Un altro addio
Posted: Tue Jan 19, 2021 3:53 pm
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È corsa in soggiorno e mi si è gettata tra le braccia senza chiudersi la porta alle spalle e da sopra i ciuffi elettrici dei suoi capelli e tra di essi intravedo il cono di luce dell’ingresso spandersi nell’andito. Per il resto il corridoio è buio e, se lo fisso troppo a lungo, quel buio pulsa e assorbe i contorni del soggiorno e me e lei e il significato di questa stanza. Anche gli album sparpagliati ai piedi del trentatré giri, i Dylan, i De Gregori, i Coltrane, perdono contatto con la realtà. I vinili e i libri di Kafka e di Wallace e di Carver sul pavimento sono altre tessere di un puzzle abbandonato a se stesso.
Ci siamo solo noi, qui. Noi e la puzza di bruciato e l’idea che qualcuno dovrà mettere mano alla caldaia, prima o poi.
Lei piange come se fossimo in mezzo a un deserto e dalle sue frasi spezzate capisco che è successo qualcosa al bimbo. In questo tardo pomeriggio d’autunno, in questo caos di foglie soffiate contro la finestra del soggiorno come se qualcosa, là fuori, si fosse dilatato al punto di incrinare il cielo, il bimbo è il grande assente. Quel suo corpicino troppo rosa e gommoso è un fantasma che danza intorno al modo in cui lei sta avvinghiata alla mia schiena nuda e coperta di goccioline e, mentre le sue mani si imprimono più profondamente nelle mie carni, riesco solo a pensare che non dovrei essere qui, le gambe piantate nel parquet, l’asciugamano di spugna giallo arrotolato in vita, le dita che ora mi accarezzano la testa quasi che dovessero suonare una sinfonia, il rumore della doccia contro le piastrelle del bagno. Dovrei essere altrove.
E sì che in bocca ho i suoi capelli e i pilucchi attorno al cappuccio del suo piumino si muovono e mi solleticano le guance, che a questo punto non so se siano bagnate d’acqua calda o che, perché le sue lacrime si stanno raccogliendo sull’orlo della mascherina che non ha avuto il tempo di togliersi e che preme contro il mio mento mischiandosi con il suo respiro. Sento i peli delle gambe drizzarsi sotto il soffio degli spifferi che dall’ingresso violano il soggiorno e penso a cose come valigia e casa e al trovare le parole giuste per restare umano nonostante tutto e forse sussulto o la stringo troppo forte.
È a questo punto che la realtà appare e lei alza lo sguardo su di me e i suoi occhi sono tutti un riflesso di me che guardo lei che guarda me, e così all’infinito, e notare dettagli di questo tipo, accorgermi della musica che i vicini stanno ascoltando dall’altro lato della parete e riconoscere quella canzone per averla ascoltata mille volte, anche con lei, mi fa sentire il caro vecchio cemento nello stomaco, e so che non scorderò mai questo momento. Il trentatré giri continua a suonare e si fonde con la sinfonia dei vicini e con la doccia aperta in bagno e crea un rumore nuovo. Ecco di cosa ci ricorderemo per sempre.
Così come mi ricorderò per sempre di questa mattina, la sua voce roca dall’altra parte dell’etere e le parole crude con cui ha detto che avrei dovuto fare presto a preparare le mie cose, che sarebbe rientrata la sera, con il suo bimbo e le buste della spesa e che non avrebbe voluto trovarci le mie lattine di birra, nel frigo. Dovrei essere altrove, per davvero.
Ma tutto è avvenuto così velocemente che ora le mie braccia stringono forte il suo corpo, anche se fino a poco fa era lei che abbracciava me e io me ne stavo fermo immobile con all’interno il mio caro vecchio cemento, le braccia lungo il corpo nudo che solo sfioravano il suo essere disperata. E sono rimasto così per tutto il tempo in cui i suoi singhiozzi si sono accumulati nello spazio compresso tra i nostri due corpi, lei avvolta nel piumino e io in un asciugamano bagnato e sporco e per il resto nudo. Poi ho stretto le braccia attorno al suo giaccone e lei si è lasciata andare ed è così che siamo adesso. Se qualcuno ci scattasse una foto, non sembrerebbe una guerra, ma il suo contrario.
E lei volge la sua faccia verso di me e le sue guance sono rosse e sono identiche a quelle del bimbo, sono un calco di quelle guance che ero solito sentire sul mio torace prima di addormentarmi, ed è come se la vedessi per la prima volta. Sono guance che ricordano mattinate assolate in spiaggia, guance sotto ombrelloni colorati, castelli di sabbia e chicchi d’anguria sputati nell’ombra e profumo di bruciato.
Da come quelle guance e quegli occhi smuovono tutta la stanza intorno a noi, non posso fare a meno di stringerla più forte, quasi che la volessi soffocare e porre fine a tutto. Mi chiedo se questo potrebbe modificare la genetica di una decisione già presa. L’ospedale, l’emergenza, il bimbo. Se dovessi ascoltare la parte più mostruosa, quella che mi pulsa dentro la testa da questa mattina, ciò che dovrei fare sarebbe sottrarmi a quel corpo a quella disperazione a quella richiesta di sostegno e uscire da lì. Dovrei aprire la bocca e urlarle contro tutto quello che sento dentro e a cui non so dare un nome e scacciarla via, fuori dalla porta, dentro il cono di luce e poi nel buio e dire addio alla donna che è qui con me sotto la luce fioca di questo pomeriggio bagnato, e sarebbe la soluzione meno terribile. Invece continuo a stringere quell’ammasso di capelli elettrici e lacrime bollenti, che ormai scivolano fino al mio petto nudo. Quelle guance mi si imprimono così in profondità che non riesco a vedere altro se non il bimbo e i giorni che ci hanno legati nella carne, e tutta la stanza è assorbita dall’urgenza di scacciare la pulsione mostruosa che fa vibrare il mio sguardo e che pulsa nella mia fronte, chiedendo il pretesto di uscire.
Poi la suoneria del suo smartphone filtra dal giaccone e lei si stacca dal mio corpo e porta il telefono all’orecchio e la sua bocca si spalanca e ogni mio pensiero si canalizza e si dirige nel buco che è anche un po’ il vuoto in cui sprofondo, quella bocca che tremando si spalanca sempre di più e che mi avvolge per un attimo che pare essere sempre, finché lei dice arriviamo arriviamo arriviamo arriviamo e la realtà delle sue parole assume peso e riempie la stanza e le mie orecchie fischiano e infine anche il rumore della doccia e della musica e delle altre cose scompare dalla superficie del mio corpo e anche io ripeto arriviamo arriviamo arriviamo arriviamo e sento solo il ritmo del cuore, che in pratica è tutto ciò che sono in questo momento, battere in ogni dettaglio che ci circonda.
È corsa in soggiorno e mi si è gettata tra le braccia senza chiudersi la porta alle spalle e da sopra i ciuffi elettrici dei suoi capelli e tra di essi intravedo il cono di luce dell’ingresso spandersi nell’andito. Per il resto il corridoio è buio e, se lo fisso troppo a lungo, quel buio pulsa e assorbe i contorni del soggiorno e me e lei e il significato di questa stanza. Anche gli album sparpagliati ai piedi del trentatré giri, i Dylan, i De Gregori, i Coltrane, perdono contatto con la realtà. I vinili e i libri di Kafka e di Wallace e di Carver sul pavimento sono altre tessere di un puzzle abbandonato a se stesso.
Ci siamo solo noi, qui. Noi e la puzza di bruciato e l’idea che qualcuno dovrà mettere mano alla caldaia, prima o poi.
Lei piange come se fossimo in mezzo a un deserto e dalle sue frasi spezzate capisco che è successo qualcosa al bimbo. In questo tardo pomeriggio d’autunno, in questo caos di foglie soffiate contro la finestra del soggiorno come se qualcosa, là fuori, si fosse dilatato al punto di incrinare il cielo, il bimbo è il grande assente. Quel suo corpicino troppo rosa e gommoso è un fantasma che danza intorno al modo in cui lei sta avvinghiata alla mia schiena nuda e coperta di goccioline e, mentre le sue mani si imprimono più profondamente nelle mie carni, riesco solo a pensare che non dovrei essere qui, le gambe piantate nel parquet, l’asciugamano di spugna giallo arrotolato in vita, le dita che ora mi accarezzano la testa quasi che dovessero suonare una sinfonia, il rumore della doccia contro le piastrelle del bagno. Dovrei essere altrove.
E sì che in bocca ho i suoi capelli e i pilucchi attorno al cappuccio del suo piumino si muovono e mi solleticano le guance, che a questo punto non so se siano bagnate d’acqua calda o che, perché le sue lacrime si stanno raccogliendo sull’orlo della mascherina che non ha avuto il tempo di togliersi e che preme contro il mio mento mischiandosi con il suo respiro. Sento i peli delle gambe drizzarsi sotto il soffio degli spifferi che dall’ingresso violano il soggiorno e penso a cose come valigia e casa e al trovare le parole giuste per restare umano nonostante tutto e forse sussulto o la stringo troppo forte.
È a questo punto che la realtà appare e lei alza lo sguardo su di me e i suoi occhi sono tutti un riflesso di me che guardo lei che guarda me, e così all’infinito, e notare dettagli di questo tipo, accorgermi della musica che i vicini stanno ascoltando dall’altro lato della parete e riconoscere quella canzone per averla ascoltata mille volte, anche con lei, mi fa sentire il caro vecchio cemento nello stomaco, e so che non scorderò mai questo momento. Il trentatré giri continua a suonare e si fonde con la sinfonia dei vicini e con la doccia aperta in bagno e crea un rumore nuovo. Ecco di cosa ci ricorderemo per sempre.
Così come mi ricorderò per sempre di questa mattina, la sua voce roca dall’altra parte dell’etere e le parole crude con cui ha detto che avrei dovuto fare presto a preparare le mie cose, che sarebbe rientrata la sera, con il suo bimbo e le buste della spesa e che non avrebbe voluto trovarci le mie lattine di birra, nel frigo. Dovrei essere altrove, per davvero.
Ma tutto è avvenuto così velocemente che ora le mie braccia stringono forte il suo corpo, anche se fino a poco fa era lei che abbracciava me e io me ne stavo fermo immobile con all’interno il mio caro vecchio cemento, le braccia lungo il corpo nudo che solo sfioravano il suo essere disperata. E sono rimasto così per tutto il tempo in cui i suoi singhiozzi si sono accumulati nello spazio compresso tra i nostri due corpi, lei avvolta nel piumino e io in un asciugamano bagnato e sporco e per il resto nudo. Poi ho stretto le braccia attorno al suo giaccone e lei si è lasciata andare ed è così che siamo adesso. Se qualcuno ci scattasse una foto, non sembrerebbe una guerra, ma il suo contrario.
E lei volge la sua faccia verso di me e le sue guance sono rosse e sono identiche a quelle del bimbo, sono un calco di quelle guance che ero solito sentire sul mio torace prima di addormentarmi, ed è come se la vedessi per la prima volta. Sono guance che ricordano mattinate assolate in spiaggia, guance sotto ombrelloni colorati, castelli di sabbia e chicchi d’anguria sputati nell’ombra e profumo di bruciato.
Da come quelle guance e quegli occhi smuovono tutta la stanza intorno a noi, non posso fare a meno di stringerla più forte, quasi che la volessi soffocare e porre fine a tutto. Mi chiedo se questo potrebbe modificare la genetica di una decisione già presa. L’ospedale, l’emergenza, il bimbo. Se dovessi ascoltare la parte più mostruosa, quella che mi pulsa dentro la testa da questa mattina, ciò che dovrei fare sarebbe sottrarmi a quel corpo a quella disperazione a quella richiesta di sostegno e uscire da lì. Dovrei aprire la bocca e urlarle contro tutto quello che sento dentro e a cui non so dare un nome e scacciarla via, fuori dalla porta, dentro il cono di luce e poi nel buio e dire addio alla donna che è qui con me sotto la luce fioca di questo pomeriggio bagnato, e sarebbe la soluzione meno terribile. Invece continuo a stringere quell’ammasso di capelli elettrici e lacrime bollenti, che ormai scivolano fino al mio petto nudo. Quelle guance mi si imprimono così in profondità che non riesco a vedere altro se non il bimbo e i giorni che ci hanno legati nella carne, e tutta la stanza è assorbita dall’urgenza di scacciare la pulsione mostruosa che fa vibrare il mio sguardo e che pulsa nella mia fronte, chiedendo il pretesto di uscire.
Poi la suoneria del suo smartphone filtra dal giaccone e lei si stacca dal mio corpo e porta il telefono all’orecchio e la sua bocca si spalanca e ogni mio pensiero si canalizza e si dirige nel buco che è anche un po’ il vuoto in cui sprofondo, quella bocca che tremando si spalanca sempre di più e che mi avvolge per un attimo che pare essere sempre, finché lei dice arriviamo arriviamo arriviamo arriviamo e la realtà delle sue parole assume peso e riempie la stanza e le mie orecchie fischiano e infine anche il rumore della doccia e della musica e delle altre cose scompare dalla superficie del mio corpo e anche io ripeto arriviamo arriviamo arriviamo arriviamo e sento solo il ritmo del cuore, che in pratica è tutto ciò che sono in questo momento, battere in ogni dettaglio che ci circonda.