Mai più Giselle

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Milano teatro Alla Scala, settembre 1960.

Giselle danza la sua follia fino a morire nell’ultimo abbraccio della madre.
Io devo fare uno sforzo per ricordare il viso di mia madre. A pezzi, piccoli pezzi indipendenti: gli occhi azzurri, il naso aquilino, le labbra sottili. Ma lei no. Lei è sparita, scissa nel ricordo di mille particolari, persa nelle immagini di un abito a fiori, di un paio di occhiali, di un cappellino colorato.
Doveva morire, perché io potessi tornare a vedere quei passi veloci, quegli arabesque, quei pas de deux.
Mai più, Carla, mai più danza. Era la sua preghiera. Quando si ammalò divenne ancora più ossessiva. Le davo da bere, le somministravo la morfina. Lei mi prendeva la mano, e mi ripeteva, Mai più danza bambina mia, mai più Giselle.

Ivrea maggio 1944

Avevo sedici anni e niente mi sembrava più bello dell’idea di andarmene in vacanza a Gressoney con Virginia e suo fratello Enrico
L’accademia di danza era chiusa. Locali requisiti. Così diceva il cartello. Da quando erano arrivati i nazisti mi ero trovata con pomeriggi lunghi e inutili, le scarpette a fare la muffa in un sacchetto di cotone.
Tornando a casa dal liceo con i libri sotto braccio, pensavo che il ballo mi mancava da morire.

Non sapevo ancora che non era stata requisita solo la scuola di danza.

Mia madre aprì la porta con gli occhiali un po’ sghembi sul naso. Feci per entrare ma lei non si scostò. Si passava le mani sul vestito e rimaneva ferma. Stavo per aprire bocca quando dietro di lei comparve un uomo.
Il militare la spostò, mi fissò a lungo e poi disse: — Ah, questa è la ballerina.
Cominciò così.
Il comandante Konstantin Von Weizsäcker mi prese per un braccio e mi portò in salotto. Il tavolo, le poltrone, le sedie, la credenza, tutto era sparito. In fondo, era stato dipinto sul pavimento di legno un rettangolo di vernice rossa e un pesante tendaggio bordeaux pendeva da un’asta fissata al soffitto. Davanti al tendone, una poltrona scura e di fianco, un grammofono. Quello era un palco, un sipario, e una platea per un solo spettatore. Mi girai a fissare l’uomo, interdetta.
– Tu conosci Giselle?
Guardai mia madre che si aggiustò gli occhiali abbassando lo sguardo.
– Ti ho fatto una domanda, conosci Giselle?
Annuii.
– Voglio sapere se conosci i passi, se sei capace di ballare.
Buttó a terra la mia sacca di cotone.
– Cambiati.
Mi chinai lentamente per prendere la borsa, poi mi girai per andare in camera a mettermi il costume.
– No, qui.
– Qui?
Cercai ancora lo sguardo di mia madre, ma un soldato le teneva saldamente un braccio.
I due uomini scoppiarono a ridere.
– Qui. Perché, ti vergogni?
Il comandante mi strappò la borsa di mano, l’aprì, prese il costume e me lo buttò addosso.
– Avanti, mettilo.
Io mi spogliai. L’ufficiale andava con lo sguardo da me a mia madre. Mi sfilai la camicetta, tirai giù la cerniera della gonna, e feci per infilare il costumino rosa.
– No, togliti tutto.
Avevo una canottiera di lana sottile con le spalline di seta. Tremavo.
– Stupida italiana! Capisci cosa vuol dire tutto?
Disse qualcosa in tedesco al soldato che rise ancora più forte e uscì portandosi via mia madre.
Io lasciai scendere le spalline, poi il reggiseno, poi le mutandine. Lui mi guardava in silenzio, osservava le gambe, il ventre, le spalle. Mi fece ruotare su me stessa, mi sentii toccare un gluteo, istintivamente contrassi i muscoli.
– Bene, molto bene. Adesso mettiti il costume.
Mentre cercavo di contenere il tremito per infilare un piede dopo l’altro, lui si sedette nella poltrona scura.
Un altro soldato mise in funzione il grammofono.
– Tu vai dietro alla tenda e aspetta.
Ubbidii, e dopo un po’ sentii le note conosciute della variazione di Myrtha.
Il soldato tirò da un lato il tendone, e io mi trovai li, coperta solo da quel costumino rosa.
Cercavo di costringere i piedi a muoversi, il corpo a flettersi e le braccia a volare, ma mi sentivo di piombo.
Il colonnello batteva il tempo sul bracciolo della poltrona, fissandomi. Poi, di colpo, con un cenno fece fermare la musica e chiudere il sipario.
Non osavo muovermi. Non so quanto tempo rimasi così, immobile dietro quel velluto rosso, tremando.
Poi sentii le urla di mia madre e la voce del tedesco che sbraitava ansimando.
Da quel giorno la scuola divenne un ricordo, uscire per ritirare il cibo razionato un miraggio, Virginia ed Enrico persi come si perdeva la mia vita.
Provai piú volte ad avvicinarmi alla camera di mia madre, ma sempre venni respinta dai soldati di guardia. Chi rideva, chi mi strattonava, qualcuno mi guardava con pietà. Sentivo i singhiozzi di mia madre, scappavo in camera mia, mi tappavo le orecchie e mi buttavo sul letto spingendo la bocca sul cuscino perché il mostro non mi sentisse. Ero inutile, stupida, colpevole; era mia la colpa di tutto quell’orrore. Non ero capace di salvare mia madre.
Vivevo un incubo infinito, chiusa lì dentro, io, mia madre e i nostri aguzzini.
Il colonnello Von Weizsäcker doveva soddisfare ad ogni costo il suo desiderio.
Mi osservava danzare ogni giorno, e ogni giorno batteva il pugno sul bracciolo della poltrona e usciva dalla stanza. Ogni volta le urla di mia madre.
Era me che voleva. Torturare mia madre era la punizione che meritavo per non essere capace di soddisfarlo. Ero io quella che doveva appagare la sua brutale cupidigia. Era su quel rettangolo rosso che lui voleva consumare la sua perversione. Era Giselle che voleva possedere.
Cominciai a passare le ore dietro la tenda rossa a provare senza tregua con le mie vecchie scarpe da punta, i piedi che sanguinavano. Sentivo crescere un miscuglio di terrore e odio, sentivo la carne che si lacerava e i muscoli che urlavano dal dolore. I fouettè erano una giostra infernale, i grand batman mi squarciavano l’inguine, i cambrè mi spaccavano la schiena, ma niente mi poteva fermare. Mi costringevo a dormire qualche ora di notte, per potermi alzare al mattino, indossare le scarpette e cominciare il supplizio.
Il tempo passava senza un senso preciso.

Ballavo la disperazione di Giselle urlando la mia.

Infine un giorno lui rimase a guardarmi fino al momento in cui la musica lasció il posto al fruscio del grammofono. Aveva gli occhi semichiusi, e un colorito rossastro gli si diffondeva sulle guance. Nitido, sopra il frusciare del disco, udii lo stesso orribile ansare.
Da quel giorno mia madre non urlò più. Rimase chiusa a chiave nella sua stanza, ma lui non le fece piú visita.
Chiesi il permesso di farmi un bagno. Dopo giorni di terrore e sudore fu una meravigliosa emozione. Chiesi un vestito che non puzzasse, scarpe che non fossero bucate e una spazzola per sciogliere i nodi dei capelli. Piccole cose che prima nemmeno mi accorgevo di possedere e che improvvisamente diventavano vita.
Ma per quel prezzo, tutte le sere su quel rettangolo rosso, Giselle danzava e moriva.

Milano, teatro Alla Scala settembre 1960
Seduto accanto a me, Enrico sorride nella penombra del teatro.

Tutto avvenne all’ improvviso.
Mi stavo alzando all’alba quando sentii degli uomini fare irruzione in casa.

Enrico, con una decina di partigiani, sorprese i tedeschi nel sonno.
La mia amica Virginia, dopo giorni in cui non aveva più mie notizie, aveva capito cosa stava accadendo e aveva chiesto aiuto al fratello. Per i partigiani liberare la nostra casa e catturare il colonnello era un’occasione da non perdere.
Ricordo la casa piena di gente, i tedeschi mezzi svestiti e i ragazzi con il mitra in mano e il fazzoletto rosso al collo.
Mia madre uscì dalla camera, sorretta da uno di loro.
Prima che io potessi correrle incontro si fermò e sfilò la pistola dalla fondina del giovane. Fu come se tutti gli attori di un dramma fossero stati immobilizzati in mezzo alla scena.
Il comandante era tenuto fermo da due ragazzoni.
Mia madre lo guardò a lungo, poi prese la mira.

Nel teatro buio mi chino verso l’uomo che mi siede a fianco.
— Andiamo via.
Mi alzo, chiedo scusa agli spettatori, usciamo nella fresca serata autunnale.
Enrico mi osserva.
Devo provare a vivere ma Giselle la devo lasciar andare.
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