La riffa
Posted: Sun Nov 30, 2025 7:55 pm
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Tutto cominciò con il racconto di un vecchio, mezzo cieco e ritenuto da tutti “tocco” per aver divorziato dalla moglie sostenendo che non sapeva sognare. Fu lui a parlarci della riffa, una lotteria diversa da tutte le altre per via delle tessere nere.
Tutto cominciò con il racconto di un vecchio, mezzo cieco e ritenuto da tutti “tocco” per aver divorziato dalla moglie sostenendo che non sapeva sognare. Fu lui a parlarci della riffa, una lotteria diversa da tutte le altre per via delle tessere nere.
Come in ogni lotteria, a ogni partecipante veniva consegnata una tessera, mentre il suo doppio finiva in una grande bussola di terracotta. Quando si annunciava un premio, si estraeva una tessera e il possessore di quella corrispondente risultava vincitore.
Una buona idea, ma non originale. Per renderla più interessante – così raccontava il vecchio – furono introdotte le probabilità avverse.
Ci trovammo concordi: serviva anche a noi qualcosa che ci facesse sentire davvero partecipi. Nessuno si sarebbe accontentato di una bottiglia di vino o di un ferro da stiro. Io allora sedevo nel Consiglio amministrativo, e decidemmo di rendere obbligatoria la partecipazione a tutti gli abitanti. La riffa si sarebbe tenuta una volta l’anno, in una data sempre differente.
All’inizio funzionava così: ogni trenta tessere fortunate, una nera. E le penalità erano leggere: una notte in una casa abbandonata, uno schiaffo sulla nuca, una corsa nudi per le vie della città. Un rischio minimo, che faceva ridere sia la folla che gli sfortunati.
Ma negli anni la fama della lotteria cominciò a valicare i confini, distorta da racconti fantasiosi. Una delle nostre prime regole era non parlarne agli stranieri, eppure non tutti la rispettarono. La popolazione aumentava, attratta dalle leggende della riffa.
Fu allora che capii che la fortuna raramente coincide con la felicità. Abbiamo bisogno dell’assurdo per sentirci vivi. Lo sapevo e lo accettavo. Credevo nel sistema – ci credo ancora, nonostante oggi sappia di aver partecipato alla mia ultima riffa.
Col tempo, infatti, non solo le tessere nere aumentarono, ma le punizioni si fecero più pesanti. Se prima bastava uno schiaffo, ora si parlava di marchiature; se prima si pagava una multa, ora si perdeva la casa. Il potere del vecchio – immobile nelle sue rughe e nei suoi occhi stretti – crebbe fino a sostituire gli organi comunali. Ogni decisione passava da lui.
Io lo appoggiai sempre. Non rimpiango le cose che ho perduto, né quelle che perderò. Nessuno mi obbligò a restare: avrei potuto andarmene, denunciare tutto, raccontare al mondo che qui siamo tutti pazzi. Non l’ho fatto. Ho continuato a partecipare, talvolta godendo di premi inattesi, altre soffrendo le penitenze: un anno fui dichiarato invisibile e potei rubare ciò che volevo; un altro vissi in una cantina, nutrito solo di latte acido e radici; un altro ancora mi fu “donata” la moglie di un amico.
Oggi, però, mentre scrivo queste righe, ripenso all’ultima tessera nera che mi è toccata in sorte. La disperazione mi fa compagnia. Sono disteso in uno spazio angusto; sento la terra filtrare fra le assi di legno. Ai piedi, una lampada emana una luce fioca: hanno detto che durerà tre, forse quattro giorni. Poi si spegnerà.
Mi hanno lasciato un quaderno e una matita. Scrivo a fatica: la luce è bassa e la mente comincia ad arrendersi. Ho anche una bottiglietta d’acqua, ormai a metà. Finirà prima dei miei pensieri.
Non temo la morte, né l’aria che si assottiglia qui, nella cassa di legno, a mezzo metro dalla superficie. Mi riesumeranno alla prossima riffa. E per allora sarò morto.
No, non è la morte a spaventarmi. È l’impossibilità di partecipare ancora. La sepoltura sarà il mio ultimo atto: il corpo che si dissolve, l’aria che fugge nelle crepe del mondo.
Ma la riffa continuerà, sconfinata, interminabile. Anche senza di me.