Un altro addio

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È corsa in soggiorno e mi si è gettata tra le braccia senza chiudersi la porta alle spalle e da sopra i ciuffi elettrici dei suoi capelli e tra di essi intravedo il cono di luce dell’ingresso spandersi nell’andito. Per il resto il corridoio è buio e, se lo fisso troppo a lungo, quel buio pulsa e assorbe i contorni del soggiorno e me e lei e il significato di questa stanza. Anche gli album sparpagliati ai piedi del trentatré giri, i Dylan, i De Gregori, i Coltrane, perdono contatto con la realtà. I vinili e i libri di Kafka e di Wallace e di Carver sul pavimento sono altre tessere di un puzzle abbandonato a se stesso.
Ci siamo solo noi, qui. Noi e la puzza di bruciato e l’idea che qualcuno dovrà mettere mano alla caldaia, prima o poi.
Lei piange come se fossimo in mezzo a un deserto e dalle sue frasi spezzate capisco che è successo qualcosa al bimbo. In questo tardo pomeriggio d’autunno, in questo caos di foglie soffiate contro la finestra del soggiorno come se qualcosa, là fuori, si fosse dilatato al punto di incrinare il cielo, il bimbo è il grande assente. Quel suo corpicino troppo rosa e gommoso è un fantasma che danza intorno al modo in cui lei sta avvinghiata alla mia schiena nuda e coperta di goccioline e, mentre le sue mani si imprimono più profondamente nelle mie carni, riesco solo a pensare che non dovrei essere qui, le gambe piantate nel parquet, l’asciugamano di spugna giallo arrotolato in vita, le dita che ora mi accarezzano la testa quasi che dovessero suonare una sinfonia, il rumore della doccia contro le piastrelle del bagno. Dovrei essere altrove.
E sì che in bocca ho i suoi capelli e i pilucchi attorno al cappuccio del suo piumino si muovono e mi solleticano le guance, che a questo punto non so se siano bagnate d’acqua calda o che, perché le sue lacrime si stanno raccogliendo sull’orlo della mascherina che non ha avuto il tempo di togliersi e che preme contro il mio mento mischiandosi con il suo respiro. Sento i peli delle gambe drizzarsi sotto il soffio degli spifferi che dall’ingresso violano il soggiorno e penso a cose come valigia e casa e al trovare le parole giuste per restare umano nonostante tutto e forse sussulto o la stringo troppo forte.
È a questo punto che la realtà appare e lei alza lo sguardo su di me e i suoi occhi sono tutti un riflesso di me che guardo lei che guarda me, e così all’infinito, e notare dettagli di questo tipo, accorgermi della musica che i vicini stanno ascoltando dall’altro lato della parete e riconoscere quella canzone per averla ascoltata mille volte, anche con lei, mi fa sentire il caro vecchio cemento nello stomaco, e so che non scorderò mai questo momento. Il trentatré giri continua a suonare e si fonde con la sinfonia dei vicini e con la doccia aperta in bagno e crea un rumore nuovo. Ecco di cosa ci ricorderemo per sempre.
Così come mi ricorderò per sempre di questa mattina, la sua voce roca dall’altra parte dell’etere e le parole crude con cui ha detto che avrei dovuto fare presto a preparare le mie cose, che sarebbe rientrata la sera, con il suo bimbo e le buste della spesa e che non avrebbe voluto trovarci le mie lattine di birra, nel frigo. Dovrei essere altrove, per davvero.

Ma tutto è avvenuto così velocemente che ora le mie braccia stringono forte il suo corpo, anche se fino a poco fa era lei che abbracciava me e io me ne stavo fermo immobile con all’interno il mio caro vecchio cemento, le braccia lungo il corpo nudo che solo sfioravano il suo essere disperata. E sono rimasto così per tutto il tempo in cui i suoi singhiozzi si sono accumulati nello spazio compresso tra i nostri due corpi, lei avvolta nel piumino e io in un asciugamano bagnato e sporco e per il resto nudo. Poi ho stretto le braccia attorno al suo giaccone e lei si è lasciata andare ed è così che siamo adesso. Se qualcuno ci scattasse una foto, non sembrerebbe una guerra, ma il suo contrario.
E lei volge la sua faccia verso di me e le sue guance sono rosse e sono identiche a quelle del bimbo, sono un calco di quelle guance che ero solito sentire sul mio torace prima di addormentarmi, ed è come se la vedessi per la prima volta. Sono guance che ricordano mattinate assolate in spiaggia, guance sotto ombrelloni colorati, castelli di sabbia e chicchi d’anguria sputati nell’ombra e profumo di bruciato.
Da come quelle guance e quegli occhi smuovono tutta la stanza intorno a noi, non posso fare a meno di stringerla più forte, quasi che la volessi soffocare e porre fine a tutto. Mi chiedo se questo potrebbe modificare la genetica di una decisione già presa. L’ospedale, l’emergenza, il bimbo. Se dovessi ascoltare la parte più mostruosa, quella che mi pulsa dentro la testa da questa mattina, ciò che dovrei fare sarebbe sottrarmi a quel corpo a quella disperazione a quella richiesta di sostegno e uscire da lì. Dovrei aprire la bocca e urlarle contro tutto quello che sento dentro e a cui non so dare un nome e scacciarla via, fuori dalla porta, dentro il cono di luce e poi nel buio e dire addio alla donna che è qui con me sotto la luce fioca di questo pomeriggio bagnato, e sarebbe la soluzione meno terribile. Invece continuo a stringere quell’ammasso di capelli elettrici e lacrime bollenti, che ormai scivolano fino al mio petto nudo. Quelle guance mi si imprimono così in profondità che non riesco a vedere altro se non il bimbo e i giorni che ci hanno legati nella carne, e tutta la stanza è assorbita dall’urgenza di scacciare la pulsione mostruosa che fa vibrare il mio sguardo e che pulsa nella mia fronte, chiedendo il pretesto di uscire.
Poi la suoneria del suo smartphone filtra dal giaccone e lei si stacca dal mio corpo e porta il telefono all’orecchio e la sua bocca si spalanca e ogni mio pensiero si canalizza e si dirige nel buco che è anche un po’ il vuoto in cui sprofondo, quella bocca che tremando si spalanca sempre di più e che mi avvolge per un attimo che pare essere sempre, finché lei dice arriviamo arriviamo arriviamo arriviamo e la realtà delle sue parole assume peso e riempie la stanza e le mie orecchie fischiano e infine anche il rumore della doccia e della musica e delle altre cose scompare dalla superficie del mio corpo e anche io ripeto arriviamo arriviamo arriviamo arriviamo e sento solo il ritmo del cuore, che in pratica è tutto ciò che sono in questo momento, battere in ogni dettaglio che ci circonda.

Re: Un altro addio

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Ciao @m.q.s.
Ho dovuto rileggere un paio di volte questo brano perché in effetti non tutti i passaggi sono chiari.
Credo che tu abbia voluto fare in modo che la forma del racconto ne seguisse la sostanza. Mi spiego meglio: il protagonista vive, evidentemente un momento di immenso sgomento, che non riesce dapprima a comprendere e poi nemmeno a gestire. La forma dello scritto rispecchia questo stato di panico confusionale, e questo in se non è sbagliato se non fosse che forse tu hai calcato un po’ troppo la mano.
È corsa in soggiorno e mi si è gettata tra le braccia senza chiudersi la porta alle spalle e da sopra i ciuffi elettrici dei suoi capelli e tra di essi intravedo il cono di luce dell’ingresso spandersi nell’andito
Questo incipit è un po’ un cazzotto sul naso del lettore, da sopra i capelli e tra di essi è ridondante, basta dire in mezzo ai suoi capelli, per esempio.
Le citazioni di gruppi, cantanti e libri (compreso il 33 giri) è vero che contestualizzano i gusti del protagonista ma appesantiscono la narrazione, snellirei.
bimbo è il grande assente. Quel suo corpicino troppo rosa e gommoso è un fantasma
È un neonato? Perché “troppo” rosa e gommoso?
Sento i peli delle gambe drizzarsi sotto il soffio degli spifferi che dall’ingresso violano il soggiorno e penso a cose come valigia e casa e al trovare le parole giuste per restare umano nonostante tutto e forse sussulto o la stringo troppo forte.
Due considerazioni: una positiva, mi pace l’anticipazione -valigia e casa- che non spiega ma lascia intendere un conflitto che sarà esplicitato in seguito, ma trovo un po’ troppo barocca la violazione degli spifferi. Sarebbe sufficiente dire che entrano, anche perché l’eccesso di barocchismi inciampa la lettura.
dall’altro lato della parete e riconoscere quella canzone per averla ascoltata mille volte, anche con lei, mi fa sentire il caro vecchio cemento nello stomaco, e so che non scorderò mai questo momento. Il trentatré giri continua a suonare e si fonde con la sinfonia dei vicini e con la doccia aperta in bagno e crea un rumore nuovo. Ecco di cosa ci ricorderemo per sempre.
Stesso problema: io sono indubbiamente un lettore spaccacapelli, ma mi sono persa a capire cosa ascoltassero i vicini in sovrapposizione al 33 giri, e mentre anche qui la lettura che dovrebbe accelerare verso il dramma, si inciampa.
Il dramma, appunto, credo sia il focus del racconto, ciò che in effetti scatena il panico e lo sconcerto del protagonista. Apprezzo la scelta di non spiattellarlo, tanto il lettore capisce di che si tratta, ma correrei più decisa al centro di esso, soffermandomi di meno suo vissuti del protagonista.
Non spiattellare, ok, ma qualche spiegazione in più non l’avrei disprezzata, se dosata con parsimonia. Ciò che ho capito è che all’interno di una relazione che si è conclusa (male?) irrompe un’altra tragedia che coinvolge il bambino, bambino che, mi pare di intuire, sia solo di lei, e lui non ne sia il padre. Dico questo perché ho percepito che il coinvolgimento dell’uomo passi attraverso le emozioni della donna, mentre lui sembra quasi rimanere imbambolato e concentrato su di lei, più che sul dramma che coinvolge il bambino.
Non la cito, ma ho trovato bella la parte che attraverso guance (e guanciotte) evoca momenti sereni, sprazzi di felicità trascorsi insieme.
L’ospedale, l’emergenza, il bimbo
Qui si esplicita l’avvenimento ma mi sorge un dubbio questa volta sostanziale più che formale. Se il bambino è in ospedale, come mai la madre non è con lui?
Poi la suoneria del suo smartphone filtra dal giaccone e lei si stacca dal mio corpo e porta il telefono all’orecchio e la sua bocca si spalanca e ogni mio pensiero si canalizza e si dirige nel buco che è anche un po’ il vuoto in cui sprofondo, quella bocca che tremando si spalanca sempre di più e che mi avvolge per un attimo che pare essere sempre, finché lei dice arriviamo arriviamo arriviamo arriviamo e la realtà delle sue parole assume peso e riempie la stanza e le mie orecchie fischiano e infine anche il rumore della doccia e della musica e delle altre cose scompare dalla superficie del mio corpo e anche io ripeto arriviamo arriviamo arriviamo arriviamo e sento solo il ritmo del cuore, che in pratica è tutto ciò che sono in questo momento, battere in ogni dettaglio che ci circonda.
Pant. Cioè, di nuovo da un lato capisco che la scelta di lasciare il lettore col fiato corto sia lo specchio dell’apnea che sperimenta il protagonista, ma a mio gusto limerei un po’.
In sostanza: vedo in questo brano scelte stilistiche volute e per certi versi condivisibili, tuttavia mi sembrano un po’ troppo spinte, rasentando una sorta di virtuosismo un po’ artificioso che impedisce il lettore dal provare empatia per i personaggi. Il lettore è costretto (ovvero, io sono costretta, tieni presente che il parere di un lettore è sempre soggettivo) a concentrarsi sul dipanamento della forma.
Snellirei parecchi passaggi, cercando di puntare di più sul focus del racconto. Focus che non è esattamente il dramma che coinvolge il bambino, credo infatti di aver capito che il vero focus è e sul conflitto di lui, che da un lato ovviamente è spaventato dall’accaduto ma contemporaneamente sembrerebbe percepirlo come una sorta di opportunità per riavvicinarsi alla sua donna, del cui distacco imposto pareva soffrire. E di questo conflitto si vergogna.
Il mio consiglio come avrai capito è sfoltire e ridurre il lessico a vantaggio dell’espressione più lineare della storia.

Re: Un altro addio

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Ciao @Cicciuzza
Eh sì, hai colto in pieno.
Probabilmente mi sto così tanto sforzando di dare di più, che sto perdendo anche la capacità di fare decentemente le cose più in piccolo. È un rischio che sapevo di correre e ciò nonostante ci ho provato. Ma avrei fatto meglio a non provarci, mi sa 😅
Però ciò che hai colto, della storia, ne era proprio l'essenza. Nel senso, hai inquadrato la tematica.
Perché se il testo suona artificioso, allora è un fallimento su tutta la linea.
Grazie per il tuo tempo! :)
Buona giornata

Re: Un altro addio

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m.q.s. ha scritto: mar gen 19, 2021 3:53 pm
È corsa in soggiorno e mi si è gettata tra le braccia senza chiudersi la porta alle spalle
punto e virgola
e da sopra i ciuffi elettrici dei suoi capelli
virgola
e tra di essi
virgola
intravedo il cono di luce dell’ingresso spandersi nell’andito. Per il resto il corridoio è buio e, se lo fisso troppo a lungo, quel buio pulsa e assorbe i contorni del soggiorno e me e lei e il significato di questa stanza.
così come i contorni di me e di lei, col significato di questa stanza.
Anche gli album sparpagliati ai piedi del trentatré giri, i Dylan, i De Gregori, i Coltrane, perdono contatto con la realtà.
Ti suggerisco di mettere tra parentesi gli artisti su elencati.
I vinili e i libri di Kafka, e di Wallace e di Carver sul pavimento sono altre tessere di un puzzle abbandonato a se stesso.
Ci siamo solo noi, qui. Noi e la puzza di bruciato e l’idea che qualcuno dovrà mettere mano alla caldaia, prima o poi.

Lei piange come se fossimo in mezzo a un deserto e dalle sue frasi spezzate capisco che è successo qualcosa al bimbo. In questo tardo pomeriggio d’autunno, in questo caos di foglie soffiate contro la finestra del soggiorno come se qualcosa, là fuori, si fosse dilatato al punto di incrinare il cielo, il bimbo è il grande assente. Quel suo corpicino troppo rosa e gommoso è un fantasma che danza intorno al modo in cui lei sta avvinghiata alla mia schiena nuda e coperta di goccioline e, mentre le sue mani si imprimono più profondamente nelle mie carni, riesco solo a pensare che non dovrei essere qui, le gambe piantate nel parquet, l’asciugamano di spugna giallo arrotolato in vita, le dita che ora mi accarezzano la testa quasi che dovessero suonare una sinfonia, il rumore della doccia contro le piastrelle del bagno. Dovrei essere altrove.

Questo pezzo sopra, che ti ho messo in corsivo per evidenziarlo, e che, secondo me, è centrale al significato trasmesso del brano, va messo tra due interlinee.



Sento i peli delle gambe drizzarsi sotto il soffio degli spifferi che dall’ingresso violano il soggiorno
qui ti suggerisco di mettere un punto fermo.
Penso a cose come valigia e casa e al trovare le parole giuste per restare umano nonostante tutto e forse sussulto o la stringo troppo forte.
È a questo punto che la realtà appare e lei alza lo sguardo su di me
qui ti suggerisco di mettere un punto fermo.
I suoi occhi sono tutti un riflesso di me che guardo lei che guarda me, e così all’infinito, e notare dettagli di questo tipo, accorgermi della musica che i vicini stanno ascoltando dall’altro lato della parete e riconoscere quella canzone per averla ascoltata mille volte, anche con lei, mi fa sentire il caro vecchio cemento nello stomaco, e so che non scorderò mai questo momento.

E sono rimasto così per tutto il tempo in cui i suoi singhiozzi si sono accumulati nello spazio compresso tra i nostri due corpi,
meglio un punto e virgola
lei avvolta nel piumino e io in un asciugamano bagnato e sporco e per il resto nudo.

E lei volge la sua faccia verso di me e le sue guance sono rosse e sono identiche a quelle del bimbo, sono un calco di quelle guance
potresti alternare con “gote”, anche sotto
che ero solito sentire sul mio torace prima di addormentarmi, ed è come se la vedessi per la prima volta. Sono guance che ricordano mattinate assolate in spiaggia, guance sotto ombrelloni colorati, castelli di sabbia e chicchi d’anguria sputati nell’ombra e profumo di bruciato.

L’ospedale, l’emergenza, il bimbo. Se dovessi ascoltare la parte più mostruosa, quella che mi pulsa dentro la testa da questa mattina, ciò che dovrei fare sarebbe sottrarmi a quel corpo
virgola
a quella disperazione a quella richiesta di sostegno e uscire da lì.

Poi la suoneria del suo smartphone filtra dal giaccone e lei si stacca dal mio corpo e porta il telefono all’orecchio e la sua bocca si spalanca e ogni mio pensiero si canalizza e si dirige nel buco che è anche un po’ il vuoto in cui sprofondo,
qui, al posto della virgola, penserei di mettere i tre puntini di sospensione, dato il pathos del momento, e poi la maiuscola. Quella bocca ecc.
quella bocca che tremando si spalanca sempre di più e che mi avvolge per un attimo che pare essere sempre, finché lei dice arriviamo arriviamo arriviamo arriviamo
in corsivo o tra virgolette
e la realtà delle sue parole assume peso e riempie la stanza e le mie orecchie fischiano e infine anche il rumore della doccia e della musica e delle altre cose scompare dalla superficie del mio corpo e anche io ripeto arriviamo arriviamo arriviamo arriviamo e sento solo il ritmo del cuore, che in pratica è tutto ciò che sono in questo momento, battere in ogni dettaglio che ci circonda.
L’incalzare drammatico del racconto autorizza il fagocitare le proposizioni, allungandole a dismisura, ci sta. Però, ogni tanto un punto virgola o un punto fermo te lo suggerisco. Almeno per il mio sentire, anche se c’è pathos nella vicenda, sono necessari per una migliore comprensione del lettore. Ciò detto, ti faccio i miei complimenti per lo stile con cui hai orchestrato la vicenda, nonché per la caratterizzazione dei personaggi. Hai fatto la scelta di non esplicitare il dramma vissuto da lei per il suo bambino, e che lascia intravedere uno spiraglio di speranza sul finale, e ci sta. Sembra che lui non sia il padre, essendo in apparenza meno coinvolto e più proiettato verso la consolazione di lei, anche approfittando dell’occasione, pur vergognandosene.
Almeno, a me è sembrato di percepire questo.

Bravo, @m.q.s. :)
Di sabbia e catrame è la vita:
o scorre o si lega alle dita.


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