Il mio ultimo paio di scarpe (Bob66 & Sira)
Posted: Sun Aug 07, 2022 12:04 am
https://www.costruttoridimondi.org/forum/viewtopic.php?f=9&p=39311#p39311
IL MIO ULTIMO PAIO DI SCARPE
Poesia scritta a quattro mani, le mie e quelle sicuramente più raffinate di Sira, che ringrazio di cuore per aver inizialmente messo in versi il testo in prosa da me postato in contest, e poi dedicato il suo tempo a rielaborarli insieme a me, in più riprese,
Pomeriggio d’estate, silenzioso e distopico,
quando la gente sparisce e la città rivive.
E io con lei.
Porto in giro sandali da pensionato
e pochi capelli bianchi, effimeri come
semi di tarassaco.
La città mi si offre nell’intimo,
in ogni sua singola vena e arteria.
Disponibile, languida, essenza di storia
e tempo, segreti per esuli in patria.
Qualcuno pronosticava che il peso
del tempo ci avrebbe schiacciato,
ma la verità è che invecchiando,
con filosofia, l'ego diventa più leggero,
quasi scompare.
Le ritrovo in cantina, per caso,
dietro una scatola di vecchi libri,
arroganti e tronfie, supponenti,
certe di rappresentare la sola
alternativa umana possibile.
Mi guardano con quel ghigno scollato,
aperto in punta, tra la tomaia e la suola,
vecchie carnefici delle mie dita che,
storte e deformi, ora si godono l’aria aperta
e gli anni che restano di vita, quella vera.
Quelle logore scarpe da lavoro
rivendicano invece una vita diversa:
fatica, sudore, sacrificio, dovere,
spacciati come qualcosa di sano, positivo,
atavicamente etico. Stronze!
Lo dicano alle schiene piegate, alle mani
di cuoio, ai polmoni intasati di calce,
cemento, e peggio.
Lo dicano alle mogli, stanche di veder
tornare i loro uomini sfiniti, ingrugnati.
Ai figli, che hanno scelto strade meno
faticose, moralmente discutibili.
Cosa potevamo pretendere, in fondo?
Lo dicano alla città e al territorio,
in sofferenza per la gloria del cemento,
dell’auto, della plastica:
brutta copia di un sogno americano
made in Italy.
Lo dicano al cielo e al mare,
saturi dei postumi delle nostre sbornie.
Quanto le ho odiate quelle scarpe,
ma anche accettate e subite,
persino amate. Bella contraddizione!
Non ho avuto il coraggio di buttarle allora,
e non ce l’ho neppure ora.
Si tengano, dunque, questo piccolo angolo
di cantina come un sepolcro in cui essere
dimenticate, abbandonate a quei sogni
che non mi appartengono più.
Libero.
IL MIO ULTIMO PAIO DI SCARPE
Poesia scritta a quattro mani, le mie e quelle sicuramente più raffinate di Sira, che ringrazio di cuore per aver inizialmente messo in versi il testo in prosa da me postato in contest, e poi dedicato il suo tempo a rielaborarli insieme a me, in più riprese,
Pomeriggio d’estate, silenzioso e distopico,
quando la gente sparisce e la città rivive.
E io con lei.
Porto in giro sandali da pensionato
e pochi capelli bianchi, effimeri come
semi di tarassaco.
La città mi si offre nell’intimo,
in ogni sua singola vena e arteria.
Disponibile, languida, essenza di storia
e tempo, segreti per esuli in patria.
Qualcuno pronosticava che il peso
del tempo ci avrebbe schiacciato,
ma la verità è che invecchiando,
con filosofia, l'ego diventa più leggero,
quasi scompare.
Le ritrovo in cantina, per caso,
dietro una scatola di vecchi libri,
arroganti e tronfie, supponenti,
certe di rappresentare la sola
alternativa umana possibile.
Mi guardano con quel ghigno scollato,
aperto in punta, tra la tomaia e la suola,
vecchie carnefici delle mie dita che,
storte e deformi, ora si godono l’aria aperta
e gli anni che restano di vita, quella vera.
Quelle logore scarpe da lavoro
rivendicano invece una vita diversa:
fatica, sudore, sacrificio, dovere,
spacciati come qualcosa di sano, positivo,
atavicamente etico. Stronze!
Lo dicano alle schiene piegate, alle mani
di cuoio, ai polmoni intasati di calce,
cemento, e peggio.
Lo dicano alle mogli, stanche di veder
tornare i loro uomini sfiniti, ingrugnati.
Ai figli, che hanno scelto strade meno
faticose, moralmente discutibili.
Cosa potevamo pretendere, in fondo?
Lo dicano alla città e al territorio,
in sofferenza per la gloria del cemento,
dell’auto, della plastica:
brutta copia di un sogno americano
made in Italy.
Lo dicano al cielo e al mare,
saturi dei postumi delle nostre sbornie.
Quanto le ho odiate quelle scarpe,
ma anche accettate e subite,
persino amate. Bella contraddizione!
Non ho avuto il coraggio di buttarle allora,
e non ce l’ho neppure ora.
Si tengano, dunque, questo piccolo angolo
di cantina come un sepolcro in cui essere
dimenticate, abbandonate a quei sogni
che non mi appartengono più.
Libero.