Il messaggero
Posted: Wed Dec 10, 2025 10:39 am
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È notte, piove, forte. Le grosse gocce tamburellano pesanti sulla carrozzeria, creando un rumore di fondo che satura l’abitacolo. I tergicristalli faticano nel continuare a spostare le ondate che arrivano sul parabrezza. La lunga statale non è illuminata e seguo le strisce bianche ai lati. Faccio i settanta all’ora. Due fari gialli spuntano da una strada secondaria. Si fermano sul limitare. Aspettano che sia io a passare. Mentre sfilo loro davanti, illuminano per un breve istante l’interno della mia auto. La luce scivola rapida sul cruscotto, sul volante, sul mio naso.
Guardo nello specchietto retrovisore. Dopo la spazzolata del tergicristallo posteriore intravedo una grossa sagoma nera e due fari a led azzurri. Mi segue sulla statale, una cinquantina di metri più indietro. La macchina dai fari gialli attende ancora all’incrocio. Poi, al momento sbagliato, le sue luci si alzano, le sospensioni posteriori si schiacciano. La macchina accelera, scivola sull’asfalto bagnato, si immette in contromano. Vedo i quattro fari sparire nel buio. Sento il botto ma ovattato, coperto dalla pioggia, come un rumore in più che non dovrebbe esserci.
Sulla strada non c’è nessun altro. Freno, faccio inversione, torno indietro. Non so quanto lontano debba cercare. Inchiodo spingendo forte sul pedale quando incontro i primi pezzi di lamiera. Mi si spegne il motore, i fari. Riaccendo. I pezzi sono ancora lì.
Vado avanti, lentamente, arrivo vicino a quello che sembra un rifiuto di lamiera da discarica. Un braccio insanguinato pende dal finestrino spaccato.
Dimentico tutto. Scendo. Dimentico le quattro frecce. Dimentico la pioggia che mi inzuppa completamente. Vado verso la carcassa. Dimentico che è notte. Che sulla strada non ci sono lampioni.
La vedo nella semioscurità. È lei. Non l’ho mai vista prima, ma è lei. Ha il naso rotto, la testa piegata di lato in posizione innaturale. Non respira.
La portiera piegata è già mezza aperta. La spalanco del tutto, cade a terra con un tonfo metallico. Sgancio la cintura. Mi punto con un piede vicino al pedale della frizione. Mi sposto tra lei e il sedile. Le sfioro i capelli. La prendo da sotto il braccio, molle e abbandonato. Faccio leva e la porto fuori con cautela. So che se n’è già andata. Ha una grossa ferita sul lato della testa. Inizio a ricordare dove mi trovo. La pioggia riprende a colpirmi in viso. Dovrei chiamare l’ambulanza. Farle il massaggio cardiaco, la respirazione. Ma non ci riesco. Riesco solo ad abbracciare il suo corpicino caldo, mentre il sangue abbondante si disperde a terra, si mischia all’acqua e scorre via.
Non so come si chiami, eppure la chiamo per nome: – Maria.
– Maria perché l’hai fatto? Perché?
Inizio a piangere. La stringo più forte. Non controllo le parole che dico.
– Io ti amo, Maria. Ti amerò per sempre.
L’amore non ha confini né leggi. È una forza. Come tutte le forze naturali, agisce quando è necessario. Quella notte, non fui io a pronunciare quelle parole. Un’altra persona, che non conosco, le avrebbe pronunciate il giorno seguente, una volta informato della morte della sua amata. Io le riportai solamente, nel luogo e nel momento a cui erano state dirette, alla persona sconosciuta che mi morì tra le braccia. Lei capì. Feci da tramite e nulla più.
Scoprii in seguito che quella notte diede inizio al mio arduo e felice cammino. Mi incaricò di un compito difficile, pesante, necessario. Che svolsi in seguito tante altre volte. Quella notte, sotto la pioggia, al buio, fui scelto per diventare un messaggero della luce.
È notte, piove, forte. Le grosse gocce tamburellano pesanti sulla carrozzeria, creando un rumore di fondo che satura l’abitacolo. I tergicristalli faticano nel continuare a spostare le ondate che arrivano sul parabrezza. La lunga statale non è illuminata e seguo le strisce bianche ai lati. Faccio i settanta all’ora. Due fari gialli spuntano da una strada secondaria. Si fermano sul limitare. Aspettano che sia io a passare. Mentre sfilo loro davanti, illuminano per un breve istante l’interno della mia auto. La luce scivola rapida sul cruscotto, sul volante, sul mio naso.
Guardo nello specchietto retrovisore. Dopo la spazzolata del tergicristallo posteriore intravedo una grossa sagoma nera e due fari a led azzurri. Mi segue sulla statale, una cinquantina di metri più indietro. La macchina dai fari gialli attende ancora all’incrocio. Poi, al momento sbagliato, le sue luci si alzano, le sospensioni posteriori si schiacciano. La macchina accelera, scivola sull’asfalto bagnato, si immette in contromano. Vedo i quattro fari sparire nel buio. Sento il botto ma ovattato, coperto dalla pioggia, come un rumore in più che non dovrebbe esserci.
Sulla strada non c’è nessun altro. Freno, faccio inversione, torno indietro. Non so quanto lontano debba cercare. Inchiodo spingendo forte sul pedale quando incontro i primi pezzi di lamiera. Mi si spegne il motore, i fari. Riaccendo. I pezzi sono ancora lì.
Vado avanti, lentamente, arrivo vicino a quello che sembra un rifiuto di lamiera da discarica. Un braccio insanguinato pende dal finestrino spaccato.
Dimentico tutto. Scendo. Dimentico le quattro frecce. Dimentico la pioggia che mi inzuppa completamente. Vado verso la carcassa. Dimentico che è notte. Che sulla strada non ci sono lampioni.
La vedo nella semioscurità. È lei. Non l’ho mai vista prima, ma è lei. Ha il naso rotto, la testa piegata di lato in posizione innaturale. Non respira.
La portiera piegata è già mezza aperta. La spalanco del tutto, cade a terra con un tonfo metallico. Sgancio la cintura. Mi punto con un piede vicino al pedale della frizione. Mi sposto tra lei e il sedile. Le sfioro i capelli. La prendo da sotto il braccio, molle e abbandonato. Faccio leva e la porto fuori con cautela. So che se n’è già andata. Ha una grossa ferita sul lato della testa. Inizio a ricordare dove mi trovo. La pioggia riprende a colpirmi in viso. Dovrei chiamare l’ambulanza. Farle il massaggio cardiaco, la respirazione. Ma non ci riesco. Riesco solo ad abbracciare il suo corpicino caldo, mentre il sangue abbondante si disperde a terra, si mischia all’acqua e scorre via.
Non so come si chiami, eppure la chiamo per nome: – Maria.
– Maria perché l’hai fatto? Perché?
Inizio a piangere. La stringo più forte. Non controllo le parole che dico.
– Io ti amo, Maria. Ti amerò per sempre.
L’amore non ha confini né leggi. È una forza. Come tutte le forze naturali, agisce quando è necessario. Quella notte, non fui io a pronunciare quelle parole. Un’altra persona, che non conosco, le avrebbe pronunciate il giorno seguente, una volta informato della morte della sua amata. Io le riportai solamente, nel luogo e nel momento a cui erano state dirette, alla persona sconosciuta che mi morì tra le braccia. Lei capì. Feci da tramite e nulla più.
Scoprii in seguito che quella notte diede inizio al mio arduo e felice cammino. Mi incaricò di un compito difficile, pesante, necessario. Che svolsi in seguito tante altre volte. Quella notte, sotto la pioggia, al buio, fui scelto per diventare un messaggero della luce.