Mille rivoli di pioggia

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Mille rivoli di pioggia

A volte bastava un’allusione spinta, un doppio senso alla velocità della luce. Confusione che alimentava un non senso, parole bruciate alla nascita e un filo di voce per pronunciarle. Fino al tramonto. Era allora che Sara diventava di tutti.
Passione che intuiva se stessa aggrovigliandosi in mille rivoli di pioggia, quella che sbatte sulla lamiera provocando solo rumore.
Sara impegnava una sedia al Ministero in qualità di traduttrice. Durante il giorno poteva mostrare il suo corpo, nell’accezione più spinta del termine, sotto forma di collo o di caviglia. Le uniche parti, bianchissime, che dedicava ai suoi colleghi. Svolgeva le sue mansioni in maniera casta ed elegante alimentandosi del rispetto degli altri per una creatura tanto divina quanto impalpabile. Come se, negli anni, avesse ridotto la sfera di comunicabilità ai pochi centimetri di aria che la circondavano. Anzi, le avrebbe fatto orrore anche il solo toccare quelle particelle invisibili in modo consapevole.
Per tutta la vita era stata implacabile, risoluta, opposta, magnetica. Si era mossa tra il compiacimento dei benpensanti e il biasimo dei profittatori, porgendo l’altra guancia, se necessario, alle critiche pesanti e malsane di detrattori e gelosi di cui era circondata.
Le mattine d’inverno erano appena più luminose di quelle estive. Ma la trasformazione era solo apparente. Sapeva in cuor suo di appartenere alla nobile stirpe dei senza terra, di coloro i quali avevano sbagliato pianeta o epoca o entrambi.
Quindi la giovane impiegata recitava la parte ogni mattina, spinta da malevoli sussurri e sopportazione appena accennata.
Poi il lavoro finiva alle sei del pomeriggio.
Sara abitava un appartamento neutro, senza colori. Quelli esplodevano non appena restava sola davanti allo specchio, quello grande della stanza da letto che le offriva la visione migliore di tutto il corpo. Riusciva a togliere il vestito scuro con un sol gesto, facendolo scivolare improvvisamente dalle gambe fino a terra. E poi via il reggiseno con la stessa rapidità. Qui restava qualche minuto a contemplare le forme, il colore, la voglia che aveva di stringere i capezzoli a sangue affondando le unghie in quei palloncini gonfi pregni di tutto il rispetto degli uomini che la guardavano ogni giorno fantasticando sul suo corpo. Cominciava a toccarsi, ansimando, sudando. Poi scendeva con le mani sui fianchi e si sfilava le austere mutandine bianche lanciandole col piede fin sopra al letto. Un gesto di stizza verso qualcosa che non le apparteneva ma le serviva per la quotidiana messa in scena.
La trasformazione di Sara era quasi completa. Adesso era libera di accarezzarsi, ansimando come una scellerata. A volte riusciva a venire solamente guardando l’immagine riflessa nello specchio del suo corpo nudo. Altre aveva bisogno di assumere pose accattivanti, plastiche, come quella di schiudere appena le labbra mentre si toccava le gambe lisce piegandosi in avanti.
Tutto il necessario era un po' di trucco, i capelli sciolti e un vestitino corto e aderente che le copriva appena le parti intime.
E senza indossare altro fuggiva dall’appartamentino bianco per tuffarsi nella gioia dei colori della vita. L’esplosione continuava fino al solito locale per gente come lei. Quelli che scrivevano la loro esistenza cancellandosi dal libro dei vivi per poi incidere le proprie iniziali sulla lapide del vizio assurto a virtù.
Qui diceva di chiamarsi Sandra, e la conoscevano tutti. Giusto il tempo di ingoiare letteralmente un paio di super alcolici per svegliarsi del tutto e abbandonarsi nelle braccia di chiunque l’avesse guardata o rivolto la parola per un attimo. Poteva essere un giovane marito o un gruppo di amici giunti lì solo per bere. E invece si ritrovavano a letto con Sandra, nel separé del locale.
Ingorda ed affamata si faceva possedere in ogni senso, possibilmente in maniera brutale e smodata. Amava farsi picchiare durante l’amplesso e sperimentare posizioni nuove ed elaborate. Non sopportava le parole dolci, non voleva essere chiamata “tesoro” o “amore”. Sandra era solo la cagna di tutti e tale voleva sentirsi fino alla fine dei suoi giorni.
Una volta appagata, e c’erano giorni in cui andava avanti per delle ore, salutava tutti nel locale, compreso il proprietario sempre più soddisfatto dei guadagni che le fruttava quella strana donna vogliosa e implacabile che si donava a tutti per nulla.
Sara rientrava nel suo appartamento ormai sfinita e assonata. Il più delle volte andava a letto ancora vestita. L’indomani si svegliava di buonora, si vestiva di nuovo in maniera casta e rassegnata, raccoglieva i capelli corvini e si recava al Ministero pronta per un’altra giornata di lavoro attenta a non sprecare un solo secondo del poco tempo che il tumore al seno le avrebbe ancora concesso.

Re: Mille rivoli di pioggia

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Noto con molto piacere che quando non imbrigli le storie in una paratassi ingessata le storie che scrivi acquistano scioltezza e calore e la lettura diventa scorrevole. 
Il finale non me l'aspettavo: mi ha ricordato un po' la figura di Sabrina Ferilli in La grande bellezza, non so se lo hai visto. 
La smania di godere di ogni secondo prima della morte in un abbandono scevro da pudori è ben descritto da Tucidide nei capitoli dedicati alla peste di Atene, e tu qui sottolinei con attenzione la tragicità di una tale circostanza.
La prima parte del racconto è a mio avviso meno perspicua della seconda: spero di ritornare presto per un commento più puntuale. Ci tenevo però a farti sapere che ho molto gradito questo tua nuova modalità di scrivere, in cui, come accennavo sopra, la paratassi non è più protagonista assoluta. 
Ciao e grazie, @Atlab the Alchemist.
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Re: Mille rivoli di pioggia

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@Atlab the Alchemist ciao. Non ti faccio questo commento solo per postare ma perché mi fa anche piacere :D





Mille rivoli di pioggia

Ti confesso che questo incipit mi ha un po disorientato perché evoca la potenza dell'acqua che si forma attraverso mille gocce, mille rivoli, mille torrenti..
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A volte bastava un’allusione spinta, un doppio senso alla velocità della luce. Confusione che alimentava un non senso, parole bruciate alla nascita e un filo di voce per pronunciarle. Fino al tramonto. Era allora che Sara diventava di tutti.
Passione che intuiva se stessa aggrovigliandosi in mille rivoli di pioggia, quella che sbatte sulla lamiera provocando solo rumore.
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L'idea che mi ha preso inizialmente si confronta con un'altra di diversa natura: la donna. Trasmetti  enfasi e passione, elementi che sono attinenti all'universo femminile.
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Sara impegnava una sedia al Ministero in qualità di traduttrice. Durante il giorno poteva mostrare il suo corpo, nell’accezione più spinta del termine, sotto forma di collo o di caviglia. Le uniche parti, bianchissime, che dedicava ai suoi colleghi. Svolgeva le sue mansioni in maniera casta ed elegante alimentandosi del rispetto degli altri per una creatura tanto divina quanto impalpabile. 
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Qui spezzi il filo magico dell'atmosfera che avevi creato. Il descrivere è molto freddo e rompe il patos.
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Qui diceva di chiamarsi Sandra, e la conoscevano tutti. Giusto il tempo di ingoiare letteralmente un paio di super alcolici per svegliarsi del tutto e abbandonarsi nelle braccia di chiunque l’avesse guardata o rivolto la parola per un attimo. Poteva essere un giovane marito o un gruppo di amici giunti lì solo per bere. E invece si ritrovavano a letto con Sandra, nel separé del locale.
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Una donna dalla doppia vita. Come tante ne sono state rappresentate da tanti film o racconti. Questa donna mi suscita poco, devo dire la verità.
Troppo stereotipata e rilegata sui cliché a cui troppa letteratura di autori maschili hanno abusato e tratto le loro fonti di ispirazione. Certo. è una donna con una certa carica sensuale, ma la sua storia mi pare priva di un minimo di novità.
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e le fruttava quella strana donna vogliosa e implacabile che si donava a tutti per nulla.
Sara rientrava nel suo appartamento ormai sfinita e assonata. Il più delle volte andava a letto ancora vestita. L’indomani si svegliava di buonora, si vestiva di nuovo in maniera casta e rassegnata, raccoglieva i capelli corvini e si recava al Ministero pronta per un’altra giornata di lavoro attenta a non sprecare un solo secondo del poco tempo che il tumore al seno le avrebbe ancora concesso.
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Insomma, al posto di una robusta sbronza per dimenticare, una sbronza di sesso finché ci sarà vita. Io ritengo di dover dire due cose in linea di massima. La prima è che dal punto delle capacità di scrivere che hai, e che mi appaiono buone, pecchi di non ricercare, o di meditare, sulla base di ogni storia. La storia deve essere fondamentale, questa è la seconda, e non mi pare che sei riuscito a amalgamare bene il tuo personaggio al suo vissuto/storia. Direi che il racconto soffre quando diventa patetico, perché per trattare la sofferenza, o nel raccontarla, spesso ci si finisce dentro.
Io ti consiglierei, in via amichevole e nel massimo rispetto per le tue idee, ti scegliere accuratamente il protagonista e la sua storia, cercando di creare attorno a essi, novità e interesse, obbiettivo a cui noi tutti miriamo. Una bella scrittura deve essere impiegata bene. (y)
ciao a presto.
Tratti di pioggia sopra Auschwitz. Tra oblio e orgoglio

Re: Mille rivoli di pioggia

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Ciao @Atlab the Alchemist 

è la prima  volta che leggo qualcosa di tuo, mi pare che tu abbia una chiara passione per ila narrazione scritta, che non può che essere per noi tutti appassionati, un motivo di giubilo.

Mi permetto, pertanto di esporti alcune mie considerazioni, del tutto soggettive, che mi sono sorte nel leggere questo tuo racconto.

A volte bastava un’allusione spinta, un doppio senso alla velocità della luce. (Confusione che alimentava un non senso), parole bruciate alla nascita e un filo di voce per pronunciarle. Fino al tramonto. Era allora che Sara diventava di tutti.

Questo : “Confusione che alimentava un non senso” trovo che confonda il senso della frase: cioè non mi è chiaro in cosa la “confusione” interferisca con lo stato d’animo “pudibondo” in quei momenti della protagonista.
Trovo che eliminandola, quello che segue giustifichi  due opzioni: ovvero che le parole siano rivote a lei, sottovoce tra i colleghi maschi che si abbandonano a commenti a sfondo sessiata, oppure che il pudore della protagonista le possa ripetere solo con un filo di voce.
In ogni caso le due opzioni di senso mi paiono accettabili.

Passione che intuiva se stessa aggrovigliandosi in mille rivoli di pioggia, quella che sbatte sulla lamiera provocando solo rumore.

Qui non mi è chiaro se il soggetto sia la “passione” che intuisce qualcosa,
oppure se sia la protagonista a intuire la passione che la pervade.
Nel primo caso forse l’articolo “Una” anteposto a “Passione” lo chiarirebbe meglio.
Nel secondo invece inserendo “in": “Passione che intuiva (in)se stessa, chiarirebbe a chi attribuire la suddetta “passione”


Per tutta la vita era stata implacabile, risoluta, opposta, magnetica.

Fin qui ci hai descritto una figura di donna estremamente misurata, schiva dei rapporti umani e quindi dei colleghi di lavoro, rigida e retta nella sue azioni e nella sua professionalità.

Non trovi che quel magnetica, quindi attrattiva, coinvolgente, contraddisca ciò che prima gli hai attribuito, cioè essere: implacabile, risoluta, opposta?

Riusciva a togliere il vestito scuro con un sol gesto, facendolo scivolare improvvisamente dalle gambe fino a terra.

Perché improvvisamente?

Cosa ci può essere d’improvviso nella scena di una donna che si spoglia davanti a uno specchio, nella quiete della propria casa, senza che niente e nessuno gli causi fretta?
Al limite, come per il reggiseno parlerei di rapidità del gesto.

Quelli che scrivevano la loro esistenza cancellandosi dal libro dei vivi per poi incidere le proprie iniziali sulla lapide del vizio assurto a virtù.

Questo passo se mi permetti, mi appare un filo sospra le righe.
Un di più a quanto descritto prima, in qualche maniera c’è qualcosa di
agiografico, letterariamente anche arcaico nel senso di romanzo ottocentesco, dove si usavano apogei romantici, per descrivere i turbini delle passioni umane.
Credo che eliminando questo periodo, daresti maggiore concretezza e credibilità alla tua narrazione.

Qui diceva di chiamarsi Sandra, e la conoscevano tutti.

Ora se la conoscevano tutti, mi sorge il ragionevole dubbio che tra quei molti clienti di quel locale, prima o dopo ci potesse capitare anche qualcuno degli invisi colleghi di lavoro.
Questa sarebbe stata una grave evenienza, cha avrebbe potuto causare non pochi danni all’immagine e alla carriera professionale della protagonista.
Come è noto, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Ti dirò per esperienza personale che una volta con un collega, vedemmo uscire il direttore marketing della nosta azienda, da una di quelle sale
a luci rosse che intorno agli anni ‘90 pullulavano in ogni città.
Lui non si accorse d’essere stato veduto e noi non rivelammo mai quell’incontro sconveniente.
Ma non saprei se i colleghi di lavoro della tua protagonista, siano altrettanto discreti.
Meglio sarebbe stato che la tua eroina salisse in auto e andasse a esercitare i suoi eccessi in una città distante almeno un’ottantina di chilometri dal suo luogo di lavoro.

attenta a non sprecare un solo secondo del poco tempo che il tumore al seno le avrebbe ancora concesso.

Nel narrare una prossima e inevitabile fine tragica della tua protagonista, la scelta di questa patologia è la meno probabile.
Meno probabaile, perché un tumore al seno, oggi se preso in tempo, non ti conduce alla morte. Nel peggiore di casi comporta un’asportazione chirurgica della mammella e con opportune terapie chemio, in genere si salva la vita della paziente.
Se realmente la tua protagonista fosse affetta da tale problema, al punto di rischiare la vita, significherebbe che si sia accorta della sua malattia tardissimo e quindi le metastasi, sono estese e irreversibili a una cura.
Non di meno la cura sarebbe tentata ugualmente, e sarebbe tanto pesante e invasiva da togliergli ogni velleità erotica.
A mio parere sceglierei un diverso organo, dove il tumore possa generarsi in maniera subdola e silente, credndo le condizioni di inoperabilità del paziente, allo stesso tempo lasciandogli ancora qualche tempo di vita.

A esempio un cancro al cervello, che giustificherebbe anche gli eccessi vitalistici della protagonista.
A tal proposito ti invito a rvederti il film “Betty Blue” diretto da Jean-Jacques Beineix, che tratta appunto un tema analogo.

Attendo di leggerti in un nuovo racconto.

Un saluto e buon lavoro.

Re: Mille rivoli di pioggia

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@Atlab the Alchemist non ho mai letto un tuo testo quindi non posso fare confronti come ha fatto @Ippolita. Il racconto nel complesso mi è piaciuto anche se in alcuni punti e appunti sono d'accordo con @Nightafter. Circa la scelta della patologia, ad esempio, oppure sull'uso non proprio calzante della parola "improvvisamente", si potrebbe riflettere e riconsiderarli. La trama, in ogni caso, c'è e segue una buona tempistica. Mentre leggevo mi chiedevo: perché questa donna si comporta così? E la risposta è arrivata con l'ultima frase. Leggendo a ritroso acquista un maggiore significato "la sua voglia di stringere i capezzoli fino a farli sanguinare", e da qui diventa insostituibile la scelta della patologia, ma dovresti farcela digerire meglio, trovare una soluzione che motivi l'impossibilità ad accedere alle cure, magari per una scoperta tardiva. Quello che emerge in questa narrazione (e che mi piace molto) è il contrasto tra la ricerca di un piacere che sazi la donna di "vita" e una punizione che la stessa e per mano di molti uomini infligge al suo corpo (lasciandosi possedere "possibilemente in maniera brutale e smodata"), per averla tradita ammalandosi. Dal personaggio, lavoratrice impeccabile, potrebbe venire fuori la motivazione che per troppo zelo aveva trascurato ogni sintomo, mentre per insulso pudore non era avvezza a palparsi il seno (la sparo così, in modo da dare una vaga idea di come incastrare gli elementi per la costruzione). Andrebbe tutto centellinato e celato, ovviamente, così come hai fatto con il riferimento al seno rivelatosi elemento cardine a fine racconto. 
La tua scrittura è scorrevole, mi piace.

Ti rileggerò volentieri
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