Ecco, io verrò a te in una folta nuvola
Posted: Mon Jan 18, 2021 8:13 pm
«Don Libero, la messa è finita. Ho chiuso la sagrestia e anche l'entrata principale: i fedeli sono usciti tutti. Don Saverio è in giro per la comunione agli infermi. Se ha bisogno, sono nella mia camera. Buonanotte».
Senza aspettare risposta, il giovane prete accostò con misurata lentezza la porta della stanza del vecchio parroco per dargli il tempo, se lo avesse voluto, di impartirgli altri ordini. Nessun suono si udì dall'interno, ed egli andò via.
Don Libero chiuse il testo in ebraico del Qoèlet, lo poggiò sul piccolo tavolo lì accanto e vi sistemò sopra gli occhiali da lettura. Si alzò adagio dalla poltrona e infilò sulla tonaca un vecchio cardigan di lana nera. Uscì dalla stanza senza spegnere l'abat-jour e senza inchinarsi, come suo solito, all'immagine della Madonna che stava accanto alla luce dorata.
Scese le scale al buio, un gradino dopo l'altro, lentamente. Entrò in sagrestia e richiuse a chiave la porta dietro di sé; non ebbe bisogno di accendere la luce perché conosceva a memoria ogni centimetro della piccola sala. Arrivò alla porta dalla quale si accedeva all'altare, l'aprì senza difficoltà e chiuse anch'essa alle proprie spalle. Non accese neppure le luci della chiesa: gli era sufficiente il chiarore che vi penetrava attraverso le larghe finestre piombate e copriva di trame lattiginose il maestoso crocifisso di legno appeso alla parete dietro l'altare.
A Don Libero interessava unicamente fissare quel crocifisso. Se le luci perlate dei lampioni e delle case non lo avessero reso visibile ai suoi occhi, se lì dentro vi fossero state le tenebre, per lui non vi sarebbe stata differenza: egli conosceva ogni minuta sporgenza di quel Cristo, ne sentiva il calore e la freddezza, perché molte volte le sue dita si erano addentrate nelle ferite di quei piedi contorti e schiacciati uno sull'altro dai chiodi, ed erano risalite su, fin dove potevano arrivare, a sfiorare le gambe coi nervi in rilievo e le gocce scolpite di sangue e sudore. Poggiò la schiena all'altare e ne fissò il costato.
E l’Eterno disse a Mosè: "Ecco, io verrò a te in una folta nuvola, affinché il popolo oda quand’io parlerò con te, e ti presti fede per sempre".
Il vecchio prete salì con lo sguardo alla testa reclinata da un lato e alle braccia esauste: i suoi occhi indugiarono tra i chiodi che foravano le mani. Le stesse mani delle quali egli aveva ripetuto per tanti anni il gesto sacro di spezzare il pane e versare il vino. Un microcosmo di pazzia è l'uomo, egli pensò, e desiderò in quel momento di non essere mai nato. Era un verme della terra, una lurida bestia infedele. Avrebbe voluto infilarsi le dita nelle orbite, cavarsi fuori gli occhi e tirarli contro quel legno muto. Strapparsi gli ultimi capelli della testa, aprirsi lo sterno e gettare il suo cuore sul costato da cui zampillavano gocce di legno. Dio taceva con lui da decenni, ormai. Anche la più lunga delle notti oscure egli sapeva che aveva avuto una fine: o aveva frainteso le parole di Giovanni della Croce?
«Tu mi ha fatto innamorare di te ch'ero un ragazzo, e per tanti anni mi hai amato» sussurrava Don Libero con rabbia. «Io ti ho servito degnamente, e ti ho amato senza misura. La mia vita era tua, la mia vita è trascorsa nel desiderio di conoscerti. Tu hai cessato di amarmi. Tu non mi hai mai più parlato. Tu non esisti. Io sto per morire, e non troverò le tue braccia ad accogliermi. Tu mi hai ingannato. Io non ho figli, non ho avuto moglie, né una casa. Tu stesso affermi: "Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi". Io vorrei non averti mai conosciuto. I miei genitori morti, i miei fratelli morti, le persone a cui ho voluto bene sono ossa e polvere. Non incontrerò più nessuno di loro, perché non vi è il luogo in cui ti vedrò faccia a faccia. La morte ha l'ultima parola. Io ho ingannato me stesso, e non so come ciò sia potuto accadere. Non vi è luce in me, perché tu non esisti».
Il prete sentì nelle gambe una grande stanchezza. Lentamente si mise seduto e poggiò la schiena dolorante al basamento di marmo bianco dell'altare. Prese il volto nelle mani ed emise un lungo gemito. Il corpo si piegò da una parte ed egli rimase così, accasciato su un lato, tra l'altare e il crocifisso. Il suo piccolo corpo buio si confondeva nel nero della chiesa. Nel pianto stringeva i pugni e li batteva contro le tempie, fino a provare dolore. Poi la vecchiezza ebbe la meglio e un sonno leggero chiuse i suoi occhi.
Vide il prato dove correva bambino e le lenzuola bianche stese al vento d'estate; e dietro di esse, in lontananza, la madre con la cesta del bucato poggiata su un fianco. «Libero! Hai munto la vacca? Porta il latte alla nonna, e poi va' dal babbo: oggi al paese c'è la fiera, ricordi? Mi porti una trina per la toletta, se vedi comare Teresa? Libero! Ti voglio bene!». E vide i denti bianchi nel sorriso e i fratelli intorno a lei, e il cucciolo di cane che gli correva incontro per rotolarsi insieme a lui nel campo, e il sole immenso, e i fiordalisi.
Senza aspettare risposta, il giovane prete accostò con misurata lentezza la porta della stanza del vecchio parroco per dargli il tempo, se lo avesse voluto, di impartirgli altri ordini. Nessun suono si udì dall'interno, ed egli andò via.
Don Libero chiuse il testo in ebraico del Qoèlet, lo poggiò sul piccolo tavolo lì accanto e vi sistemò sopra gli occhiali da lettura. Si alzò adagio dalla poltrona e infilò sulla tonaca un vecchio cardigan di lana nera. Uscì dalla stanza senza spegnere l'abat-jour e senza inchinarsi, come suo solito, all'immagine della Madonna che stava accanto alla luce dorata.
Scese le scale al buio, un gradino dopo l'altro, lentamente. Entrò in sagrestia e richiuse a chiave la porta dietro di sé; non ebbe bisogno di accendere la luce perché conosceva a memoria ogni centimetro della piccola sala. Arrivò alla porta dalla quale si accedeva all'altare, l'aprì senza difficoltà e chiuse anch'essa alle proprie spalle. Non accese neppure le luci della chiesa: gli era sufficiente il chiarore che vi penetrava attraverso le larghe finestre piombate e copriva di trame lattiginose il maestoso crocifisso di legno appeso alla parete dietro l'altare.
A Don Libero interessava unicamente fissare quel crocifisso. Se le luci perlate dei lampioni e delle case non lo avessero reso visibile ai suoi occhi, se lì dentro vi fossero state le tenebre, per lui non vi sarebbe stata differenza: egli conosceva ogni minuta sporgenza di quel Cristo, ne sentiva il calore e la freddezza, perché molte volte le sue dita si erano addentrate nelle ferite di quei piedi contorti e schiacciati uno sull'altro dai chiodi, ed erano risalite su, fin dove potevano arrivare, a sfiorare le gambe coi nervi in rilievo e le gocce scolpite di sangue e sudore. Poggiò la schiena all'altare e ne fissò il costato.
E l’Eterno disse a Mosè: "Ecco, io verrò a te in una folta nuvola, affinché il popolo oda quand’io parlerò con te, e ti presti fede per sempre".
Il vecchio prete salì con lo sguardo alla testa reclinata da un lato e alle braccia esauste: i suoi occhi indugiarono tra i chiodi che foravano le mani. Le stesse mani delle quali egli aveva ripetuto per tanti anni il gesto sacro di spezzare il pane e versare il vino. Un microcosmo di pazzia è l'uomo, egli pensò, e desiderò in quel momento di non essere mai nato. Era un verme della terra, una lurida bestia infedele. Avrebbe voluto infilarsi le dita nelle orbite, cavarsi fuori gli occhi e tirarli contro quel legno muto. Strapparsi gli ultimi capelli della testa, aprirsi lo sterno e gettare il suo cuore sul costato da cui zampillavano gocce di legno. Dio taceva con lui da decenni, ormai. Anche la più lunga delle notti oscure egli sapeva che aveva avuto una fine: o aveva frainteso le parole di Giovanni della Croce?
«Tu mi ha fatto innamorare di te ch'ero un ragazzo, e per tanti anni mi hai amato» sussurrava Don Libero con rabbia. «Io ti ho servito degnamente, e ti ho amato senza misura. La mia vita era tua, la mia vita è trascorsa nel desiderio di conoscerti. Tu hai cessato di amarmi. Tu non mi hai mai più parlato. Tu non esisti. Io sto per morire, e non troverò le tue braccia ad accogliermi. Tu mi hai ingannato. Io non ho figli, non ho avuto moglie, né una casa. Tu stesso affermi: "Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi". Io vorrei non averti mai conosciuto. I miei genitori morti, i miei fratelli morti, le persone a cui ho voluto bene sono ossa e polvere. Non incontrerò più nessuno di loro, perché non vi è il luogo in cui ti vedrò faccia a faccia. La morte ha l'ultima parola. Io ho ingannato me stesso, e non so come ciò sia potuto accadere. Non vi è luce in me, perché tu non esisti».
Il prete sentì nelle gambe una grande stanchezza. Lentamente si mise seduto e poggiò la schiena dolorante al basamento di marmo bianco dell'altare. Prese il volto nelle mani ed emise un lungo gemito. Il corpo si piegò da una parte ed egli rimase così, accasciato su un lato, tra l'altare e il crocifisso. Il suo piccolo corpo buio si confondeva nel nero della chiesa. Nel pianto stringeva i pugni e li batteva contro le tempie, fino a provare dolore. Poi la vecchiezza ebbe la meglio e un sonno leggero chiuse i suoi occhi.
Vide il prato dove correva bambino e le lenzuola bianche stese al vento d'estate; e dietro di esse, in lontananza, la madre con la cesta del bucato poggiata su un fianco. «Libero! Hai munto la vacca? Porta il latte alla nonna, e poi va' dal babbo: oggi al paese c'è la fiera, ricordi? Mi porti una trina per la toletta, se vedi comare Teresa? Libero! Ti voglio bene!». E vide i denti bianchi nel sorriso e i fratelli intorno a lei, e il cucciolo di cane che gli correva incontro per rotolarsi insieme a lui nel campo, e il sole immenso, e i fiordalisi.
Citazioni nel racconto:
Esodo, 19,9: "E l’Eterno disse a Mosè: "Ecco, io verrò a te in una folta nuvola, affinché il popolo oda quand’io parlerò con te, e ti presti fede per sempre".
"Un microcosmo di pazzia è l'uomo", Mefistofele nel Faust.
Qoèlet, 1,11: "Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi".
Prima Lettera ai Corinzi, 13,12: "Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia".
Esodo, 19,9: "E l’Eterno disse a Mosè: "Ecco, io verrò a te in una folta nuvola, affinché il popolo oda quand’io parlerò con te, e ti presti fede per sempre".
"Un microcosmo di pazzia è l'uomo", Mefistofele nel Faust.
Qoèlet, 1,11: "Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi".
Prima Lettera ai Corinzi, 13,12: "Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia".