[CDP1] La bambola gonfiabile assassina
Posted: Thu Apr 13, 2023 12:26 am
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Traccia n.1 - "Passaggio da persona libera a reclusa o viceversa"
Il primo suono che sentii fu una canzone. Il mio stupore era indescrivibile: era la prima volta che lasciavo il Mondo degli Spiriti e mi avventuravo sul pianeta Terra. Mai avevo posseduto dei sensi in grado di interagire con la realtà, in grado di vedere, di udire, di annusare: nel Mondo degli Spiriti non esiste neanche il tempo.
Entrai nella camera di Simone che delle casse di pessima qualità stavano mandando una canzone. Gli altri spiriti mi avevano raccontato cos’era la musica ma avevo solo potuto immaginarlo. Una chitarra minimale e una voce lagnante: Olivia, degli Harley Poe.
Il sole era appena tramontato fuori dalla finestra, le nuvole erano ancora tinte di rosso e viola. Scendeva la notte dell’equinozio di primavera e il velo tra i mondi era abbastanza sottile da permettermi di visitare il regno dei vivi. Ero stata attirata dal rituale di Simone. Avrei posseduto un oggetto inanimato e spaventato a morte qualche umano, per poi avere anche io qualcosa da raccontare nel Mondo degli Spiriti. Non sarebbe stato facile, però c’è una prima volta per tutto e suonava come un’idea divertente.
Ma la mia prima volta è stata un inferno. La camera di Simone era buia, sporca e disordinata. Il letto era disfatto, fumetti e fazzoletti erano sparsi ovunque. C’era odore di chiuso e di qualcosa che mi fece subito schifo. Sulle mensole, decine di action figures di personaggi anime con tette di fuori; sulle pareti, poster di personaggi armati di spade o pistole.
La luce, oltre che dal monitor del computer su cui lessi il nome della canzone, veniva anche da un televisore col volume al minimo, acceso su un vecchio film. Una ragazza in costume stava manovrando un motoscafo mentre teneva sollevata in aria un’ascia: I spit on your grave.
Simone era in mutande, inginocchiato su un cuscino di fronte a un grosso pentacolo di sangue. Si era già fasciato la mano con una garza e il coltello sporco era ancora sul pavimento. Al centro del pentacolo c’era una bambola gonfiabile. I lineamenti appena accennati, i capelli biondi disegnati in modo approssimativo, le labbra rosse aperte in maniera lasciva, le braccia piegate ad angolo retto, era un modello di pessima qualità.
«Ade Due Damballa!» Gridò Simone, le braccia sollevate, gli occhi chiusi. Recitò una formula in una lingua che non conoscevo. Quando terminò, nuvoloni neri e lampi si erano ammassati in cielo. Un fulmine azzurro si scaraventò contro la finestra; non la ruppe ma tutto quanto si spense e sulla stanza calò il buio e il silenzio mentre una macchia gialla si allargava sulle mutande di Simone.
«Simone? Che succede?» La voce di una donna oltre la porta.
«Niente», rispose, ancora sdraiato a terra, gli occhi sbarrati dal terrore.
«Va be’, comunque è pronta la cena».
«Arrivo, mamma, arrivo!» Si alzò in piedi, si tolse le mutande e recuperò un paio di pantaloni dalla pigna dei vestiti. Si fermò e mi rivolse uno sguardo deluso. Nessun movimento da me. Niente. «Stupida bambola», borbottò dandomi un calcio. Per la prima volta sentii dolore.
Aprì la porta e scese le scale. Sua madre: «Mio dio, che hai fatto alla mano?»
Rimasi sola nel silenzio della sua stanza. Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a parlare. Qualcosa era andato storto durante la possessione. Avrei dovuto abbandonare l’oggetto e ritentare ma, quando ci provai, non ci riuscii. Ero bloccata. Mi resi conto con terrore di non avere le energie per andarmene dalla bambola.
Quando Simone tornò in camera aveva lo sguardo nero. Eravamo soli e mi sentii d’improvviso in pericolo. Non c’era niente che potessi fare. Non un movimento, non un sospiro.
«Ti odio, Stefania, lo sai? Ti odio.» Mi fissava dritto negli occhi. Erano lucidi, i suoi, e arrossati. Riaccese la musica – Helena, dei Misfits –, si inginocchiò su di me e mi si avvicinò alla testa per sussurrarmi all’orecchio, anche se non ne avevo: «Quare id faciam fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.» Si abbassò i pantaloni, mostrandomi il suo membro eretto.
Scappare. Volevo scappare. Dovevo scappare! Ma le gambe non si muovevano, gli arti di plastica non rispondevano agli ordini, e il mio spirito era prigioniero della bambola. Com’era successo? Il piacere di Simone divenne per me un dolore indescrivibile, insopportabile, folle. Lui ansimava il suo alito odioso sulla mia faccia. Su, giù, il suo corpo di carne schiacciava il mio corpo finto. «Perché mi hai lasciato? Perché, Stefania?» Su, giù, mentre ripeteva il nome di quella che doveva essere stata la sua ex partner, su, giù.
Il supplizio giunse al termine, il suo liquido caldo fu spremuto dentro di me. Simone si accasciò sul pavimento, un braccio sotto al mio collo, e restò lì a fissare il soffitto buio, la pancia che si muoveva in alto e in basso.
«A... iu... to... Aiuto...» La mia voce flebile ruppe il silenzio.
Simone si girò verso di me, gli occhi sbarrati. Poi scoppiò a ridere. «Sei viva», ansimò. Aveva un sorriso sinistro e il suo membro era tornato eretto.
Cercai di alzarmi ma riuscii a muovere appena le braccia e la testa. Per qualche ragione dopo l’amplesso ero diventata d’improvviso un po’ più viva, ma ero debole, debolissima; movimenti minimi mi costavano una fatica infinita, e non riuscivo a dire più di due parole di seguito. Se avessi potuto avrei pianto, ma la condizione della mia prigionia non lo permetteva. «Ti prego, fermati...»
Furono giorni di incubo. L’odio crebbe dentro di me come un’energia tangibile. Peggiorò tutto quando Simone portò a casa quel suo amico, un religioso o qualcosa del genere. Dopo che si fu divertito con me ebbe l’idea di usarmi per fare soldi. Nacque un culto: la gente pagava per passare qualche ora con me e fare quello che voleva, fintantoché non danneggiasse il mio corpo, che comunque era reso in qualche modo più resistente per il fatto di essere posseduto. Io potevo solo muovermi lentamente, molto lentamente, e lamentarmi. Nessuno mi ascoltava. Ero la schiava sessuale perfetta: in grado di soffrire, ma non di reagire. Stefania, la bambola gonfiabile assassina, mi chiamavano.
Il culto stava portando un mucchio di soldi e i genitori di Simone ne furono contenti. Ogni tanto anche suo padre veniva a violentarmi. Non sapevo come abbandonare il corpo e la sete di vendetta crebbe senza limiti. A ogni orgasmo che loro avevano dentro di me, io acquisivo più potere, più capacità di movimento, più forza, per qualche magia il cui significato mi sfuggiva. Ma fui brava a non farlo notare e attesi il momento giusto. Recuperai un martello e lo nascosi.
Assieme ai soldi e al successo, tornò anche la vera Stefania e Simone la accolse a braccia aperte. Si era sparsa voce del miracolo che gli era successo e la ragazza fu lieta di approfittarne. Passò sopra persino al fatto che Simone mi avesse dato il suo stesso nome, tanto il denaro l’aveva resa indulgente. Era perversa quanto lui. Fu lei la prima che uccisi.
Organizzarono un rito che era perfetto per il mio piano. Si radunarono tutti gli alti sacerdoti del culto e ciascuno portò una bambola gonfiabile uguale a me ma priva di vita, nella speranza che il miracolo si ripetesse. Ma nessuno venne mai in mio soccorso dal Mondo degli Spiriti. Il rituale sarebbe durato tre notti e tre giorni. Io ero ferma, dignitosa nella mia sofferenza, e silenziosa, stanca di lamentarmi.
La prima notte, l’orgia fu collettiva. Io subii nutrendomi dell’ira che mi rese più forte.
La seconda notte, ciascun sacerdote avrebbe fatto sesso con me in privato, uno dopo l’altro. Giunse il turno di Stefania. Mentre usava un giocattolo doppio su me e lei, guardai con disgusto la sua espressione di piacere: quel giorno avrei ripreso la mia libertà. La spinsi via e mi alzai in piedi, forte. Fece appena in tempo a rivolgermi uno sguardo confuso e spaventato, che io presi il martello e la colpì in faccia. Il cranio si spaccò con facilità e il cervello fuoriuscì a sporcare i suoi bei capelli biondi. La spogliai del tutto e buttai il cadavere fuori dalla finestra.
Accesi la musica, l’unica cosa piacevole che il mondo degli umani mi aveva dato. Making of cyborg, di Kenji Kawai. Avrebbe coperto le grida. Non risparmiai nessuno. Uccisi i genitori di Simone, i genitori di Stefania, il sindaco della città: tutti gli alti sacerdoti; e li feci soffrire quanto avevano fatto soffrire me. Le urla di terrore furono inutili, la loro disperazione mi rinvigorì. Il mio corpo di plastica fu inondato di sangue, e dal bagno di morte io rinacqui.
Da ultimo uccisi Simone. Mi supplicò, come io tante volte avevo supplicato lui. Mi assicurai di ucciderlo con lentezza. Poi feci a pezzi tutte le altre bambole, rubai i soldi, indossai i vestiti di Stefania e scappai.
Ormai sono abbastanza forte per poter abbandonare il corpo e tornare puro spirito, come sono sempre stata. Ma non l’ho fatto. Non adesso, non ancora. Mi sto rifugiando, nascosta, in attesa. La mia pancia è gonfia e pesante. Nel mio grembo nuova vita aspetta di vedere la luce del mondo e diventarne il nuovo sovrano. Il seme di Simone vive ancora dentro di me, non posso tornare a casa ora. Una creatura di carne, plastica e spirito dovrà sorgere. Dove andrà, sarà solo lei a deciderlo. Il mondo è vasto e infinito.
Traccia n.1 - "Passaggio da persona libera a reclusa o viceversa"
Il primo suono che sentii fu una canzone. Il mio stupore era indescrivibile: era la prima volta che lasciavo il Mondo degli Spiriti e mi avventuravo sul pianeta Terra. Mai avevo posseduto dei sensi in grado di interagire con la realtà, in grado di vedere, di udire, di annusare: nel Mondo degli Spiriti non esiste neanche il tempo.
Entrai nella camera di Simone che delle casse di pessima qualità stavano mandando una canzone. Gli altri spiriti mi avevano raccontato cos’era la musica ma avevo solo potuto immaginarlo. Una chitarra minimale e una voce lagnante: Olivia, degli Harley Poe.
Il sole era appena tramontato fuori dalla finestra, le nuvole erano ancora tinte di rosso e viola. Scendeva la notte dell’equinozio di primavera e il velo tra i mondi era abbastanza sottile da permettermi di visitare il regno dei vivi. Ero stata attirata dal rituale di Simone. Avrei posseduto un oggetto inanimato e spaventato a morte qualche umano, per poi avere anche io qualcosa da raccontare nel Mondo degli Spiriti. Non sarebbe stato facile, però c’è una prima volta per tutto e suonava come un’idea divertente.
Ma la mia prima volta è stata un inferno. La camera di Simone era buia, sporca e disordinata. Il letto era disfatto, fumetti e fazzoletti erano sparsi ovunque. C’era odore di chiuso e di qualcosa che mi fece subito schifo. Sulle mensole, decine di action figures di personaggi anime con tette di fuori; sulle pareti, poster di personaggi armati di spade o pistole.
La luce, oltre che dal monitor del computer su cui lessi il nome della canzone, veniva anche da un televisore col volume al minimo, acceso su un vecchio film. Una ragazza in costume stava manovrando un motoscafo mentre teneva sollevata in aria un’ascia: I spit on your grave.
Simone era in mutande, inginocchiato su un cuscino di fronte a un grosso pentacolo di sangue. Si era già fasciato la mano con una garza e il coltello sporco era ancora sul pavimento. Al centro del pentacolo c’era una bambola gonfiabile. I lineamenti appena accennati, i capelli biondi disegnati in modo approssimativo, le labbra rosse aperte in maniera lasciva, le braccia piegate ad angolo retto, era un modello di pessima qualità.
«Ade Due Damballa!» Gridò Simone, le braccia sollevate, gli occhi chiusi. Recitò una formula in una lingua che non conoscevo. Quando terminò, nuvoloni neri e lampi si erano ammassati in cielo. Un fulmine azzurro si scaraventò contro la finestra; non la ruppe ma tutto quanto si spense e sulla stanza calò il buio e il silenzio mentre una macchia gialla si allargava sulle mutande di Simone.
«Simone? Che succede?» La voce di una donna oltre la porta.
«Niente», rispose, ancora sdraiato a terra, gli occhi sbarrati dal terrore.
«Va be’, comunque è pronta la cena».
«Arrivo, mamma, arrivo!» Si alzò in piedi, si tolse le mutande e recuperò un paio di pantaloni dalla pigna dei vestiti. Si fermò e mi rivolse uno sguardo deluso. Nessun movimento da me. Niente. «Stupida bambola», borbottò dandomi un calcio. Per la prima volta sentii dolore.
Aprì la porta e scese le scale. Sua madre: «Mio dio, che hai fatto alla mano?»
Rimasi sola nel silenzio della sua stanza. Non riuscivo a muovermi, non riuscivo a parlare. Qualcosa era andato storto durante la possessione. Avrei dovuto abbandonare l’oggetto e ritentare ma, quando ci provai, non ci riuscii. Ero bloccata. Mi resi conto con terrore di non avere le energie per andarmene dalla bambola.
Quando Simone tornò in camera aveva lo sguardo nero. Eravamo soli e mi sentii d’improvviso in pericolo. Non c’era niente che potessi fare. Non un movimento, non un sospiro.
«Ti odio, Stefania, lo sai? Ti odio.» Mi fissava dritto negli occhi. Erano lucidi, i suoi, e arrossati. Riaccese la musica – Helena, dei Misfits –, si inginocchiò su di me e mi si avvicinò alla testa per sussurrarmi all’orecchio, anche se non ne avevo: «Quare id faciam fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.» Si abbassò i pantaloni, mostrandomi il suo membro eretto.
Scappare. Volevo scappare. Dovevo scappare! Ma le gambe non si muovevano, gli arti di plastica non rispondevano agli ordini, e il mio spirito era prigioniero della bambola. Com’era successo? Il piacere di Simone divenne per me un dolore indescrivibile, insopportabile, folle. Lui ansimava il suo alito odioso sulla mia faccia. Su, giù, il suo corpo di carne schiacciava il mio corpo finto. «Perché mi hai lasciato? Perché, Stefania?» Su, giù, mentre ripeteva il nome di quella che doveva essere stata la sua ex partner, su, giù.
Il supplizio giunse al termine, il suo liquido caldo fu spremuto dentro di me. Simone si accasciò sul pavimento, un braccio sotto al mio collo, e restò lì a fissare il soffitto buio, la pancia che si muoveva in alto e in basso.
«A... iu... to... Aiuto...» La mia voce flebile ruppe il silenzio.
Simone si girò verso di me, gli occhi sbarrati. Poi scoppiò a ridere. «Sei viva», ansimò. Aveva un sorriso sinistro e il suo membro era tornato eretto.
Cercai di alzarmi ma riuscii a muovere appena le braccia e la testa. Per qualche ragione dopo l’amplesso ero diventata d’improvviso un po’ più viva, ma ero debole, debolissima; movimenti minimi mi costavano una fatica infinita, e non riuscivo a dire più di due parole di seguito. Se avessi potuto avrei pianto, ma la condizione della mia prigionia non lo permetteva. «Ti prego, fermati...»
Furono giorni di incubo. L’odio crebbe dentro di me come un’energia tangibile. Peggiorò tutto quando Simone portò a casa quel suo amico, un religioso o qualcosa del genere. Dopo che si fu divertito con me ebbe l’idea di usarmi per fare soldi. Nacque un culto: la gente pagava per passare qualche ora con me e fare quello che voleva, fintantoché non danneggiasse il mio corpo, che comunque era reso in qualche modo più resistente per il fatto di essere posseduto. Io potevo solo muovermi lentamente, molto lentamente, e lamentarmi. Nessuno mi ascoltava. Ero la schiava sessuale perfetta: in grado di soffrire, ma non di reagire. Stefania, la bambola gonfiabile assassina, mi chiamavano.
Il culto stava portando un mucchio di soldi e i genitori di Simone ne furono contenti. Ogni tanto anche suo padre veniva a violentarmi. Non sapevo come abbandonare il corpo e la sete di vendetta crebbe senza limiti. A ogni orgasmo che loro avevano dentro di me, io acquisivo più potere, più capacità di movimento, più forza, per qualche magia il cui significato mi sfuggiva. Ma fui brava a non farlo notare e attesi il momento giusto. Recuperai un martello e lo nascosi.
Assieme ai soldi e al successo, tornò anche la vera Stefania e Simone la accolse a braccia aperte. Si era sparsa voce del miracolo che gli era successo e la ragazza fu lieta di approfittarne. Passò sopra persino al fatto che Simone mi avesse dato il suo stesso nome, tanto il denaro l’aveva resa indulgente. Era perversa quanto lui. Fu lei la prima che uccisi.
Organizzarono un rito che era perfetto per il mio piano. Si radunarono tutti gli alti sacerdoti del culto e ciascuno portò una bambola gonfiabile uguale a me ma priva di vita, nella speranza che il miracolo si ripetesse. Ma nessuno venne mai in mio soccorso dal Mondo degli Spiriti. Il rituale sarebbe durato tre notti e tre giorni. Io ero ferma, dignitosa nella mia sofferenza, e silenziosa, stanca di lamentarmi.
La prima notte, l’orgia fu collettiva. Io subii nutrendomi dell’ira che mi rese più forte.
La seconda notte, ciascun sacerdote avrebbe fatto sesso con me in privato, uno dopo l’altro. Giunse il turno di Stefania. Mentre usava un giocattolo doppio su me e lei, guardai con disgusto la sua espressione di piacere: quel giorno avrei ripreso la mia libertà. La spinsi via e mi alzai in piedi, forte. Fece appena in tempo a rivolgermi uno sguardo confuso e spaventato, che io presi il martello e la colpì in faccia. Il cranio si spaccò con facilità e il cervello fuoriuscì a sporcare i suoi bei capelli biondi. La spogliai del tutto e buttai il cadavere fuori dalla finestra.
Accesi la musica, l’unica cosa piacevole che il mondo degli umani mi aveva dato. Making of cyborg, di Kenji Kawai. Avrebbe coperto le grida. Non risparmiai nessuno. Uccisi i genitori di Simone, i genitori di Stefania, il sindaco della città: tutti gli alti sacerdoti; e li feci soffrire quanto avevano fatto soffrire me. Le urla di terrore furono inutili, la loro disperazione mi rinvigorì. Il mio corpo di plastica fu inondato di sangue, e dal bagno di morte io rinacqui.
Da ultimo uccisi Simone. Mi supplicò, come io tante volte avevo supplicato lui. Mi assicurai di ucciderlo con lentezza. Poi feci a pezzi tutte le altre bambole, rubai i soldi, indossai i vestiti di Stefania e scappai.
Ormai sono abbastanza forte per poter abbandonare il corpo e tornare puro spirito, come sono sempre stata. Ma non l’ho fatto. Non adesso, non ancora. Mi sto rifugiando, nascosta, in attesa. La mia pancia è gonfia e pesante. Nel mio grembo nuova vita aspetta di vedere la luce del mondo e diventarne il nuovo sovrano. Il seme di Simone vive ancora dentro di me, non posso tornare a casa ora. Una creatura di carne, plastica e spirito dovrà sorgere. Dove andrà, sarà solo lei a deciderlo. Il mondo è vasto e infinito.