[Caronte] Non so scrivere con la luce accesa
Posted: Sat Jan 30, 2021 2:40 pm
Ho ancora le mani infradiciate. Pensavo di essermele asciugate sotto il velo dopo aver avvolto Ruth, adesso dovrò chiedere un altro foglio di pergamena alla mamma. Non sarà contenta.
«Scordatelo. Così va più che bene», dice.
«Ma l’ho bagnato tutto, l’inchiostro non terrà.» Lo sa, ma non le importa. Non si aspetta nulla: se fosse importato qualcosa avrebbe fatto lei stessa da shomeret.
«Sbrigati. Non vedi che arriva gente?»
Guardo fuori dalla finestra. Temevo l’avesse detto solo per spaventarmi, invece è vero: sta arrivando un mucchio di gente. Sono sul fondo della strada, mescolati al buio, ammassati perché non hanno neanche un mantello buono per l’inverno. Sembrano tanti topi. Sono ancora lontani però, potrei riuscire a scrivere qualche riga. Ma come? Non basterebbe una vita intera per parlare di Ruth.
Vorrei solo poter dimenticare l’ultima immagine che ho di noi due assieme: le gambe fredde, il corpo ingiallito. Lo friziono con calma, non fa il minimo movimento. E come potrebbe?
Ricordarla com’era prima della malattia, questo vorrei.
Ma non posso scriverlo.
Le persone vanno e vengono e io sono inchiodata qui. Non posso uscire, è uno dei miei obblighi. È già abbastanza raro che una donna si occupi di certe cose, e io sono una ragazzina. Figuriamoci se violassi i precetti della veglia: i vecchi si strozzerebbero nella foga di sputarmi addosso.
E poi che importa? Non c’è altro posto in cui vorrei essere. Ruth è stata con noi per tutta la vita, e so che anche lei non vorrebbe altro. Starcene in casa nostra da sole, senza nessuno a biasimarci in testa.
Sono arrivati con calma, uscendo di casa in silenzio, strisciando i piedi per non disturbare l’aria. Poi si sono riversati sull’uscio in tutta fretta, nell’oscurità, quasi avessero paura di farsi riconoscere. Sono entrati sbattendo le imposte, qualcuno senza neanche la kippah. Hanno afferrato una candela a testa e ribaltato il tavolino con su il baklava di Illa.
Non avrei dovuto, ma per fortuna ho tenuto da parte una candela da accendere quando se ne saranno andati.
Osservo la trama della carta. È spessa e con una fibra irregolare. Dev’essere pelle di capra. Non saprei trovare parole degne d’imbrattarla. Le fiammelle vibrano nell’aria e spandono ombre ingombranti sulla carta e su di me. Vorrei poter uscire dalla stanza, anche solo per prendere una boccata d’aria.
«Adah. Pss. Adah. Tieni, te ne ho preso un pezzetto.»
Illa mi ha portato un po’ di baklava che ha raccolto dopo aver riordinato il tavolino all’ingresso.
«Non posso mangiarlo, pulcina.» È vietato, finché sarò qui e l’anima di Ruth anche.
«Sì, puoi. Perché è caduto per terra.»
«Non conta, ma grazie per il pensiero. Magari poi.» Infilo il baklava nella sottoveste.
«Allora ti porto dell’acqua?»
So che dovrei prendermi cura di Illa, e sarà così. Da domani. Ma Illa resterà sempre quella delle due che vede per prima, e so che quando ne avrà bisogno lo capirò troppo tardi.
Cosa starà provando? Non si è ancora avvicinata a Ruth, ed è troppo bassa per vedere il corpo nella bara. Le assi sono l’insulto più grande: se Ruth potesse, ribalterebbe tutto. “Non c’è nulla che può contenermi!”, direbbe. E non c’è: nulla che possa reggerne la forza, l’energia, la voce. Almeno, non c’era.
«Tieni, sono andata fino al pozzo a prenderla. È fresca.»
«Non saresti dovuta uscire col buio, pulcina.» Mando giù bruciandomi la gola, ma è davvero fresca. Sento un po’ di polvere sollevarsi dagli occhi, la stanza diventare appena più leggera.
«La mamma dov’è?»
«In cucina che parla con qualcuno.»
«Ti va di farmi compagnia?»
«Sì. Cosa hai scritto?»
Osservo l’attaccatura dei capelli. È così piccola, senza un’idea del domani. Tento un sorriso.
«Niente. Non so scrivere con la luce accesa.»
Illa sospira. Profondamente. Come a voler spegnere tutte le candele in un colpo solo. Forse tra le due sono io, che non ho idea.
«Adah. Non avresti una candela per me? Vorrei accenderne una per Ruth ma sono finite.»
Sospiro. Tiro fuori la candela che avevo nascosto nella sottoveste e gliela passo.
«Accendila anche un po’ per me, d’accordo?»
Sulla carta c’è una piccola macchia d’inchiostro che prima non c’era, si è mescolata alle gocce d’acqua e si sta espandendo. Dev’essermi sfuggita dal pennino mentre parlavo con Illa. Adesso sembra un ragno. Avrei bisogno di una pergamena nuova; ricominciare da un foglio vuoto. Uno spazio vuoto.
Alzo la testa: i vecchi sono ancora qui. All’inizio ho tentato di distinguerne i volti per poterli riconoscere, ma scorgevo solo qualche brandello di pelle esposta alla luce fioca delle candele. Poi ho smesso di provarci: in fondo nessuno è davvero qui per Ruth. Nessuno c’è mai stato: non si sono visti quando papà ci ha abbandonate, quando la testa di mamma ha cominciato a prendere il largo o quando Ruth si è rotta il femore.
E adesso eccoli, senza sapere neanche il perché. Qualcuno addirittura fuma. Fantasmi, per quel che conta.
Poi i miei occhi si posano su una sagoma. Un uomo che attraversa il corridoio sul lato per andare dalla cucina alla porta d’ingresso. La figura è chiara, oltre il cerchio di luce formato dalle candele: è l’uomo che ha messo incinta mamma. Due volte. Ruth diceva che vive solo due, tre strade più in là e che mamma lo odia. Perché è venuto?
Illa dà le spalle a tutti e si limita a osservarsi nel grande specchio dell’armadio a muro. Fa qualche smorfia alla luce della candela e ride delle ombre sul riflesso.
«Illa,» le bisbiglio, «smettila. Vieni qui.»
«Che c’è?»
«Hai detto che la mamma prima parlava con qualcuno in cucina?»
«Sai che l’ho detto.»
A volte è così. Cinque minuti prima è la bambina più dolce del mondo, e cinque minuti dopo vorresti gettarla nel pozzo.
«E sai chi era?»
Pensa, arriccia il labbro superiore.
«No, adesso tocca a me. Una volta per una.»
«Illa, per favore, non è il momento di giocare. Sai chi era sì o no?»
«So cosa si sono detti con la mamma. Tu lo sai?»
Ci risiamo. «Sai che non lo so,» dico.
Il suo sguardo si illumina come stesse per raccontarmi la nuova barzelletta più bella. Sorride e parla in fretta.
«Che ti ha trovato un lavoro. Sì, giuro! E che andrai in casa di certa gente ricca. E a me che mi mandano a scuola oltre il mare. Il mare, Adah! Vedrò il mare, non sei felice?»
Non respiro. Anzi respiro troppo in fretta. Il petto va su e giù come le onde. Cosa ha detto? Casa nuova. Gente nuova. Illa oltre il mare.
Non trattengo le gambe. So che me ne pentirò, ma è già tardi: sguscio via tra i corpi imbalsamati, voglio arrivare in cucina. Non c’è tempo per pensare. Le conseguenze le pagherò poi. Devo trovare mamma. Devo parlarle. Devo —
«Dove cavolo vai?»
Mamma è nel corridoio con le braccia sui fianchi. L’ombra che produce mi copre dalla testa ai piedi.
«Lo sapevo. Ingrata.»
Le ombre girano in tondo sulle pareti, come un vortice. I vecchi osservano. Punto gli occhi sui piedi di mamma: non piangerò.
«Non avrei dovuto affidarti alcun compito. Non sei in grado di badare neanche a una morta.»
Vorrei dire qualcosa. Dovrei dire qualcosa. Non mangio nulla da due giorni, lo so che non è un ruolo adatto a una ragazzina. Di’ qualcosa, stupida!
«Ma — L’ombra della mia testa si fonde col vortice. Lo schiocco della guancia causa mormorii sommessi.
«Non provare a rispondere, sai? Torna subito a posto. Ne riparliamo a funzione terminata.»
Siedo con la pergamena davanti. Quando finirà tutto? Illa è in punta di piedi, sporge appena oltre il bordo del tavolino. Andremo via? Allora vorrei che questo momento non finisse mai.
Inspiro.
Appoggio il pennino sulla carta, ed è come se fossi aria. Aria che entra dalla finestra aperta. Un soffio di vita che spegne tutte le candele.
Tutte le lampade a olio lungo la strada.
Spegne le stelle.
Espiro.
Ora posso scrivere.
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Racconto traghettato
Commento
«Scordatelo. Così va più che bene», dice.
«Ma l’ho bagnato tutto, l’inchiostro non terrà.» Lo sa, ma non le importa. Non si aspetta nulla: se fosse importato qualcosa avrebbe fatto lei stessa da shomeret.
«Sbrigati. Non vedi che arriva gente?»
Guardo fuori dalla finestra. Temevo l’avesse detto solo per spaventarmi, invece è vero: sta arrivando un mucchio di gente. Sono sul fondo della strada, mescolati al buio, ammassati perché non hanno neanche un mantello buono per l’inverno. Sembrano tanti topi. Sono ancora lontani però, potrei riuscire a scrivere qualche riga. Ma come? Non basterebbe una vita intera per parlare di Ruth.
Vorrei solo poter dimenticare l’ultima immagine che ho di noi due assieme: le gambe fredde, il corpo ingiallito. Lo friziono con calma, non fa il minimo movimento. E come potrebbe?
Ricordarla com’era prima della malattia, questo vorrei.
Ma non posso scriverlo.
Le persone vanno e vengono e io sono inchiodata qui. Non posso uscire, è uno dei miei obblighi. È già abbastanza raro che una donna si occupi di certe cose, e io sono una ragazzina. Figuriamoci se violassi i precetti della veglia: i vecchi si strozzerebbero nella foga di sputarmi addosso.
E poi che importa? Non c’è altro posto in cui vorrei essere. Ruth è stata con noi per tutta la vita, e so che anche lei non vorrebbe altro. Starcene in casa nostra da sole, senza nessuno a biasimarci in testa.
Sono arrivati con calma, uscendo di casa in silenzio, strisciando i piedi per non disturbare l’aria. Poi si sono riversati sull’uscio in tutta fretta, nell’oscurità, quasi avessero paura di farsi riconoscere. Sono entrati sbattendo le imposte, qualcuno senza neanche la kippah. Hanno afferrato una candela a testa e ribaltato il tavolino con su il baklava di Illa.
Non avrei dovuto, ma per fortuna ho tenuto da parte una candela da accendere quando se ne saranno andati.
Osservo la trama della carta. È spessa e con una fibra irregolare. Dev’essere pelle di capra. Non saprei trovare parole degne d’imbrattarla. Le fiammelle vibrano nell’aria e spandono ombre ingombranti sulla carta e su di me. Vorrei poter uscire dalla stanza, anche solo per prendere una boccata d’aria.
«Adah. Pss. Adah. Tieni, te ne ho preso un pezzetto.»
Illa mi ha portato un po’ di baklava che ha raccolto dopo aver riordinato il tavolino all’ingresso.
«Non posso mangiarlo, pulcina.» È vietato, finché sarò qui e l’anima di Ruth anche.
«Sì, puoi. Perché è caduto per terra.»
«Non conta, ma grazie per il pensiero. Magari poi.» Infilo il baklava nella sottoveste.
«Allora ti porto dell’acqua?»
So che dovrei prendermi cura di Illa, e sarà così. Da domani. Ma Illa resterà sempre quella delle due che vede per prima, e so che quando ne avrà bisogno lo capirò troppo tardi.
Cosa starà provando? Non si è ancora avvicinata a Ruth, ed è troppo bassa per vedere il corpo nella bara. Le assi sono l’insulto più grande: se Ruth potesse, ribalterebbe tutto. “Non c’è nulla che può contenermi!”, direbbe. E non c’è: nulla che possa reggerne la forza, l’energia, la voce. Almeno, non c’era.
«Tieni, sono andata fino al pozzo a prenderla. È fresca.»
«Non saresti dovuta uscire col buio, pulcina.» Mando giù bruciandomi la gola, ma è davvero fresca. Sento un po’ di polvere sollevarsi dagli occhi, la stanza diventare appena più leggera.
«La mamma dov’è?»
«In cucina che parla con qualcuno.»
«Ti va di farmi compagnia?»
«Sì. Cosa hai scritto?»
Osservo l’attaccatura dei capelli. È così piccola, senza un’idea del domani. Tento un sorriso.
«Niente. Non so scrivere con la luce accesa.»
Illa sospira. Profondamente. Come a voler spegnere tutte le candele in un colpo solo. Forse tra le due sono io, che non ho idea.
«Adah. Non avresti una candela per me? Vorrei accenderne una per Ruth ma sono finite.»
Sospiro. Tiro fuori la candela che avevo nascosto nella sottoveste e gliela passo.
«Accendila anche un po’ per me, d’accordo?»
Sulla carta c’è una piccola macchia d’inchiostro che prima non c’era, si è mescolata alle gocce d’acqua e si sta espandendo. Dev’essermi sfuggita dal pennino mentre parlavo con Illa. Adesso sembra un ragno. Avrei bisogno di una pergamena nuova; ricominciare da un foglio vuoto. Uno spazio vuoto.
Alzo la testa: i vecchi sono ancora qui. All’inizio ho tentato di distinguerne i volti per poterli riconoscere, ma scorgevo solo qualche brandello di pelle esposta alla luce fioca delle candele. Poi ho smesso di provarci: in fondo nessuno è davvero qui per Ruth. Nessuno c’è mai stato: non si sono visti quando papà ci ha abbandonate, quando la testa di mamma ha cominciato a prendere il largo o quando Ruth si è rotta il femore.
E adesso eccoli, senza sapere neanche il perché. Qualcuno addirittura fuma. Fantasmi, per quel che conta.
Poi i miei occhi si posano su una sagoma. Un uomo che attraversa il corridoio sul lato per andare dalla cucina alla porta d’ingresso. La figura è chiara, oltre il cerchio di luce formato dalle candele: è l’uomo che ha messo incinta mamma. Due volte. Ruth diceva che vive solo due, tre strade più in là e che mamma lo odia. Perché è venuto?
Illa dà le spalle a tutti e si limita a osservarsi nel grande specchio dell’armadio a muro. Fa qualche smorfia alla luce della candela e ride delle ombre sul riflesso.
«Illa,» le bisbiglio, «smettila. Vieni qui.»
«Che c’è?»
«Hai detto che la mamma prima parlava con qualcuno in cucina?»
«Sai che l’ho detto.»
A volte è così. Cinque minuti prima è la bambina più dolce del mondo, e cinque minuti dopo vorresti gettarla nel pozzo.
«E sai chi era?»
Pensa, arriccia il labbro superiore.
«No, adesso tocca a me. Una volta per una.»
«Illa, per favore, non è il momento di giocare. Sai chi era sì o no?»
«So cosa si sono detti con la mamma. Tu lo sai?»
Ci risiamo. «Sai che non lo so,» dico.
Il suo sguardo si illumina come stesse per raccontarmi la nuova barzelletta più bella. Sorride e parla in fretta.
«Che ti ha trovato un lavoro. Sì, giuro! E che andrai in casa di certa gente ricca. E a me che mi mandano a scuola oltre il mare. Il mare, Adah! Vedrò il mare, non sei felice?»
Non respiro. Anzi respiro troppo in fretta. Il petto va su e giù come le onde. Cosa ha detto? Casa nuova. Gente nuova. Illa oltre il mare.
Non trattengo le gambe. So che me ne pentirò, ma è già tardi: sguscio via tra i corpi imbalsamati, voglio arrivare in cucina. Non c’è tempo per pensare. Le conseguenze le pagherò poi. Devo trovare mamma. Devo parlarle. Devo —
«Dove cavolo vai?»
Mamma è nel corridoio con le braccia sui fianchi. L’ombra che produce mi copre dalla testa ai piedi.
«Lo sapevo. Ingrata.»
Le ombre girano in tondo sulle pareti, come un vortice. I vecchi osservano. Punto gli occhi sui piedi di mamma: non piangerò.
«Non avrei dovuto affidarti alcun compito. Non sei in grado di badare neanche a una morta.»
Vorrei dire qualcosa. Dovrei dire qualcosa. Non mangio nulla da due giorni, lo so che non è un ruolo adatto a una ragazzina. Di’ qualcosa, stupida!
«Ma — L’ombra della mia testa si fonde col vortice. Lo schiocco della guancia causa mormorii sommessi.
«Non provare a rispondere, sai? Torna subito a posto. Ne riparliamo a funzione terminata.»
Siedo con la pergamena davanti. Quando finirà tutto? Illa è in punta di piedi, sporge appena oltre il bordo del tavolino. Andremo via? Allora vorrei che questo momento non finisse mai.
Inspiro.
Appoggio il pennino sulla carta, ed è come se fossi aria. Aria che entra dalla finestra aperta. Un soffio di vita che spegne tutte le candele.
Tutte le lampade a olio lungo la strada.
Spegne le stelle.
Espiro.
Ora posso scrivere.
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Racconto traghettato
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