[MI 183] Naftalina
Posted: Tue Sep 24, 2024 5:34 pm
Traccia 3. - Il fratello
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Il poliziotto continua a urlarmi davanti al viso con fare minaccioso.
«Le ripeto che non capisco cosa mi sta chiedendo. Avete un interprete? Posso parlare in inglese,»
Per tutta risposta, l’uomo mi mostra delle manette: «A prisão te espera, senhor Da Silva.»
«Ma chi lo conosce questo Da Silva? Come glielo devo dire che mi chiamo Roberto Menchetti. Sono italiano. Vi ho dato i documentos… the passport…»
Un agente irrompe nella stanza: «Thiago Da Silva está morto.»
***
I ricordi sono una cosa strana, forse sono dovuti a un semplice fatto chimico, una reazione che s’innesca nel cervello quando i nostri sensi incontrano un certo odore, un sapore o magari la consistenza di un oggetto. È ciò che mi è capitato qualche giorno fa, davanti al solito cappuccino e brioche consumato nel bar di fronte alla scuola dove insegno.
«Professore, le spiace se mi siedo accanto a lei?»
La donna, prima che io abbia avuto il tempo di reagire, si è accomodata nella sedia accanto alla mia e mi ha sorriso.
Una signora giovane e molto carina. “Dev’essere la nuova insegnante d’italiano”, ho pensato; non l’avevo ancora vista, ma i miei colleghi me l’avevano descritta bene. A parte l’aspetto, mi ha colpito l’odore di naftalina dei suoi abiti: un odore antico, lo stesso che sentivo ogni volta che abbracciavo mia nonna; non era certo la fragranza adatta a una giovane. Il mio pensiero è corso subito a nonna Amelia, la mia alleata, la persona alla quale ho confidato i miei primi segreti… quanto sarebbe stata orgogliosa sentendomi chiamare “professore”; invece, lei non ha avuto neppure la soddisfazione di vedermi laureato.
La signorina ha abbassato lo sguardo e in quel momento mi sono reso conto di fissarla in modo sconveniente; per fortuna il suono di una notifica sullo smartphone mi ha tolto dall’imbarazzo.
Si trattava di un laconico messaggio di mio padre: “Ho trovato un acquirente per la casa della nonna”.
Stavo pensando ancora ad Amelia quando ho ricevuto il messaggio che parlava della sua casa… Se fossi uno che crede alle coincidenze, avrei anche potuto supporre che la nonna avesse trovato il modo di comunicarmi dall’aldilà qualcosa d’importante.
Comunque sia, coincidenza o no, per una volta ho dato retta all’istinto: l’odore di naftalina aveva appena attivato qualche interrutore nella mia memoria e dovevo capire il perché.
Così, ho chiesto un permesso al preside per assentarmi dalle lezioni. Mi sono detto che valeva la pena di vedere un’ultima volta la casa in cui ho trascorso le ore più belle della mia infanzia.
La ricordavo molto più grande, ma l’odore di fumo del camino incrostato nelle pareti era ancora lo stesso. Ho salito le scale di graniglia liscia e lucida che portano al piano superiore. In camera ho ritrovato il grande letto “a bandone” con piccoli intarsi di madreperla, il lavamano di smalto bianco e l’armadio che sa ancora di naftalina nonostante il tempo trascorso. Ho cercato dappertutto il portagioie della nonna, una scatola di legno che suonava “la vie en rose” quando si sollevava il coperchio. Mi sarebbe piaciuto tanto ritrovarlo, ma sopra i mobili c’era solo uno spesso strato polvere. Mi sono fatto coraggio (detesto ragni, topi e qualsiasi bestia immonda si annidi nell’oscurità) e sono salito in soffitta. Dall’abbaino filtrava poca luce, così mi sono aiutato con la torcia del cellulare. Rovistavo qua e là tra le cianfrusaglie, quando una cartellina mi è caduta sui piedi. Mi sono chinato per raccoglierla e mi sono accorto che cadendo si era aperta: il contenuto era sparso sul pavimento.
I fogli, datati 29 aprile 1971, si leggevano a malapena. Dovevano essere delle copie. I caratteri erano sbavati di sicuro per colpa dell’umidità e della carta carbone. L’intestazione della lettera però si leggeva bene: Lar Santo Antônio - Tupã, São Paolo.
Che cosa c’entrava mia nonna col Brasile?
Per quanto ne ho sempre saputo, il viaggio più lungo che abbia fatto è stato da Firenze a Cecina quando si è sposata. Ho raccolto le foto: c’ero io in tutte quante. In quella che stringevo tra le dita avrò avuto tredici o quattordici anni al massimo. Che strano, non ricordavo di portare i capelli così lunghi.
Mi sono avvicinato al lucernario per osservarla meglio ma, per quanto mi sia sforzato, non sono riuscito a riconoscere nemmeno la bicicletta che stavo mostrando con orgoglio. Eppure quel ragazzo ero io: capelli neri e ricci e lo stesso sguardo un po’ cupo che oggi incute timore nei miei alunni. Ne ho guardato un’altra; in quella stavo in piedi accanto a una suora... impossibile, mi sono detto. Sul retro della foto ho notato la presenza di un timbro scolorito dal quale sono riuscito solo a leggere Santo Antônio e un nome scritto a penna con una calligrafia d’altri tempi: Thiago. Nessuna data, nessun altro indizio. Ho iniziato a sudare nonostante l’umidità e gli spifferi. Con lo stomaco in subbuglio, ho preso la cartellina con tutto il contenuto e sono corso via. Le soluzioni erano due: o stavo diventando pazzo o mio padre avrebbe dovuto darmi delle spiegazioni.
Da quando è morta mia madre il nostro rapporto si è limitato a qualche messaggio col cellulare e rare visite per le feste comandate. Sapevo che da qualche tempo ha una nuova compagna, una certa Augusta, ma non l’avevo mai incontrata di persona.
Non abitano troppo distante da casa mia. Era già sera quando ho suonato il loro campanello.
La signora Augusta mi ha accolto con inatteso calore, mio padre si è alzato dalla poltrona, ha abbassato il volume della televisione e mi è venuto incontro: «Hai ricevuto il mio messaggio?» mi ha chiesto senza indugiare.
Avrà immaginato che mi sia presentato per reclamare la mia parte di eredità.
«Sì, per questo ho voluto rivedere la casa prima che tu la venda.»
Stavamo uno di fronte all’altro, come in un duello, ma senza armi. Augusta si è defilata dalla situazione con eleganza: «Che ne dite di un caffè?»
Mio padre ha annuito e, appena lei è uscita dalla sala, si è affrettato a chiudere la porta.
Sono partito subito all’attacco: «Papà, chi è Thiago?»
Per un istante che mi è parso durare un’eternità, ha soffermato lo sguardo sull’inserto che tenevo sotto il braccio. Ha vacillato, come se la mia domanda fosse l’ultima richiesta che si aspettava da me. Non ho potuto fare a meno di notare il tremore delle sue mani mentre cercava di riguadagnare la poltrona. «Siediti, per favore. Non è facile risponderti.»
«Eppure, ti ho fatto una domanda semplicissima, mi pare. Chi è Thiago? Perché il ragazzo di queste foto» le ho tirate fuori e gliele ho mostrate «non sono io, vero?»
Parlava a fatica come se le parole non trovassero la strada per uscire dalle labbra.
«Avrei dovuto bruciare tutto… Dove le hai trovate? A casa di Amelia?»
«Sì, erano in soffitta.»
«Non sapevo che tua nonna le avesse conservate.»
Mi sono seduto davanti a lui. In quel momento avrei avuto bisogno di bere qualcosa di forte. Altro che caffè.
«Tua madre ed io non potevamo avere figli ma, alla fine, siamo riusciti a ottenere la tua adozione. Ma le cose non sono andate del tutto come speravamo. Quando siamo arrivati all’istituto, le suore ci hanno detto che avevi un gemello, Thiago. Eravamo felicissimi e volevamo adottarvi entrambi, ma ci dissero che non era possibile. Non abbiamo potuto portarlo via con noi, ma abbiamo cercato di provvedere al suo mantenimento. Suor Irmã Dulce ci scriveva ogni tanto per chiederci di te e a volte allegava delle foto di Thiago.»
Stringo forte i braccioli della poltrona per evitare di reagire: «Perché tenermelo nascosto?»
«Tua madre e io abbiamo deciso di mantenere il segreto per il bene di entrambi. Eravate così piccoli. Non lo avreste mai dovuto sapere.»
In quel momento non riuscivo a chiedere altro, ma lui ha proseguito: «Se non potevamo farvi crescere insieme, perché farvi soffrire? Cosa avrebbe pensato Thiago? E tu? Che avresti pensato di noi?»
Scuoto la testa.
«Posso almeno sapere qual è il mio vero nome?»
***
Il poliziotto smette di urlarmi in faccia, estrae una foto segnaletica da un fascicolo sulla scrivania e me la porge.
«Desculpe, eu estava errado…você è o mesmo…» dice mentre lo sguardo passa ritmicamente dalla foto al mio volto.
Devo essere sbiancato perché il mio inquisitore si alza e mi offre un bicchiere d’acqua.
Non sono sicuro di sentirmi bene. Thiago Da Silva è la mia copia carbone.
La ricerca che ho iniziato solo pochi giorni fa sembra già finita. E non è certo il finale che speravo.
Il fratello che ho appena scoperto di avere, era un ricercato per traffico di stupefacenti, ed è rimasto ferito a morte durante uno scontro a fuoco con la polizia.
Era meglio se non lo avessi mai saputo, avevano ragione i miei, penso mentre mi reco all’obitorio.
Nella saletta d’attesa c’è odore di morte e di disinfettante. Dopo qualche minuto, la porta si apre con un cigolio sinistro. Il medico precede una donna in lacrime e un giovane dallo sguardo cupo. I nostri sguardi carichi d’interrogativi s’incrociano per istante. Il dottore riesce a evitare che la donna si accasci sul pavimento. Il ragazzo mi fissa incredulo.
Mi avvicino a loro cercando di racimolare le parole giuste da dire. Spero mi capiscano anche se non conoscono la mia lingua e io non so parlare la loro.
«Tranquilli» dico «mi chiamo Rafael e sono il fratello di Thiago… su hermano… brother…»
«Meu Tio?»
«Sì, sono tuo zio.»
Nonna Amelia, ovunque tu sia, il tuo messaggio al profumo di naftalina mi è arrivato forte e chiaro. Non permetterò che mio nipote segua le orme del padre.
Thiago, la tua compagna e tuo figlio avranno la famiglia e la vita che tu non hai potuto avere. Te lo prometto.
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Il poliziotto continua a urlarmi davanti al viso con fare minaccioso.
«Le ripeto che non capisco cosa mi sta chiedendo. Avete un interprete? Posso parlare in inglese,»
Per tutta risposta, l’uomo mi mostra delle manette: «A prisão te espera, senhor Da Silva.»
«Ma chi lo conosce questo Da Silva? Come glielo devo dire che mi chiamo Roberto Menchetti. Sono italiano. Vi ho dato i documentos… the passport…»
Un agente irrompe nella stanza: «Thiago Da Silva está morto.»
***
I ricordi sono una cosa strana, forse sono dovuti a un semplice fatto chimico, una reazione che s’innesca nel cervello quando i nostri sensi incontrano un certo odore, un sapore o magari la consistenza di un oggetto. È ciò che mi è capitato qualche giorno fa, davanti al solito cappuccino e brioche consumato nel bar di fronte alla scuola dove insegno.
«Professore, le spiace se mi siedo accanto a lei?»
La donna, prima che io abbia avuto il tempo di reagire, si è accomodata nella sedia accanto alla mia e mi ha sorriso.
Una signora giovane e molto carina. “Dev’essere la nuova insegnante d’italiano”, ho pensato; non l’avevo ancora vista, ma i miei colleghi me l’avevano descritta bene. A parte l’aspetto, mi ha colpito l’odore di naftalina dei suoi abiti: un odore antico, lo stesso che sentivo ogni volta che abbracciavo mia nonna; non era certo la fragranza adatta a una giovane. Il mio pensiero è corso subito a nonna Amelia, la mia alleata, la persona alla quale ho confidato i miei primi segreti… quanto sarebbe stata orgogliosa sentendomi chiamare “professore”; invece, lei non ha avuto neppure la soddisfazione di vedermi laureato.
La signorina ha abbassato lo sguardo e in quel momento mi sono reso conto di fissarla in modo sconveniente; per fortuna il suono di una notifica sullo smartphone mi ha tolto dall’imbarazzo.
Si trattava di un laconico messaggio di mio padre: “Ho trovato un acquirente per la casa della nonna”.
Stavo pensando ancora ad Amelia quando ho ricevuto il messaggio che parlava della sua casa… Se fossi uno che crede alle coincidenze, avrei anche potuto supporre che la nonna avesse trovato il modo di comunicarmi dall’aldilà qualcosa d’importante.
Comunque sia, coincidenza o no, per una volta ho dato retta all’istinto: l’odore di naftalina aveva appena attivato qualche interrutore nella mia memoria e dovevo capire il perché.
Così, ho chiesto un permesso al preside per assentarmi dalle lezioni. Mi sono detto che valeva la pena di vedere un’ultima volta la casa in cui ho trascorso le ore più belle della mia infanzia.
La ricordavo molto più grande, ma l’odore di fumo del camino incrostato nelle pareti era ancora lo stesso. Ho salito le scale di graniglia liscia e lucida che portano al piano superiore. In camera ho ritrovato il grande letto “a bandone” con piccoli intarsi di madreperla, il lavamano di smalto bianco e l’armadio che sa ancora di naftalina nonostante il tempo trascorso. Ho cercato dappertutto il portagioie della nonna, una scatola di legno che suonava “la vie en rose” quando si sollevava il coperchio. Mi sarebbe piaciuto tanto ritrovarlo, ma sopra i mobili c’era solo uno spesso strato polvere. Mi sono fatto coraggio (detesto ragni, topi e qualsiasi bestia immonda si annidi nell’oscurità) e sono salito in soffitta. Dall’abbaino filtrava poca luce, così mi sono aiutato con la torcia del cellulare. Rovistavo qua e là tra le cianfrusaglie, quando una cartellina mi è caduta sui piedi. Mi sono chinato per raccoglierla e mi sono accorto che cadendo si era aperta: il contenuto era sparso sul pavimento.
I fogli, datati 29 aprile 1971, si leggevano a malapena. Dovevano essere delle copie. I caratteri erano sbavati di sicuro per colpa dell’umidità e della carta carbone. L’intestazione della lettera però si leggeva bene: Lar Santo Antônio - Tupã, São Paolo.
Che cosa c’entrava mia nonna col Brasile?
Per quanto ne ho sempre saputo, il viaggio più lungo che abbia fatto è stato da Firenze a Cecina quando si è sposata. Ho raccolto le foto: c’ero io in tutte quante. In quella che stringevo tra le dita avrò avuto tredici o quattordici anni al massimo. Che strano, non ricordavo di portare i capelli così lunghi.
Mi sono avvicinato al lucernario per osservarla meglio ma, per quanto mi sia sforzato, non sono riuscito a riconoscere nemmeno la bicicletta che stavo mostrando con orgoglio. Eppure quel ragazzo ero io: capelli neri e ricci e lo stesso sguardo un po’ cupo che oggi incute timore nei miei alunni. Ne ho guardato un’altra; in quella stavo in piedi accanto a una suora... impossibile, mi sono detto. Sul retro della foto ho notato la presenza di un timbro scolorito dal quale sono riuscito solo a leggere Santo Antônio e un nome scritto a penna con una calligrafia d’altri tempi: Thiago. Nessuna data, nessun altro indizio. Ho iniziato a sudare nonostante l’umidità e gli spifferi. Con lo stomaco in subbuglio, ho preso la cartellina con tutto il contenuto e sono corso via. Le soluzioni erano due: o stavo diventando pazzo o mio padre avrebbe dovuto darmi delle spiegazioni.
Da quando è morta mia madre il nostro rapporto si è limitato a qualche messaggio col cellulare e rare visite per le feste comandate. Sapevo che da qualche tempo ha una nuova compagna, una certa Augusta, ma non l’avevo mai incontrata di persona.
Non abitano troppo distante da casa mia. Era già sera quando ho suonato il loro campanello.
La signora Augusta mi ha accolto con inatteso calore, mio padre si è alzato dalla poltrona, ha abbassato il volume della televisione e mi è venuto incontro: «Hai ricevuto il mio messaggio?» mi ha chiesto senza indugiare.
Avrà immaginato che mi sia presentato per reclamare la mia parte di eredità.
«Sì, per questo ho voluto rivedere la casa prima che tu la venda.»
Stavamo uno di fronte all’altro, come in un duello, ma senza armi. Augusta si è defilata dalla situazione con eleganza: «Che ne dite di un caffè?»
Mio padre ha annuito e, appena lei è uscita dalla sala, si è affrettato a chiudere la porta.
Sono partito subito all’attacco: «Papà, chi è Thiago?»
Per un istante che mi è parso durare un’eternità, ha soffermato lo sguardo sull’inserto che tenevo sotto il braccio. Ha vacillato, come se la mia domanda fosse l’ultima richiesta che si aspettava da me. Non ho potuto fare a meno di notare il tremore delle sue mani mentre cercava di riguadagnare la poltrona. «Siediti, per favore. Non è facile risponderti.»
«Eppure, ti ho fatto una domanda semplicissima, mi pare. Chi è Thiago? Perché il ragazzo di queste foto» le ho tirate fuori e gliele ho mostrate «non sono io, vero?»
Parlava a fatica come se le parole non trovassero la strada per uscire dalle labbra.
«Avrei dovuto bruciare tutto… Dove le hai trovate? A casa di Amelia?»
«Sì, erano in soffitta.»
«Non sapevo che tua nonna le avesse conservate.»
Mi sono seduto davanti a lui. In quel momento avrei avuto bisogno di bere qualcosa di forte. Altro che caffè.
«Tua madre ed io non potevamo avere figli ma, alla fine, siamo riusciti a ottenere la tua adozione. Ma le cose non sono andate del tutto come speravamo. Quando siamo arrivati all’istituto, le suore ci hanno detto che avevi un gemello, Thiago. Eravamo felicissimi e volevamo adottarvi entrambi, ma ci dissero che non era possibile. Non abbiamo potuto portarlo via con noi, ma abbiamo cercato di provvedere al suo mantenimento. Suor Irmã Dulce ci scriveva ogni tanto per chiederci di te e a volte allegava delle foto di Thiago.»
Stringo forte i braccioli della poltrona per evitare di reagire: «Perché tenermelo nascosto?»
«Tua madre e io abbiamo deciso di mantenere il segreto per il bene di entrambi. Eravate così piccoli. Non lo avreste mai dovuto sapere.»
In quel momento non riuscivo a chiedere altro, ma lui ha proseguito: «Se non potevamo farvi crescere insieme, perché farvi soffrire? Cosa avrebbe pensato Thiago? E tu? Che avresti pensato di noi?»
Scuoto la testa.
«Posso almeno sapere qual è il mio vero nome?»
***
Il poliziotto smette di urlarmi in faccia, estrae una foto segnaletica da un fascicolo sulla scrivania e me la porge.
«Desculpe, eu estava errado…você è o mesmo…» dice mentre lo sguardo passa ritmicamente dalla foto al mio volto.
Devo essere sbiancato perché il mio inquisitore si alza e mi offre un bicchiere d’acqua.
Non sono sicuro di sentirmi bene. Thiago Da Silva è la mia copia carbone.
La ricerca che ho iniziato solo pochi giorni fa sembra già finita. E non è certo il finale che speravo.
Il fratello che ho appena scoperto di avere, era un ricercato per traffico di stupefacenti, ed è rimasto ferito a morte durante uno scontro a fuoco con la polizia.
Era meglio se non lo avessi mai saputo, avevano ragione i miei, penso mentre mi reco all’obitorio.
Nella saletta d’attesa c’è odore di morte e di disinfettante. Dopo qualche minuto, la porta si apre con un cigolio sinistro. Il medico precede una donna in lacrime e un giovane dallo sguardo cupo. I nostri sguardi carichi d’interrogativi s’incrociano per istante. Il dottore riesce a evitare che la donna si accasci sul pavimento. Il ragazzo mi fissa incredulo.
Mi avvicino a loro cercando di racimolare le parole giuste da dire. Spero mi capiscano anche se non conoscono la mia lingua e io non so parlare la loro.
«Tranquilli» dico «mi chiamo Rafael e sono il fratello di Thiago… su hermano… brother…»
«Meu Tio?»
«Sì, sono tuo zio.»
Nonna Amelia, ovunque tu sia, il tuo messaggio al profumo di naftalina mi è arrivato forte e chiaro. Non permetterò che mio nipote segua le orme del padre.
Thiago, la tua compagna e tuo figlio avranno la famiglia e la vita che tu non hai potuto avere. Te lo prometto.