Adam e Chloe
Posted: Thu Sep 30, 2021 1:17 pm
Commento a "Haiku" di Almissima.
Adam e Chloe erano uccelli del paradiso.
Stavano in una gabbia di ferro battuto.
In un angolo, del giardino d’inverno,
dove mia madre traduceva.
Componevano ogni giorno le stesse figure.
Come fanno gli animali, per ricordarci
che Dio è un formalista. Le loro piume
erano di molti colori.
Mia madre traduceva dall’inglese,
a un piccolo tavolo, in giardino, senza mai
piegarsi sui libri. Indossava un pullover
sulle spalle. Beveva tè verde.
Di notte, nella mia mente, immagini artefatte
di campi assolati e giochi con bambini
che non conoscevo, né incontravo a scuola.
Nei miei sogni, Adam volava con Chloe.
Davo a lui e alla sua compagna semi
di girasole, e la sera aprivo la loro gabbia,
di nascosto, ma loro restavano sul
loro trespolo, muovendo il becco di profilo.
Volevo vedere gli uccelli del paradiso
volare contro il sole, e giocare con altri
bambini — ma anch’io leggevo,
quasi un libro ogni sera.
«Questa sera andiamo a teatro» annunciava
mia madre. «Lavati bene le orecchie.
Indossa il soprabito.» Io spazzolavo
i denti e mettevo la camicetta bianca.
Nel taxi, l’autista pakistano
parlava nervosamente della figlia.
«Cos’ha preso a studiare?»
«Scienze sociali. Pensa che per lei
sarà più difficile?»
«È difficile per tutti.»
La città sfrecciava al finestrino.
Mia madre guardava fuori.
Il flauto magico mi meravigliava e mi
faceva desiderare di giocare con Adam
e Chloe. Tornavo alla mia vita con nuovo incanto:
per il giardino, la gabbia di ferro e gli uccelli.
Sentivo che la magia si trova in ogni dove:
così, sotto le lenzuola, trafelato, ripensavo
alle immagini del teatro, e le confondevo
con le figure di mia madre, degli uccelli e le ombre del giardino.
Ogni esperienza è unica e, penso,
a suo modo preziosa: siamo noi che,
scegliendo di partecipare, creiamo il mondo.
Siamo l'avventore sotto la luce gialla del bar di periferia.
Siamo anche la persona che, di sera,
sul ciglio della strada, porta le buste
del super-market, per cenare da sola.
Siamo stati tutti quella persona,
che cammina fra i cerchi dei lampioni,
e s’interroga sul senso della vita
fra le ombre fatalistiche e le luci dell'illuminazione notturna.
Ognuno di noi ha tentato di toccare le stelle.
Dopo aver dato i semini agli uccelli
mia madre andava nello studio per tradurre.
Sul mio comodino campeggiava Balzac.
«Volgare, ma adatto a un tredicenne»
aveva sentenziato quando,
timoroso, ero tornato col bottino
dalla biblioteca pubblica, sperando
di far colpo su di lei.
Il signore curvo veniva a raccogliere le foglie,
in giardino, ogni settimana,
e puliva la gabbia degli uccelli.
Gli beccavano la mano ed erano felici.
Ho già detto che sognavo Adam.
Non ho mai detto che mi parlava.
Nei sogni, capivo ogni parola,
e mi sembravano tanto importanti.
Col nuovo giorno le dimenticavo.
Adam e Chloe erano uccelli del paradiso.
Stavano in una gabbia di ferro battuto.
In un angolo, del giardino d’inverno,
dove mia madre traduceva.
Componevano ogni giorno le stesse figure.
Come fanno gli animali, per ricordarci
che Dio è un formalista. Le loro piume
erano di molti colori.
Mia madre traduceva dall’inglese,
a un piccolo tavolo, in giardino, senza mai
piegarsi sui libri. Indossava un pullover
sulle spalle. Beveva tè verde.
Di notte, nella mia mente, immagini artefatte
di campi assolati e giochi con bambini
che non conoscevo, né incontravo a scuola.
Nei miei sogni, Adam volava con Chloe.
Davo a lui e alla sua compagna semi
di girasole, e la sera aprivo la loro gabbia,
di nascosto, ma loro restavano sul
loro trespolo, muovendo il becco di profilo.
Volevo vedere gli uccelli del paradiso
volare contro il sole, e giocare con altri
bambini — ma anch’io leggevo,
quasi un libro ogni sera.
«Questa sera andiamo a teatro» annunciava
mia madre. «Lavati bene le orecchie.
Indossa il soprabito.» Io spazzolavo
i denti e mettevo la camicetta bianca.
Nel taxi, l’autista pakistano
parlava nervosamente della figlia.
«Cos’ha preso a studiare?»
«Scienze sociali. Pensa che per lei
sarà più difficile?»
«È difficile per tutti.»
La città sfrecciava al finestrino.
Mia madre guardava fuori.
Il flauto magico mi meravigliava e mi
faceva desiderare di giocare con Adam
e Chloe. Tornavo alla mia vita con nuovo incanto:
per il giardino, la gabbia di ferro e gli uccelli.
Sentivo che la magia si trova in ogni dove:
così, sotto le lenzuola, trafelato, ripensavo
alle immagini del teatro, e le confondevo
con le figure di mia madre, degli uccelli e le ombre del giardino.
Ogni esperienza è unica e, penso,
a suo modo preziosa: siamo noi che,
scegliendo di partecipare, creiamo il mondo.
Siamo l'avventore sotto la luce gialla del bar di periferia.
Siamo anche la persona che, di sera,
sul ciglio della strada, porta le buste
del super-market, per cenare da sola.
Siamo stati tutti quella persona,
che cammina fra i cerchi dei lampioni,
e s’interroga sul senso della vita
fra le ombre fatalistiche e le luci dell'illuminazione notturna.
Ognuno di noi ha tentato di toccare le stelle.
Dopo aver dato i semini agli uccelli
mia madre andava nello studio per tradurre.
Sul mio comodino campeggiava Balzac.
«Volgare, ma adatto a un tredicenne»
aveva sentenziato quando,
timoroso, ero tornato col bottino
dalla biblioteca pubblica, sperando
di far colpo su di lei.
Il signore curvo veniva a raccogliere le foglie,
in giardino, ogni settimana,
e puliva la gabbia degli uccelli.
Gli beccavano la mano ed erano felici.
Ho già detto che sognavo Adam.
Non ho mai detto che mi parlava.
Nei sogni, capivo ogni parola,
e mi sembravano tanto importanti.
Col nuovo giorno le dimenticavo.