[CE24-2] Gioca jouer - Mario
Posted: Thu Aug 29, 2024 10:05 am
Gioca Jouer - Mario
Il tavolo sparpagliato di fogli, disegni di mare, enormi code che uscivano dall'acqua e sbuffi altissimi, come quelli delle fontane al centro delle piazze dei paesi. Le pareti non erano da meno: tappezzate di blu oltremare nel quale balene sinuose danzavano con i loro armonici movimenti.
La stanza sembrava immersa nel mare profondo, e lo era per Mario. Avrebbe voluto fare lo stesso con il soffitto ma ci voleva una scala e questo non era possibile.
“Perché non posso salire su una scala?” diceva Mario.
“Perché è pericoloso e potresti farti male” rispondeva Giulia.
“Allora cosa le hanno costruite a fare?”
Giulia rimase per un attimo in silenzio, poi riprese.
“Bisogna stare molto attenti. Per dipingere un soffitto ci vuole un imbianchino, abituato a questo genere di lavori.”
“Ma io non voglio dipingere un soffitto, voglio solo attaccarci i miei disegni.”
“È la stessa cosa.”
“Possiamo far venire un imbianchino?”
“Vedremo quando ce ne sarà uno disponibile.”
Il tempo passava e l'imbianchino non arrivava. Mario decise di attaccare tutti i suoi disegni al pavimento: “Basta immaginare di vedere il mondo a testa ingiù, le balene lo fanno e per me non è un problema” diceva fra sé.
Bisognava solo superare lo scoglio della donna delle pulizie.
Tutto era cominciato con Pinocchio. Quando gli avevano letto la storia rimase colpito dalla passionalità di suor Carlotta nel raccontare come il grande mostro aveva inghiottito Geppetto e il burattino, come se avessero avuto colpa per qualcosa. Non bastava l'orfanotrofio come luogo già abbastanza tetro e angusto. Ci si mettevano anche le sorelle, che allegre non dovevano essere state.
Man mano che cresceva, in Mario prendeva sempre più piede un pensiero: dare un po' di luce all'oscurità che si celava tra quelle spesse antiche pareti. Aveva l'impressione di essere egli stesso imprigionato nella bocca di una gigantesca balena. Era l'unico che non vedeva l'ora di uscirne, insieme al suo amico Giorgio.
Una notte sgattaiolarono nella lavanderia nel seminterrato e armati di alcuni fiammiferi diedero fuoco a quelle odiate divise che erano obbligati a indossare, alcune con ancora i segni di chi li aveva preceduti: iniziali, rammendi, toppe. Ognuna trasudava un vissuto, come i giochi che avevano ereditato di legno e metallo: sarebbero stati molto ambiti da un collezionista del settore. Sembrava che il tempo in quel posto si fosse fermato da molti anni.
Il fumo si diramò in un attimo e tutti vennero sputati fuori dalla bocca del gigantesco convento. Quel luogo che doveva cibarsi soprattutto di spirito, aveva preso da troppo tempo dei corpicini difficili da digerire.
I due ragazzi, per niente stupidi, avevano calcolato che nel seminterrato con soffitto di mattoni a volte non ci sarebbe stato materiale infiammabile, se non quei pochi stracci. I loro calcoli furono precisi, meno la loro sorte. Finirono in una casa con altri ragazzi, ma decisamente più confortevole del tetro orfanotrofio.
Poi la scoperta che non fu la balena a inghiottire Pinocchio ma un grande squalo, e il gigantesco cetaceo divenne il suo mito.
Trovava tanto buffo che si cibasse di esseri minuscoli come il plancton e piccoli gamberetti. Poi l'altra scoperta: non era un pesce.
Non dormì per due notti.
Nella casa nuova si trovava bene, aveva perso il suo amico Giorgio che fu adottato da alcuni parenti. Mario non sapeva il significato di quest'ultima parola.
Ogni tanto gli capitava di fare degli scherzetti che non sempre venivano presi con filosofia.
Una volta durante il pranzo lanciò una brocca di vetro con il suo contenuto di acqua contro il muro, per il solo desiderio di vedere di nascosto l'effetto che fa, come diceva una canzone, E l'effetto lo fece, alla luce del sole: schegge di vetro e acqua dappertutto. Una delle conseguenze più taglienti si manifestò su un suo compagno: aveva notato un fastidio, come un formicolio nella zona puberale. Quando provò a infilare una mano nelle mutande per capire, sentì una scheggia di vetro incastrata nella giovane peluria per poi vedere le dita macchiate di rosso.
Non era stato un bello spettacolo. La conseguenza per Mario fu una visita psichiatrica e delle brocche di plastica per tutti.
Per un po' la situazione rimase tranquilla e non ci furono altri episodi significativi da segnalare.
A Mario piaceva molto camminare, aveva un bel il fisico atletico. Un giorno, passeggiando per un parco cittadino insieme con la sua guardia del corpo Giulia, venne attirato da un particolare motivetto. Su un prato con una grossa cassa c'erano giovani e meno giovani che facevano strane movenze seguendo una voce che diceva altrettante strane parole con sotto una musica dance di altri tempi.
“Possiamo andare anche noi?”
“Ma, non so... forse è qualche corso privato.”
“Ti prego?”
“Va bene, andiamo.”
Non se lo fece ripetere che Mario si precipitò con gli altri imitando chi aveva attorno. Parole senza senso aleggiavano nell'etere: macho, sciare, autostop, spray, superman. Mario rideva come un matto , si divertiva e appena finita la canzone rimase molto deluso.
“La potete rimettere un'altra volta?”
“Mario, no, per favore. Scusate” intervenne Giulia.
“Non c'è nessun problema.” rispose il deejay.
Ripartì nuovamente Gioca jouer.
Rientrarono, poche volte gli era capitato di divertirsi. Ancora eccitato dall'esperienza mentre passavano di fianco a un fruttivendolo, prese delle arance e le scagliò sulle macchine di passaggio al grido di: lanciare! canticchiando il motivetto di Cecchetto.
Giulia, e non solo lei, rimase di stucco. Non aveva la forza, se non quella verbale, per tenere le redini di quel giovane fusto di sedici anni tutto nervi. Rientrarono come se nulla fosse successo, da parte di Mario. Decisero di affiancargli una figura maschile.
Si presentò Michele. Rimase letteralmente affascinato da quella miriade di disegni raffiguranti balene.
“Sono bellissimi!”
“Sai che può stare sott'acqua senza respirare per più di 30 minuti?”
“Caspita.”
“Alcune specie di capodoglio possono immergersi in profondità anche per più di due ore.”
“Oh, come sai tutte queste cose?”
“È il mio animale preferito.”
“Come mai hai messo tutti i disegni per terra?”
“Sto aspettando un imbianchino che me li attacchi sul soffitto con una scala.”
“Capisco. Mm... sai che forse potrebbe non volerci la scala?”
“Ah sì?”
“Certo. Fammi pensare...”
Michele si procurò un lungo bastone.
“Se noi fissiamo a una estremità una piccola tavola di legno, poi appoggiamo sulla tavola il disegno con un po' di colla sul retro, alziamo il bastone fino a far appiccicare il disegno al soffitto. Il gioco è fatto.”
“Wow! Ecco uno che se ne intende finalmente. Sei un imbianchino?”
“Mai fatto l'imbianchino” rispose ridendo Michele.
Dopo un breve consulto in equipe coi colleghi, procedettero con grande gioia di Mario.
“Un giorno potremmo fare una gita al mare” disse Michele.
Mario fece una pausa e poi riprese.
“Mare?”
“Certo. Il mare, cosa c'è di meglio per provare l'ebbrezza di nuotare come il tuo animale preferito?”
“Non sono mai stato al mare.”
Michele si bloccò come impietrito.
“Eh? Non hai mai visto i mare?”
“No.”
Storia tragica, anni bui, solo da poco si stava riaffacciando a scoprire il mondo o, per essere più precisi, quella microscopica parte di mondo che gli ruotava intorno. Il mare era ancora troppo lontano dall'alta Brianza in cui si trovava. Non avevano ancora avuto modo di pensarci.
Stabilirono una data e un piccolo gruppetto con cui andare in pulmino.
Michele era rimasto molto colpito e rattristato nel leggere la storia di Mario dalla sua cartella.
Trovato in un camion in una sorta di giaciglio insieme ad altri disperati al confine con la Slovenia. Nessuno era mai riuscito a risalire ai genitori. Lo avevano affidato alla sorte sperando in un futuro migliore.
Poi quel convento lontano dal mondo dove è facile dimenticarsi perfino della sua esistenza. Gli avevano dato il nome Mario perché era stato trovato il giorno di Ferragosto, in omaggio all'assunzione della vergine Maria. Ma più che elevazione sembrava sprofondato nell'abisso. Non riuscì a trovare ristoro tra quelle anguste mura, insieme ai suoi compagni di sventura. La scansione ritmata del tempo in cui la preghiera era il rituale ricorrente, la severità e il sacrificio non erano proprio le primarie aspirazioni per dei bambini privati dei loro affetti più cari. Episodi di rabbia non erano rari e gli capitava di spaccare a calci qualche arredo o di sbatterlo contro le spesse mura. Involontariamente un'anziana sorella era finita sulla traiettoria di una sedia volante e si era rotta un braccio. Arrivarono delle visite esterne di specialisti che valutarono che quello non era il luogo idoneo. Qualche goccia e pastiglia e la situazione proseguì così per molto tempo. Le liste di attesa erano lunghe, figurarsi l'attesa di chi non faceva parte di quelle liste.
Le priorità venivano assolte solo per i casi di gravità assoluta o di vita o di morte.
Ci pensò direttamente Mario con il rogo. Poi la fuga, gli scompensi, i traumi, vennero fuori preponderanti appena si affacciò alla possibilità di una vita normale, ancora da provare.
“Dai, vieni! L'acqua è calda, si sta benissimo” disse Michele incitando Mario fermo sulla riva, quasi intimorito da quello spazio infinito che vedeva per la prima volta dal vero.
Pucciò timidamente un piede ritraendolo subito. Intorno, qualche schizzo di altri ragazzi che giocavano a riva gli provocava dei brividi a contatto con la pelle sopra il bacino. Poi prese coraggio ed entrò con tutti e due i piedi. Non passò molto tempo per immergersi completamente. Oltre ad essere la prima volta in mare, era anche la prima volta che stava immerso in un liquido, se non si considerava quello amniotico. Poi, quasi fosse stato un pesce o un cetaceo nella vita precedente, nuotava con disinvoltura sott'acqua in apnea, facendo diversi metri prima di riemergere con lo stupore di tutti. Si tuffava con la bocca aperta e tornava a galla sputando acqua e tossendo: “Ma come fanno a mangiare il plancton?”
Il problema ora era farlo uscire.
Ma successe qualcosa. Fu destato da una musica. Attratto come Odisseo dal canto delle sirene. Uscì quasi di corsa per giungere in quell'angolo di spiaggia privata assiepato di gente che si muoveva.
Michele a rincorrerlo: “Fermo! Ma dove vai?”
Dormire, salutare, autostop, starnuto
camminare, nuotare, sciare, spray,
macho, clacson, campana, ok...
Mario non stava nella pelle, di nuovo quella canzone, ballava felice come un bambino, come se avesse dovuto recuperare tutti gli anni di spensieratezza perduta.
Michele invece rimase immobile, impietrito. Sudava, pallido, come se avesse avuto di fronte un mostro. Era terrorizzato. Si mise in disparte, non riusciva nemmeno a seguire Mario nelle sue evoluzioni. Sembrava che un macigno gli fosse caduto in testa.
Tutti hanno un passato che riemerge, piacevole o tragico, quando le coincidenze, per uno strano gioco del destino, si manifestano.
Michele aveva odiato con tutte le sue forze ed era disgustato nel più profondo da quella canzone che trovava di una stupidità assoluta.
Anni ottanta, prima liceo artistico, la hit spopolava in cima alle classifiche. Purtroppo la stupidità attecchisce maggiormente tra chi la mastica giornalmente, ma non era questo il problema.
Ragazzi codardi, sempre uniti fra loro, si divertivano a tormentarne uno più debole, solo. Torturarlo, seviziarlo in tutti i modi per gioco, per divertimento, come un essere inferiore, per lunghi mesi con quella stupida canzone come colonna sonora, e con altrettanta sadica stupidità ne avevano modificato il testo solo per infierire maggiormente.
Ricordava come fosse ieri le loro bocche bavose che scandivano:
Sputare, spintonare, schiaffo, scemo...
Fino al giorno in cui Michele, esasperato, non ne poté più: prese un pezzo di creta quasi secca dal laboratorio e lo scagliò con forza in faccia a quello che faceva finta di essere il capo, provocandogli quasi la perdita di un occhio.
L'episodio venne alla ribalta. Tutti quelli che erano a conoscenza della situazione da tempo, compresi i professori, era come se avessero avuto delle fette di prosciutto sugli occhi e dell'ovatta nelle orecchie.
Michele cambiò classe e sede e non seppe più nulla di quei farabutti, riemergeva saltuariamente solo il dolore del ricordo. Non era mai riuscito a dimenticarli.
Mario, vedendo Michele in quello stato, smise di ballare e si avvicinò. Gli appoggiò una mano sulla spalla: “Tutto bene amico?”
“Eh... sì, grazie Mario. Che ne dici se andiamo a prenderci un bel gelato?”
“Dico che la tua proposta mi piace.”
“E se un giorno andassimo a vedere un acquario?” chiese Michele
“Un acquario? Ci sono le balene?”
“No, non credo, ma puoi trovare dei delfini, forse anche le orche.”
“E come fanno a stare in delle vasche?”
Ci fu una pausa da parte di Michele. Poi quasi sottovoce come a sussurrare a sé stesso.
“Già, come fanno?”
Si sentì uno stupido. Come aveva potuto non pensare che Mario avrebbe manifestato un ripudio verso chiunque fosse stato rinchiuso in spazi angusti?
Allora gli balenò un'altra idea.
“E delle balene in mare aperto?”
“Stai scherzando?”
“No, ti piacerebbe?”
“Mi piacerebbe? Sarebbe la cosa più bella del mondo! Quando?”
“Ora mi informo. Avevo sentito parlare di un posto... vedo la disponibilità.”
Mario si lasciò sfuggire un abbraccio della durata di almeno un giro completo della lancetta dei secondi.
Arrivò il giorno. Salparono da Genova verso il cosiddetto Santuario dei cetacei, pronti per l'avventura insieme a un nutrito gruppo di visitatori. Solo l'emozione di stare in mezzo al mare lasciava Mario senza fiato. I primi a farsi vivi furono i delfini che con balzi uscivano dall'acqua alternandosi nella loro danza.
Poi una vibrazione del pelo dell'acqua lasciava presagire l'atteso evento. Una sagoma scura traspariva dal mare cristallino. Eccola: una enorme coda, come quella che aveva disegnato centinaia di volte, fuoriusciva dall'acqua per poi scomparire; finalmente emerse un gigantesco muso con tutto il corpo con attaccate le due piccole pinne. Michele riuscì a scattare una foto immortalando il cetaceo con la sagoma di profilo di Mario a prua. Per l'effetto prospettico, sembrava come se si stessero baciando.
Poi il ragazzo si avvicinò a Michele: “Posso farti una confidenza?”
“Certo, dimmi pure.”
“Avevi ragione.”
“Di cosa stai parlando?”
“A proposito di quella canzone, Gioca jouer: ricordo la tua faccia. Pensandoci bene fa schifo anche a me.”
Michele si lasciò andare a una risata liberatoria.
“Guarda la balenottera!” esclamò, attirando l'attenzione di Mario.
“C'è anche il suo piccolo che le sta nuotando a fianco” proseguì il ragazzo.
Poi uno sbuffo investì di acqua i due confondendo le lacrime che stavano versando.
Il tavolo sparpagliato di fogli, disegni di mare, enormi code che uscivano dall'acqua e sbuffi altissimi, come quelli delle fontane al centro delle piazze dei paesi. Le pareti non erano da meno: tappezzate di blu oltremare nel quale balene sinuose danzavano con i loro armonici movimenti.
La stanza sembrava immersa nel mare profondo, e lo era per Mario. Avrebbe voluto fare lo stesso con il soffitto ma ci voleva una scala e questo non era possibile.
“Perché non posso salire su una scala?” diceva Mario.
“Perché è pericoloso e potresti farti male” rispondeva Giulia.
“Allora cosa le hanno costruite a fare?”
Giulia rimase per un attimo in silenzio, poi riprese.
“Bisogna stare molto attenti. Per dipingere un soffitto ci vuole un imbianchino, abituato a questo genere di lavori.”
“Ma io non voglio dipingere un soffitto, voglio solo attaccarci i miei disegni.”
“È la stessa cosa.”
“Possiamo far venire un imbianchino?”
“Vedremo quando ce ne sarà uno disponibile.”
Il tempo passava e l'imbianchino non arrivava. Mario decise di attaccare tutti i suoi disegni al pavimento: “Basta immaginare di vedere il mondo a testa ingiù, le balene lo fanno e per me non è un problema” diceva fra sé.
Bisognava solo superare lo scoglio della donna delle pulizie.
Tutto era cominciato con Pinocchio. Quando gli avevano letto la storia rimase colpito dalla passionalità di suor Carlotta nel raccontare come il grande mostro aveva inghiottito Geppetto e il burattino, come se avessero avuto colpa per qualcosa. Non bastava l'orfanotrofio come luogo già abbastanza tetro e angusto. Ci si mettevano anche le sorelle, che allegre non dovevano essere state.
Man mano che cresceva, in Mario prendeva sempre più piede un pensiero: dare un po' di luce all'oscurità che si celava tra quelle spesse antiche pareti. Aveva l'impressione di essere egli stesso imprigionato nella bocca di una gigantesca balena. Era l'unico che non vedeva l'ora di uscirne, insieme al suo amico Giorgio.
Una notte sgattaiolarono nella lavanderia nel seminterrato e armati di alcuni fiammiferi diedero fuoco a quelle odiate divise che erano obbligati a indossare, alcune con ancora i segni di chi li aveva preceduti: iniziali, rammendi, toppe. Ognuna trasudava un vissuto, come i giochi che avevano ereditato di legno e metallo: sarebbero stati molto ambiti da un collezionista del settore. Sembrava che il tempo in quel posto si fosse fermato da molti anni.
Il fumo si diramò in un attimo e tutti vennero sputati fuori dalla bocca del gigantesco convento. Quel luogo che doveva cibarsi soprattutto di spirito, aveva preso da troppo tempo dei corpicini difficili da digerire.
I due ragazzi, per niente stupidi, avevano calcolato che nel seminterrato con soffitto di mattoni a volte non ci sarebbe stato materiale infiammabile, se non quei pochi stracci. I loro calcoli furono precisi, meno la loro sorte. Finirono in una casa con altri ragazzi, ma decisamente più confortevole del tetro orfanotrofio.
Poi la scoperta che non fu la balena a inghiottire Pinocchio ma un grande squalo, e il gigantesco cetaceo divenne il suo mito.
Trovava tanto buffo che si cibasse di esseri minuscoli come il plancton e piccoli gamberetti. Poi l'altra scoperta: non era un pesce.
Non dormì per due notti.
Nella casa nuova si trovava bene, aveva perso il suo amico Giorgio che fu adottato da alcuni parenti. Mario non sapeva il significato di quest'ultima parola.
Ogni tanto gli capitava di fare degli scherzetti che non sempre venivano presi con filosofia.
Una volta durante il pranzo lanciò una brocca di vetro con il suo contenuto di acqua contro il muro, per il solo desiderio di vedere di nascosto l'effetto che fa, come diceva una canzone, E l'effetto lo fece, alla luce del sole: schegge di vetro e acqua dappertutto. Una delle conseguenze più taglienti si manifestò su un suo compagno: aveva notato un fastidio, come un formicolio nella zona puberale. Quando provò a infilare una mano nelle mutande per capire, sentì una scheggia di vetro incastrata nella giovane peluria per poi vedere le dita macchiate di rosso.
Non era stato un bello spettacolo. La conseguenza per Mario fu una visita psichiatrica e delle brocche di plastica per tutti.
Per un po' la situazione rimase tranquilla e non ci furono altri episodi significativi da segnalare.
A Mario piaceva molto camminare, aveva un bel il fisico atletico. Un giorno, passeggiando per un parco cittadino insieme con la sua guardia del corpo Giulia, venne attirato da un particolare motivetto. Su un prato con una grossa cassa c'erano giovani e meno giovani che facevano strane movenze seguendo una voce che diceva altrettante strane parole con sotto una musica dance di altri tempi.
“Possiamo andare anche noi?”
“Ma, non so... forse è qualche corso privato.”
“Ti prego?”
“Va bene, andiamo.”
Non se lo fece ripetere che Mario si precipitò con gli altri imitando chi aveva attorno. Parole senza senso aleggiavano nell'etere: macho, sciare, autostop, spray, superman. Mario rideva come un matto , si divertiva e appena finita la canzone rimase molto deluso.
“La potete rimettere un'altra volta?”
“Mario, no, per favore. Scusate” intervenne Giulia.
“Non c'è nessun problema.” rispose il deejay.
Ripartì nuovamente Gioca jouer.
Rientrarono, poche volte gli era capitato di divertirsi. Ancora eccitato dall'esperienza mentre passavano di fianco a un fruttivendolo, prese delle arance e le scagliò sulle macchine di passaggio al grido di: lanciare! canticchiando il motivetto di Cecchetto.
Giulia, e non solo lei, rimase di stucco. Non aveva la forza, se non quella verbale, per tenere le redini di quel giovane fusto di sedici anni tutto nervi. Rientrarono come se nulla fosse successo, da parte di Mario. Decisero di affiancargli una figura maschile.
Si presentò Michele. Rimase letteralmente affascinato da quella miriade di disegni raffiguranti balene.
“Sono bellissimi!”
“Sai che può stare sott'acqua senza respirare per più di 30 minuti?”
“Caspita.”
“Alcune specie di capodoglio possono immergersi in profondità anche per più di due ore.”
“Oh, come sai tutte queste cose?”
“È il mio animale preferito.”
“Come mai hai messo tutti i disegni per terra?”
“Sto aspettando un imbianchino che me li attacchi sul soffitto con una scala.”
“Capisco. Mm... sai che forse potrebbe non volerci la scala?”
“Ah sì?”
“Certo. Fammi pensare...”
Michele si procurò un lungo bastone.
“Se noi fissiamo a una estremità una piccola tavola di legno, poi appoggiamo sulla tavola il disegno con un po' di colla sul retro, alziamo il bastone fino a far appiccicare il disegno al soffitto. Il gioco è fatto.”
“Wow! Ecco uno che se ne intende finalmente. Sei un imbianchino?”
“Mai fatto l'imbianchino” rispose ridendo Michele.
Dopo un breve consulto in equipe coi colleghi, procedettero con grande gioia di Mario.
“Un giorno potremmo fare una gita al mare” disse Michele.
Mario fece una pausa e poi riprese.
“Mare?”
“Certo. Il mare, cosa c'è di meglio per provare l'ebbrezza di nuotare come il tuo animale preferito?”
“Non sono mai stato al mare.”
Michele si bloccò come impietrito.
“Eh? Non hai mai visto i mare?”
“No.”
Storia tragica, anni bui, solo da poco si stava riaffacciando a scoprire il mondo o, per essere più precisi, quella microscopica parte di mondo che gli ruotava intorno. Il mare era ancora troppo lontano dall'alta Brianza in cui si trovava. Non avevano ancora avuto modo di pensarci.
Stabilirono una data e un piccolo gruppetto con cui andare in pulmino.
Michele era rimasto molto colpito e rattristato nel leggere la storia di Mario dalla sua cartella.
Trovato in un camion in una sorta di giaciglio insieme ad altri disperati al confine con la Slovenia. Nessuno era mai riuscito a risalire ai genitori. Lo avevano affidato alla sorte sperando in un futuro migliore.
Poi quel convento lontano dal mondo dove è facile dimenticarsi perfino della sua esistenza. Gli avevano dato il nome Mario perché era stato trovato il giorno di Ferragosto, in omaggio all'assunzione della vergine Maria. Ma più che elevazione sembrava sprofondato nell'abisso. Non riuscì a trovare ristoro tra quelle anguste mura, insieme ai suoi compagni di sventura. La scansione ritmata del tempo in cui la preghiera era il rituale ricorrente, la severità e il sacrificio non erano proprio le primarie aspirazioni per dei bambini privati dei loro affetti più cari. Episodi di rabbia non erano rari e gli capitava di spaccare a calci qualche arredo o di sbatterlo contro le spesse mura. Involontariamente un'anziana sorella era finita sulla traiettoria di una sedia volante e si era rotta un braccio. Arrivarono delle visite esterne di specialisti che valutarono che quello non era il luogo idoneo. Qualche goccia e pastiglia e la situazione proseguì così per molto tempo. Le liste di attesa erano lunghe, figurarsi l'attesa di chi non faceva parte di quelle liste.
Le priorità venivano assolte solo per i casi di gravità assoluta o di vita o di morte.
Ci pensò direttamente Mario con il rogo. Poi la fuga, gli scompensi, i traumi, vennero fuori preponderanti appena si affacciò alla possibilità di una vita normale, ancora da provare.
“Dai, vieni! L'acqua è calda, si sta benissimo” disse Michele incitando Mario fermo sulla riva, quasi intimorito da quello spazio infinito che vedeva per la prima volta dal vero.
Pucciò timidamente un piede ritraendolo subito. Intorno, qualche schizzo di altri ragazzi che giocavano a riva gli provocava dei brividi a contatto con la pelle sopra il bacino. Poi prese coraggio ed entrò con tutti e due i piedi. Non passò molto tempo per immergersi completamente. Oltre ad essere la prima volta in mare, era anche la prima volta che stava immerso in un liquido, se non si considerava quello amniotico. Poi, quasi fosse stato un pesce o un cetaceo nella vita precedente, nuotava con disinvoltura sott'acqua in apnea, facendo diversi metri prima di riemergere con lo stupore di tutti. Si tuffava con la bocca aperta e tornava a galla sputando acqua e tossendo: “Ma come fanno a mangiare il plancton?”
Il problema ora era farlo uscire.
Ma successe qualcosa. Fu destato da una musica. Attratto come Odisseo dal canto delle sirene. Uscì quasi di corsa per giungere in quell'angolo di spiaggia privata assiepato di gente che si muoveva.
Michele a rincorrerlo: “Fermo! Ma dove vai?”
Dormire, salutare, autostop, starnuto
camminare, nuotare, sciare, spray,
macho, clacson, campana, ok...
Mario non stava nella pelle, di nuovo quella canzone, ballava felice come un bambino, come se avesse dovuto recuperare tutti gli anni di spensieratezza perduta.
Michele invece rimase immobile, impietrito. Sudava, pallido, come se avesse avuto di fronte un mostro. Era terrorizzato. Si mise in disparte, non riusciva nemmeno a seguire Mario nelle sue evoluzioni. Sembrava che un macigno gli fosse caduto in testa.
Tutti hanno un passato che riemerge, piacevole o tragico, quando le coincidenze, per uno strano gioco del destino, si manifestano.
Michele aveva odiato con tutte le sue forze ed era disgustato nel più profondo da quella canzone che trovava di una stupidità assoluta.
Anni ottanta, prima liceo artistico, la hit spopolava in cima alle classifiche. Purtroppo la stupidità attecchisce maggiormente tra chi la mastica giornalmente, ma non era questo il problema.
Ragazzi codardi, sempre uniti fra loro, si divertivano a tormentarne uno più debole, solo. Torturarlo, seviziarlo in tutti i modi per gioco, per divertimento, come un essere inferiore, per lunghi mesi con quella stupida canzone come colonna sonora, e con altrettanta sadica stupidità ne avevano modificato il testo solo per infierire maggiormente.
Ricordava come fosse ieri le loro bocche bavose che scandivano:
Sputare, spintonare, schiaffo, scemo...
Fino al giorno in cui Michele, esasperato, non ne poté più: prese un pezzo di creta quasi secca dal laboratorio e lo scagliò con forza in faccia a quello che faceva finta di essere il capo, provocandogli quasi la perdita di un occhio.
L'episodio venne alla ribalta. Tutti quelli che erano a conoscenza della situazione da tempo, compresi i professori, era come se avessero avuto delle fette di prosciutto sugli occhi e dell'ovatta nelle orecchie.
Michele cambiò classe e sede e non seppe più nulla di quei farabutti, riemergeva saltuariamente solo il dolore del ricordo. Non era mai riuscito a dimenticarli.
Mario, vedendo Michele in quello stato, smise di ballare e si avvicinò. Gli appoggiò una mano sulla spalla: “Tutto bene amico?”
“Eh... sì, grazie Mario. Che ne dici se andiamo a prenderci un bel gelato?”
“Dico che la tua proposta mi piace.”
“E se un giorno andassimo a vedere un acquario?” chiese Michele
“Un acquario? Ci sono le balene?”
“No, non credo, ma puoi trovare dei delfini, forse anche le orche.”
“E come fanno a stare in delle vasche?”
Ci fu una pausa da parte di Michele. Poi quasi sottovoce come a sussurrare a sé stesso.
“Già, come fanno?”
Si sentì uno stupido. Come aveva potuto non pensare che Mario avrebbe manifestato un ripudio verso chiunque fosse stato rinchiuso in spazi angusti?
Allora gli balenò un'altra idea.
“E delle balene in mare aperto?”
“Stai scherzando?”
“No, ti piacerebbe?”
“Mi piacerebbe? Sarebbe la cosa più bella del mondo! Quando?”
“Ora mi informo. Avevo sentito parlare di un posto... vedo la disponibilità.”
Mario si lasciò sfuggire un abbraccio della durata di almeno un giro completo della lancetta dei secondi.
Arrivò il giorno. Salparono da Genova verso il cosiddetto Santuario dei cetacei, pronti per l'avventura insieme a un nutrito gruppo di visitatori. Solo l'emozione di stare in mezzo al mare lasciava Mario senza fiato. I primi a farsi vivi furono i delfini che con balzi uscivano dall'acqua alternandosi nella loro danza.
Poi una vibrazione del pelo dell'acqua lasciava presagire l'atteso evento. Una sagoma scura traspariva dal mare cristallino. Eccola: una enorme coda, come quella che aveva disegnato centinaia di volte, fuoriusciva dall'acqua per poi scomparire; finalmente emerse un gigantesco muso con tutto il corpo con attaccate le due piccole pinne. Michele riuscì a scattare una foto immortalando il cetaceo con la sagoma di profilo di Mario a prua. Per l'effetto prospettico, sembrava come se si stessero baciando.
Poi il ragazzo si avvicinò a Michele: “Posso farti una confidenza?”
“Certo, dimmi pure.”
“Avevi ragione.”
“Di cosa stai parlando?”
“A proposito di quella canzone, Gioca jouer: ricordo la tua faccia. Pensandoci bene fa schifo anche a me.”
Michele si lasciò andare a una risata liberatoria.
“Guarda la balenottera!” esclamò, attirando l'attenzione di Mario.
“C'è anche il suo piccolo che le sta nuotando a fianco” proseguì il ragazzo.
Poi uno sbuffo investì di acqua i due confondendo le lacrime che stavano versando.