a percorrere le strade sotto la persistente, sebbene lieve pioggerella autunnale. Dalle case e i palazzi le finestre si accendevano assieme alle luci della città. Ben protetti da quelle mura, molti erano seduti nei loro salotti, gli occhi fissi sugli schermi. Una voce – seria – annunciava la prima notizia:
Fermato il folle che, stamattina, ha aggredito un passante, in preda a forti allucinazioni. La vittima, un signore di mezza età, è stata prontamente ricoverata al reparto di chirurgia intensiva. Sebbene l’operazione sia andata a buon fine, la prognosi rimane tuttora riservata.
Quello che aveva davanti agli occhi non era logico, era senza senso... “Scarafaggi, scarafaggi!” continuava a gridare lo sconosciuto, storcendo i lineamenti del volto in maschere grottesche. “Vi schiaccerò tutti, insulsi scarafaggi!” Ripeteva quella parola ogni volta che apriva la grossa bocca dai denti storti e ingialliti, gli occhi spiritati che non si soffermavano mai su di un unico punto per più di pochi secondi. Era esageratamente alto per quella sua forma così striminzita, quasi fragile, gli abiti che in qualche modo sembravano sbagliati, ogni indumento di un colore diverso. Eppure nessuno osava fermarlo. La prima che ci aveva provato era stata anche l’ultima; e ora giaceva a terra, il volto una matassa indistinta di carne e sangue. Ogni tanto emetteva dei rantoli, simili a gorgoglii sommessi che uscivano a forma di piccole bolle d’aria da un’unica fessura, un tempo formata da naso e bocca. Non c’era più molto da fare, per lei. Qualcuno le si era persino avvicinando cercando di tastarle il polso, ma quello era balzato su di lui con movimenti da cavalletta imbizzarrita, colpendolo alla schiena. Il ragazzo era caduto disteso e l’altro aveva continuato a colpirlo, i colpi che riecheggiavano nella galleria, secchi come la legna che si spaccava, mentre il silenzio piombava sugli altri.
Da allora nessuno si era più mosso né un sussurro era sfuggito alle loro labbra; erano una decina, più o meno. Stranamente pochi ma, d’altronde, a quell’ora la stazione era quasi sempre un po' vuota. E l’arlecchino, dalla giacca rattoppata da losanghe multicolori continuava a sghignazzare, alzando goffamente le gambe ossute schiacciando insetti immaginari. Menò l’aria con il randello che teneva a due mani, una specie di bastone avvolto da filo spinato, il fruscio che ad ogni arco compiuto risuonava più sinistro. Eccolo che ricomincia, pensò, mentre quel folle si voltava, avanzando verso di lui; non lo perdeva di vista, lo sguardo fisso sui suoi colori sgargianti, evitando comunque di guardarlo negli occhi. Mi ammazza, mi ammazza si ripeteva questo qui mi ammazza sul serio! Ma non accadeva, appena pochi passi prima di raggiungerlo si voltava bruscamente, ricominciando il girotondo. Erano passati sì e no dieci minuti, eppure sentiva di essere intrappolato, di non avere via di scampo da quel gioco perverso, le nocche sbiancate delle dita tremanti che si aggrappavano con disperazione al sedile attaccato al muro. Le unghie affondarono nella vernice, staccandone alcuni pezzi; doveva agire, fare qualcosa; lui non ci voleva morire, lì.
Non aveva alcun piano né tantomeno una seppur vaga idea di che cosa stesse facendo; semplicemente, sopraffatto dalla paura, anzi, da un’emozione che assomigliava tanto al terrore, si scaraventò su quel pazzo, agguantando l’assurda giacca variopinta; si spinse su di lui con tutto il proprio peso e, cogliendolo alla sprovvista, lo trascinò con sé a terra. Il bastone gli cadde dalle mani e i due rotolarono verso i binari. Per un attimo, la vista gli si offuscò, avendo sbattuto la testa sul cemento; ma un fischio lo risvegliò dal torpore; il treno si stava avvicinando. Era finito sotto all’uomo, il volto dello sconosciuto un’informe macchia grigia. Tentò di toglierselo di dosso, di spingerlo di sotto, sulle rotaie, ma quegli resistette. Infine, lottando e scalciando, riuscì a sovvertire le loro posizioni. Fu allora che li sentì, come se qualcuno avesse riattivato i suoni premendo su di un interruttore invisibile; grida, pianti e lo sferragliare che si faceva sempre più forte, sempre più vicino. Qualcosa lo scuoteva, una forte vibrazione che sembrava provenire dall’interno gli risaliva lungo la schiena; di certo erano causate dal treno che si stava avvicinando. Con un ultimo strappo si liberò le mani; le dita cercarono quegli occhi stralunati, occhi da pazzo, occhi malvagi. Le palpebre dalle venature rossastre si chiusero per un attimo e i suoi polpastrelli si posarono su di esse – prima piano, poi premendo con sempre più forza. Un urlo, strozzato, gli sfuggì; ma si perse nel frastuono generale proprio quando le porte del treno iniziavano ad aprirsi.
Era ormai buio. La ressa serale si era dispersa e poche persone si ostinavano a percorrere le strade sotto la persistente, sebbene lieve pioggerella autunnale. Dalle case e i palazzi le finestre si accendevano assieme alle luci della città. Ben protetti da quelle mura, molti erano seduti nei loro salotti, gli occhi fissi sugli schermi. Una voce – seria – annunciava la prima notizia:
Fermato il folle che, stamattina, ha aggredito un passante, in preda a forti allucinazioni. La vittima, un signore di mezza età, è stata prontamente ricoverata al reparto di chirurgia intensiva. Sebbene l’operazione sia andata a buon fine, la prognosi rimane tuttora riservata.