[Caronte] Perdersi e ritrovarsi
Posted: Fri Jan 29, 2021 6:53 pm
racconto commentato: Fiaba russa
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racconto migrato: Quel giorno che persi il mio corpo
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«Non potresti fare più veloce?».
«Più di così non posso, dovresti mangiare di meno».
«Lo sai che non posso mettermi a dieta, non ci riesco, il terzo giorno vado fuori dai gangheri. E poi comunque non dipende da quello che mangio, ne abbiamo parlato tante volte».
«Allora goditi il paesaggio, arriviamo quando arriviamo».
Quando entrammo al Giardino dei Refusi, la festa era quasi finita, come volevasi dimostrare. Lui era troppo pesante, io correvo troppo veloce, cioè avrei voluto. Feci appena in tempo a prendere un bicchiere di prosecco al buffet prima che chiudesse, e mi stesi sull’erba, col respiro ancora arruffato. Spesso arrivavamo in ritardo, per questa mia ostinazione a non voler prendere atto della pesantezza del corpo. Lo spingevo sempre troppo come scendevamo in pista, così dovevamo fermarci dopo poco per fare rifornimento. Avevo cercato bacchette magiche per renderlo più leggero ma pareva non esistessero, almeno non in questo secolo materialista. Non erano bustine in vendita al supermercato o in farmacia che lo avrebbero ossigenato. O programmi matematici fatti tra le quattro mura super attrezzate di una palestra.
Era un fatto di memoria, lui filtrava troppo o troppo ci rimanevano impigliato. Avrei dovuto scuoterlo sotto una cannella gigante, una cascata, per liberarlo di tutto. Sì, liberarlo. Pensai mentre il sole tramontava dolcemente sulla festa che mi ero persa e mi addormentavo appoggiata a uno degli olivi del parco dei Refusi.
Andavamo spesso a ritemprarci alle Terme, a lui piaceva confondersi con quell’acqua dove poteva rilassarsi senza temere il saporaccio del sale. Fu lì che ci ritrovammo, nel giorno di chiusura, una pacchia, tutte le vasche per noi. Mai successo prima, sembrava di essere noi padroni di tutto, una sensazione così esaltante che fu come perdere dieci anni di incrostazioni. Restare in quel silenzio, esporsi a quella pace profonda sembrava ripulire le scorie di tutti i livelli.
Mi svegliai che era notte, con il parco illuminato dalla luna. Si era in estate e le cicale avevano organizzato il solito concerto serale, che iniziai ad ascoltare con gran piacere fino al momento in cui mi accorsi che lui non c’era. Mi aveva abbandonato. Il mio corpo era sparito.
Non potevo denunciarne la scomparsa, senza non esistevo.
Come avrei firmato i fogli del modulo di scomparsa? E se mi avessero accusata di averlo nascosto, rapito, o peggio, fatto fuori? È vero, avevamo avuto qualche incomprensione, ma niente di che in fondo. Era pur sempre il mio corpo. Eravamo fatti l’uno per l’altra.
Così mi mossi, e scoprii che potevo farlo anche senza di lui, anzi. Era più facile, andavo veloce. In un attimo schizzai oltre il cancello, bastò averlo pensato. Feci un folle zig zag per tutta la città nei posti più assurdi, in cima ai tetti e agli alberi, dentro a banche, negozi, librerie, un paio di allarmi super tecnologici scattarono e schizzai via, perché anche senza corpo ci sentivo benissimo e non ho mai sopportato i rumori troppo forti. Mi dispiacqui di non poter entrare dal Bagnai, che aveva una sterminata colonia di paste e salati di tutte le taglie e sfumature. Per una volta che mi sarei potuta servire a volontà, indisturbata, causando per di più lo sgomento alla riapertura, avevo le mani legate, se posso dire, per via dell’assenza del corpo. Mannaggia.
È proprio vero che chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane. Una volta avevo un corpo. Sarebbe stato il caso di ritrovarlo, magari. Cominciava a mancarmi.
Avrei potuto fare scherzi da manuale in quello stato, ma mi mancò lo spirito. Forse una parte era nel corpo, e ci avevo lasciato anche un intero portafoglio di documenti inespressi, tutti da recuperare. Porca miseria. Ma dove poteva essere?
Pensai di tornare alle Terme. Tanto col pensiero ci voleva un attimo e ormai la città l’avevo girata tutta. Di fare la provincia non ne avevo nessuna voglia. La conoscevo già, e poi magari, pensando piano, sarei riuscita a godermi il viaggio da lì alle Terme come un drone, rasente alla campagna, proprio ora che stava albeggiando.
Nonostante la poca esperienza ci riuscii quasi, ogni tanto perdevo interi pezzi di strada, ma potei sorvolare a bassa quota alcuni tratti di colline, veder accendersi le luci delle fattorie, e nei paesi quelle delle case di chi si alzava col sole per andare al lavoro. Senza contare la luce primaria, che sorgendo sembrava dirmi: " Forza, vai avanti. Vedrai che lo ritrovi.“
Finalmente arrivai alle Terme, la luce del giorno stava prendendo il suo posto quando entrai senza fare alcun biglietto. Che soddisfazione, che libertà. Tutto era come l’avevo lasciato in sogno nel pomeriggio, assolutamente deserto, solo un po’ scuro. Mi guardai intorno, non c’erano luci, ma l’acqua era ancora illuminata dalla notte appena trascorsa. Davvero uno spettacolo. Lui era ancora là. Sotto la cascatella. Immobile e appena sorridente. Sembrava sognare. Mi avvicinai. Non ero poi così male. Ci rientrai. Lo sentii che mi accoglieva, e prima ancora me che ci scivolavo. Poi una sensazione unica. Scattai in avanti con un’energia mai avuta prima.
Ne ero sicura, lui aveva perso tutto quello che finora lo aveva appesantito, quello che avevamo accumulato insieme e con me che dicevo “corri di qua vai di là”, non poteva smaltire. Ma, lasciandolo in pace per mezza giornata, aveva fatto miracoli. Vicino trovai i miei vestiti, era stato un sogno ordinato. Corsi alla porta. Ora avrei dovuto aspettare che venissero ad aprirmi, oppure nascondermi e uscire senza dare nell’occhio. Poi c’era da tornare a casa, senza più voli raso terra. Ci sarebbe voluto più tempo. Ma dopotutto chi se ne importava, vero?
«Vero, chi se ne importa. Poi mi racconti cosa hai fatto mentre dormivo».
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racconto migrato: Quel giorno che persi il mio corpo
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«Non potresti fare più veloce?».
«Più di così non posso, dovresti mangiare di meno».
«Lo sai che non posso mettermi a dieta, non ci riesco, il terzo giorno vado fuori dai gangheri. E poi comunque non dipende da quello che mangio, ne abbiamo parlato tante volte».
«Allora goditi il paesaggio, arriviamo quando arriviamo».
Quando entrammo al Giardino dei Refusi, la festa era quasi finita, come volevasi dimostrare. Lui era troppo pesante, io correvo troppo veloce, cioè avrei voluto. Feci appena in tempo a prendere un bicchiere di prosecco al buffet prima che chiudesse, e mi stesi sull’erba, col respiro ancora arruffato. Spesso arrivavamo in ritardo, per questa mia ostinazione a non voler prendere atto della pesantezza del corpo. Lo spingevo sempre troppo come scendevamo in pista, così dovevamo fermarci dopo poco per fare rifornimento. Avevo cercato bacchette magiche per renderlo più leggero ma pareva non esistessero, almeno non in questo secolo materialista. Non erano bustine in vendita al supermercato o in farmacia che lo avrebbero ossigenato. O programmi matematici fatti tra le quattro mura super attrezzate di una palestra.
Era un fatto di memoria, lui filtrava troppo o troppo ci rimanevano impigliato. Avrei dovuto scuoterlo sotto una cannella gigante, una cascata, per liberarlo di tutto. Sì, liberarlo. Pensai mentre il sole tramontava dolcemente sulla festa che mi ero persa e mi addormentavo appoggiata a uno degli olivi del parco dei Refusi.
Andavamo spesso a ritemprarci alle Terme, a lui piaceva confondersi con quell’acqua dove poteva rilassarsi senza temere il saporaccio del sale. Fu lì che ci ritrovammo, nel giorno di chiusura, una pacchia, tutte le vasche per noi. Mai successo prima, sembrava di essere noi padroni di tutto, una sensazione così esaltante che fu come perdere dieci anni di incrostazioni. Restare in quel silenzio, esporsi a quella pace profonda sembrava ripulire le scorie di tutti i livelli.
Mi svegliai che era notte, con il parco illuminato dalla luna. Si era in estate e le cicale avevano organizzato il solito concerto serale, che iniziai ad ascoltare con gran piacere fino al momento in cui mi accorsi che lui non c’era. Mi aveva abbandonato. Il mio corpo era sparito.
Non potevo denunciarne la scomparsa, senza non esistevo.
Come avrei firmato i fogli del modulo di scomparsa? E se mi avessero accusata di averlo nascosto, rapito, o peggio, fatto fuori? È vero, avevamo avuto qualche incomprensione, ma niente di che in fondo. Era pur sempre il mio corpo. Eravamo fatti l’uno per l’altra.
Così mi mossi, e scoprii che potevo farlo anche senza di lui, anzi. Era più facile, andavo veloce. In un attimo schizzai oltre il cancello, bastò averlo pensato. Feci un folle zig zag per tutta la città nei posti più assurdi, in cima ai tetti e agli alberi, dentro a banche, negozi, librerie, un paio di allarmi super tecnologici scattarono e schizzai via, perché anche senza corpo ci sentivo benissimo e non ho mai sopportato i rumori troppo forti. Mi dispiacqui di non poter entrare dal Bagnai, che aveva una sterminata colonia di paste e salati di tutte le taglie e sfumature. Per una volta che mi sarei potuta servire a volontà, indisturbata, causando per di più lo sgomento alla riapertura, avevo le mani legate, se posso dire, per via dell’assenza del corpo. Mannaggia.
È proprio vero che chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane. Una volta avevo un corpo. Sarebbe stato il caso di ritrovarlo, magari. Cominciava a mancarmi.
Avrei potuto fare scherzi da manuale in quello stato, ma mi mancò lo spirito. Forse una parte era nel corpo, e ci avevo lasciato anche un intero portafoglio di documenti inespressi, tutti da recuperare. Porca miseria. Ma dove poteva essere?
Pensai di tornare alle Terme. Tanto col pensiero ci voleva un attimo e ormai la città l’avevo girata tutta. Di fare la provincia non ne avevo nessuna voglia. La conoscevo già, e poi magari, pensando piano, sarei riuscita a godermi il viaggio da lì alle Terme come un drone, rasente alla campagna, proprio ora che stava albeggiando.
Nonostante la poca esperienza ci riuscii quasi, ogni tanto perdevo interi pezzi di strada, ma potei sorvolare a bassa quota alcuni tratti di colline, veder accendersi le luci delle fattorie, e nei paesi quelle delle case di chi si alzava col sole per andare al lavoro. Senza contare la luce primaria, che sorgendo sembrava dirmi: " Forza, vai avanti. Vedrai che lo ritrovi.“
Finalmente arrivai alle Terme, la luce del giorno stava prendendo il suo posto quando entrai senza fare alcun biglietto. Che soddisfazione, che libertà. Tutto era come l’avevo lasciato in sogno nel pomeriggio, assolutamente deserto, solo un po’ scuro. Mi guardai intorno, non c’erano luci, ma l’acqua era ancora illuminata dalla notte appena trascorsa. Davvero uno spettacolo. Lui era ancora là. Sotto la cascatella. Immobile e appena sorridente. Sembrava sognare. Mi avvicinai. Non ero poi così male. Ci rientrai. Lo sentii che mi accoglieva, e prima ancora me che ci scivolavo. Poi una sensazione unica. Scattai in avanti con un’energia mai avuta prima.
Ne ero sicura, lui aveva perso tutto quello che finora lo aveva appesantito, quello che avevamo accumulato insieme e con me che dicevo “corri di qua vai di là”, non poteva smaltire. Ma, lasciandolo in pace per mezza giornata, aveva fatto miracoli. Vicino trovai i miei vestiti, era stato un sogno ordinato. Corsi alla porta. Ora avrei dovuto aspettare che venissero ad aprirmi, oppure nascondermi e uscire senza dare nell’occhio. Poi c’era da tornare a casa, senza più voli raso terra. Ci sarebbe voluto più tempo. Ma dopotutto chi se ne importava, vero?
«Vero, chi se ne importa. Poi mi racconti cosa hai fatto mentre dormivo».