[N20-3] Stay Free: una traccia del passato
Posted: Fri Jan 15, 2021 4:31 pm
Traccia del Pacco 9
«Bello stronzo il tuo capo. Ma ha il diritto di chiederti una cosa simile? Sicuro che non ti secchi toglierlo?»
«No, Luca, quando mai. Non ricordavo nemmeno più che fosse lì.»
Aveva risposto così all'amico ed era stato sincero: aveva quella scritta sulla pelle da così tanto tempo che ormai non la vedeva nemmeno più guardandosi nudo in uno specchio. Era come un qualsiasi altro aspetto del suo corpo: i nei sulla spalla e sul fianco, la peluria bionda sotto l’ombelico, le fossette dietro le anche, che piacevano tanto ad Anna, a tutte le donne con cui era stato, a dir la verità.
Da quanto non ci faceva più caso? Le donne si lamentano spesso che non le guardi più, quando ci vivi assieme da troppi anni, dicono che è il segno che hai perso interesse, che l’amore è svanito. Sorrise: forse aveva perso interesse anche per se stesso. Erano secoli che non gli capitava di osservarsi con attenzione.
Gli occhi fissi sullo specchio, sfiorò con un dito il bordo delle lettere che sbucava appena dalla scollatura della maglietta. Un’onda nera che accarezzava il limite tra il torso e la base del collo. Sfilò la maglia e osservò il tatuaggio come se lo vedesse per la prima volta. Di nuovo, con il dito percorse lentamente il tracciato scuro: We'll burn it fuckin'down.
Dopo tanti anni il senso era evaporato dalle parole, lasciando solo dei ghirigori neri alla base del collo. Una stronzata da ragazzini, avrebbe dovuto farlo togliere già molti anni prima, non aspettare di esserci costretto da esigenze di carriera.
La carriera. Il Serse che aveva deciso di farsi tatuare pezzi di Stay free sul corpo se ne fotteva della carriera.
«Ma sei diventato completamente scemo, sì? Come cazzo lo trovi un impiego, poi, con quella merda stampata addosso.»
Se le ricordava bene le urla di suo padre quel giorno. Per un attimo aveva creduto che stesse per venirgli un infarto. Ci aveva quasi sperato e aveva fatto di tutto per farlo infuriare ancora di più.
«E chi lo vuole un impiego. Come il tuo magari, e farmi trattare di merda per tutta la vita da un padrone per due soldi e le ferie a Ostia? Meglio crepare libero. E vivo.»
Si era messo d’impegno a urlare sempre più forte, a minacciare di farsele tatuare in faccia, quelle parole. Libero, né patria né padrone, meglio morire giovani che non aver vissuto… ci credeva davvero a quelle cose, ma per l’occasione aveva sovraccaricato la dose per far andare il vecchio fuori di sé, per fargli saltare le coronarie. Che avevano retto, nonostante tutto. Sarebbero saltate solo alcuni anni dopo. Senza responsabilità da parte sua, almeno non diretta. E aveva capito di odiarlo meno di quanto avesse sempre creduto. Si era abbottonato la camicia come un seminarista, per il funerale: nascondere il tatuaggio era stato il suo omaggio.
Serse chiuse gli occhi, la punta delle dita ancora posate sulla scritta. Respirò, cercando di uscire dal se stesso di vent’anni prima e tornare al presente. Fu il telefono ad aiutarlo.
«Bro, ci vieni allora?»
Gli ci vollero alcuni istanti per fare mente locale e capire a cosa si riferisse Luca: dovevano vedersi per bere qualcosa al solito posto, la Scintilla.
«Bro, ci sei?»
«Sì, ci sono, e piantala con ‘sto Bro che sembri scemo.»
«Che cazzo hai mangiato a pranzo, un toast alla simpatia? D’accordo, signor Reggiani Serse, allora ci vediamo stasera o il tuo capo vuole che cancelli anche gli amici?»
«Ma piantala, certo che ci vediamo. A dopo.»
Con le luci troppo basse era difficile anche leggere la lista delle bevande. Forse per quello tutti ordinavano senza guardarla. Nella sala la puzza di fumo si sovrapponeva a un cocktail olfattivo di sudore, odore di birra e profumi sintetici, come sempre. La gente urlava, rideva, c’era chi ballava, e chi ondeggiava, più o meno al ritmo delle note di London calling.
«Carlo non riesce a venire: Enza ha il turno di sera e non può lasciare la bambina a casa da sola.»
Serse fissò lo sguardo sulla bottiglia vuota: che palle, anche lì no! Già Anna cominciava a teorizzare di tappe, evoluzioni, orologio biologico. Era tanto più facile quando si parlava solo di musica, sesso e mondo da rifare.
«Un’altra?»
Annuì in direzione della bottiglia di Amsteel vuota agitata dall’amico. La birra avrebbe aiutato a smorzare il bruciore che sentiva in fondo al palato.
"Affinché la morte ci trovi vivi e la vita non ci trovi morti" era il benvenuto che li aveva accolti dai muri di Bologna quando, dopo aver sgomitato con insistenza nella folla di ragazzi urlanti per riuscire a scendere per primi dal treno, si erano incamminati verso piazza Maggiore.
Non poteva desiderare altro: i suoi tre amici di sempre, una birra per mano e il Concerto. 1980, The Clash per la prima volta a Bologna. La gente era affluita da tutta Italia per assistere all’evento.
Avevano fatto gli idioti mentre le band di supporto si alternavano sul palco. C’era chi fischiava e urlava contro l’organizzazione, ma loro non si erano quasi accorti del tempo che passava, saturi di eccitazione e delle tante birre bevute sul treno e poi lì sul prato. Ricordava il nervosismo sempre più vivo, intorno, quando l’attesa per l’arrivo in scena dei Clash aveva iniziato a farsi lunga: c’era chi si spintonava e qualche esagitato aveva anche tentato di salire sul palco. Per lui quell’attesa non era stata affatto noiosa. Poteva quasi sentire ancora sulla lingua la morbidezza delle labbra della tipa rossa che si era ritrovato praticamente in braccio. A volte la mente fa strani scherzi: a distanza di vent'anni ricordava ancora il nome, Chiara. Avevano parlato di un sacco di cose: della musica, certo, ma anche dei progetti, il suo di andare a Londra, uscire dalla mentalità provinciale e gretta in cui era cresciuto, lei… No, quello non se lo ricordava, ma le sue labbra, come se le toccasse ancora.
Fu un'onda del pubblico in delirio alla comparsa di Strummer sul palco a separarli. Serse perse l’equilibrio e, forse a causa dell'alcool, cadde, anche se di spazio pigiati lì in mezzo non ce n'era molto. Quando si rialzò Chiara era scomparsa. La cercò con gli occhi, ma era impossibile ritrovare qualcuno in quel marasma, e il concerto assorbì presto tutta la sua attenzione. Solo alla fine, dopo quel terzo bis quasi irreale, quando ormai erano rimasti in pochi fedelissimi ancora sul prato, tra cadaveri di bottiglie e spettatori crollati in un sonno alcolico, tentò di ritrovarla, chiese aiuto agli amici, ma quelli non avevano visto nulla e non ricordavano rosse, meravigliose o meno, e invece di dargli una mano cominciarono a prenderlo in giro.
«Cosa hai messo nella birra, coglione? Guarda che alla stazione in spalla non ti ci porto, ripigliati!» lo aveva avvisato Luca.
«Ti giuro che non ho sognato niente, sarà stata qui accanto almeno venti minuti. Siete dei cretini, e mezzi ciecati. Mi sono innamorato.»
Era sicuro di non averla sognata ma non si era innamorato né l’aveva mai più cercata, però quella sera, anche grazie a lei, aveva capito che voleva vivere così: libero, intenso, senza schemi o catene. E se lo era fatto tatuare sul collo.
Darling, you got to let me know
Should I stay or should I go?...
«Questa la mettono sempre a quest'ora, usano la solita playlist da anni, dovrebbero rinnovarsi un po'» osservò Luca mentre seguiva con gli occhi una minigonna di paillettes blu molto ben riempita.
«Ma se tutti la vogliono. Guardati in giro...»
«Lo sto facendo, amico, visto Miss Belculo?»
«Smettila, avrà sì e no vent'anni. Lo sai quanti ne hai tu? Ti dicevo: tutti i presenti tengono il tempo del pezzo. Piace, non si può negarlo. I Clash sono intramontabili. Ti ricordi il concerto a Bologna?»
Luca tornò a fissare l'amico dato che Belculo era ormai fuori dal campo visivo.
«Mi ricordo, eccome: grandioso. Se non sbaglio è stata l'ultima cosa figa che abbiamo fatto tutti insieme prima che ci mollassi da soli in questa merda di paesotto per andare alla conquista di Londra.»
«Alla conquista? Dai, sfottimi ancora.»
Pensare all’esperienza londinese gli rievocava sensazioni che avrebbe preferito dimenticare.
«Cazzo, che schifo, guys!» Serse aveva urlato con tutto lo sdegno possibile. «Chi cazzo di voi ha lasciato nel cesso uno stronzo puzzolente grosso come una boa di segnalazione?»
Trattenne un conato di vomito: il pulsante dello sciacquone era ricoperto da una patina, non voleva nemmeno immaginare di cosa.
Che vita di merda! Anche pisciare era diventato un inferno. Per cosa, poi? Per una misera manciata di sterline a settimana che coprivano a fatica l'affitto di quella topaia divisa con altri tre stronzi come lui.
Scendendo le scale coperte da una moquette che forse in origine era stata celeste, ma ormai di un grigio topo, cercò di ricordarsi con quante aspettative si era buttato in quell'avventura. La musica, la metropoli, la libertà, le opportunità, le ragazze inglesi. Quante illusioni! Era ritornato presto con i piedi per terra e quel suolo era coperto di merda. Lavorava come uno schiavo perché lo stipendio era ridicolo e la città troppo cara, di tempo libero ne rimaneva poco, di energie ancora meno, la musica ormai la sentiva solo nelle stazioni della metro quando aspettava di tornare, sfatto, in quell’appartamento decrepito. E i coinquilini si erano trasformati in una vera piaga.
Si buttò steso sul letto e ripensò alla telefonata della madre la sera prima. Un buon posto, un'azienda solida, vicino a casa. Tutto quello da cui era scappato, eppure ora gli sembrava l’unica isola per il suo naufragio. Non lo avrebbero aspettato molto. Doveva decidersi.
Tre giorni dopo lui e lo zaino, così pieno che non era riuscito a chiuderlo, avevano imbarcato a London Stansted su un volo per l’Italia.
«Luca, vado. Sono stanco. Domani devo rivedere col mio capo alcune questioni in vista della promozione e devo prendere appuntamento per far rimuovere “l'orribile scarabocchio che non si addice a colui che rappresenta l'azienda in Europa”. Ci vediamo.»
«Ti senti bene, amore?»
«Sono solo eccitato per le novità sul lavoro.»
Il capo, al mattino, gli fece una battuta sul suo aspetto “poco in salute” e sulle occhiaie bluastre che si intonavano col completo grigio
«Non hai cambiato idea per lo scarabocchio, eh?»
«No» si trattenne dall’aggiungere un coglione e sorrise.
La mattinata passò in fretta, Serse non aveva fame e decise di trascorrere la pausa pranzo facendo una passeggiata. Erano i primi giorni di settembre, il sole era ancora piacevole e limpido come quello estivo.
Al rientro trovò i colleghi in subbuglio appiccicati ai monitor o ai televisori. Nelle stanze rimbombava la voce dello stesso commentatore televisivo: tutti, ma proprio tutti, dal portinaio al grande capo, fissavano le stesse immagini. Che cazzo era successo?
“L'America sotto attacco”
“Un attentato terroristico sta sconvolgendo gli Stati Uniti”
“Il terrore arriva dal cielo”
Immagini di fumo e fiamme riempivano gli schermi. Le urla della gente per strada a New York, le centinaia di morti che aumentavano di minuto in minuto, la paura, l'orrore che non finiva, gli annunci: uno, due, tre aerei dirottati.
Serse si lasciò cadere su una sedia.
Era la fine del mondo come dicevano in televisione? Di sicuro stava finendo il suo, di mondo. La sua carriera stava prendendo una piega importante e lui, finalmente, stava per fare il grande passo che suo padre avrebbe sempre desiderato.
Stava per “mettere la testa a posto” “diventare qualcuno” “un uomo rispettabile”. Era quello che voleva anche lui, e Anna, certo, però quella gente che si buttava dalle finestre dei grattacieli in fiamme gli ricordava come la vita potesse arrestarsi da un momento all’altro, senza preavviso. Doveva davvero rinunciare a tutto, a ogni traccia del sé stesso ventenne, a un pezzo della propria anima, solo per entrare nello stampo del bravo borghese? Non c’erano vie d’uscita? Lavorare, obbedire, adeguarsi?
Appena giunto davanti allo specchio slacciò i primi bottoni della camicia e la allargò: il lato destro del collo era ancora un po’ gonfio e rosso ma di scarabocchi neri nemmeno l'ombra. Abbassò le spalle espirando: era andata.
«È stato molto doloroso?» gli urlò Anna dalla cucina. Aveva dovuto alzare la voce perché la ventola della cappa era accesa alla massima velocità. Stasera pesce, ricordò Serse.
«No, tesoro, non è stato poi così terribile». Si accorse di aver parlato con una voce buffa, aveva la lingua un po’ intorpidita.
«Come hai detto, scusa?»
«Dico che mi sento bene» urlò ammiccando allo specchio e concluse con una linguaccia soddisfatta. Sotto la lingua si stagliava un cerchio nero solcato dalla A di Anarchia.
Il racconto deve ruotare intorno a una traccia, che sia una traccia da seguire per un'indagine, la traccia di un album musicale che fa uno strano effetto sui protagonisti, la traccia di un animale strano trovato nel bosco, traccia lasciata dalla ruota di un’auto, la scia di una lumaca o una traccia luminosa. Aprite il vocabolario, scegliete il significato che più vi piace, e scrivete un racconto.
Boa: è facile, dai. Deve comparire una boa, che sia una boa delle acque sicure, il serpente, una donna grassa che sembra una boa.
Boa: è facile, dai. Deve comparire una boa, che sia una boa delle acque sicure, il serpente, una donna grassa che sembra una boa.
«Bello stronzo il tuo capo. Ma ha il diritto di chiederti una cosa simile? Sicuro che non ti secchi toglierlo?»
«No, Luca, quando mai. Non ricordavo nemmeno più che fosse lì.»
Aveva risposto così all'amico ed era stato sincero: aveva quella scritta sulla pelle da così tanto tempo che ormai non la vedeva nemmeno più guardandosi nudo in uno specchio. Era come un qualsiasi altro aspetto del suo corpo: i nei sulla spalla e sul fianco, la peluria bionda sotto l’ombelico, le fossette dietro le anche, che piacevano tanto ad Anna, a tutte le donne con cui era stato, a dir la verità.
Da quanto non ci faceva più caso? Le donne si lamentano spesso che non le guardi più, quando ci vivi assieme da troppi anni, dicono che è il segno che hai perso interesse, che l’amore è svanito. Sorrise: forse aveva perso interesse anche per se stesso. Erano secoli che non gli capitava di osservarsi con attenzione.
Gli occhi fissi sullo specchio, sfiorò con un dito il bordo delle lettere che sbucava appena dalla scollatura della maglietta. Un’onda nera che accarezzava il limite tra il torso e la base del collo. Sfilò la maglia e osservò il tatuaggio come se lo vedesse per la prima volta. Di nuovo, con il dito percorse lentamente il tracciato scuro: We'll burn it fuckin'down.
Dopo tanti anni il senso era evaporato dalle parole, lasciando solo dei ghirigori neri alla base del collo. Una stronzata da ragazzini, avrebbe dovuto farlo togliere già molti anni prima, non aspettare di esserci costretto da esigenze di carriera.
La carriera. Il Serse che aveva deciso di farsi tatuare pezzi di Stay free sul corpo se ne fotteva della carriera.
«Ma sei diventato completamente scemo, sì? Come cazzo lo trovi un impiego, poi, con quella merda stampata addosso.»
Se le ricordava bene le urla di suo padre quel giorno. Per un attimo aveva creduto che stesse per venirgli un infarto. Ci aveva quasi sperato e aveva fatto di tutto per farlo infuriare ancora di più.
«E chi lo vuole un impiego. Come il tuo magari, e farmi trattare di merda per tutta la vita da un padrone per due soldi e le ferie a Ostia? Meglio crepare libero. E vivo.»
Si era messo d’impegno a urlare sempre più forte, a minacciare di farsele tatuare in faccia, quelle parole. Libero, né patria né padrone, meglio morire giovani che non aver vissuto… ci credeva davvero a quelle cose, ma per l’occasione aveva sovraccaricato la dose per far andare il vecchio fuori di sé, per fargli saltare le coronarie. Che avevano retto, nonostante tutto. Sarebbero saltate solo alcuni anni dopo. Senza responsabilità da parte sua, almeno non diretta. E aveva capito di odiarlo meno di quanto avesse sempre creduto. Si era abbottonato la camicia come un seminarista, per il funerale: nascondere il tatuaggio era stato il suo omaggio.
Serse chiuse gli occhi, la punta delle dita ancora posate sulla scritta. Respirò, cercando di uscire dal se stesso di vent’anni prima e tornare al presente. Fu il telefono ad aiutarlo.
«Bro, ci vieni allora?»
Gli ci vollero alcuni istanti per fare mente locale e capire a cosa si riferisse Luca: dovevano vedersi per bere qualcosa al solito posto, la Scintilla.
«Bro, ci sei?»
«Sì, ci sono, e piantala con ‘sto Bro che sembri scemo.»
«Che cazzo hai mangiato a pranzo, un toast alla simpatia? D’accordo, signor Reggiani Serse, allora ci vediamo stasera o il tuo capo vuole che cancelli anche gli amici?»
«Ma piantala, certo che ci vediamo. A dopo.»
Con le luci troppo basse era difficile anche leggere la lista delle bevande. Forse per quello tutti ordinavano senza guardarla. Nella sala la puzza di fumo si sovrapponeva a un cocktail olfattivo di sudore, odore di birra e profumi sintetici, come sempre. La gente urlava, rideva, c’era chi ballava, e chi ondeggiava, più o meno al ritmo delle note di London calling.
«Carlo non riesce a venire: Enza ha il turno di sera e non può lasciare la bambina a casa da sola.»
Serse fissò lo sguardo sulla bottiglia vuota: che palle, anche lì no! Già Anna cominciava a teorizzare di tappe, evoluzioni, orologio biologico. Era tanto più facile quando si parlava solo di musica, sesso e mondo da rifare.
«Un’altra?»
Annuì in direzione della bottiglia di Amsteel vuota agitata dall’amico. La birra avrebbe aiutato a smorzare il bruciore che sentiva in fondo al palato.
"Affinché la morte ci trovi vivi e la vita non ci trovi morti" era il benvenuto che li aveva accolti dai muri di Bologna quando, dopo aver sgomitato con insistenza nella folla di ragazzi urlanti per riuscire a scendere per primi dal treno, si erano incamminati verso piazza Maggiore.
Non poteva desiderare altro: i suoi tre amici di sempre, una birra per mano e il Concerto. 1980, The Clash per la prima volta a Bologna. La gente era affluita da tutta Italia per assistere all’evento.
Avevano fatto gli idioti mentre le band di supporto si alternavano sul palco. C’era chi fischiava e urlava contro l’organizzazione, ma loro non si erano quasi accorti del tempo che passava, saturi di eccitazione e delle tante birre bevute sul treno e poi lì sul prato. Ricordava il nervosismo sempre più vivo, intorno, quando l’attesa per l’arrivo in scena dei Clash aveva iniziato a farsi lunga: c’era chi si spintonava e qualche esagitato aveva anche tentato di salire sul palco. Per lui quell’attesa non era stata affatto noiosa. Poteva quasi sentire ancora sulla lingua la morbidezza delle labbra della tipa rossa che si era ritrovato praticamente in braccio. A volte la mente fa strani scherzi: a distanza di vent'anni ricordava ancora il nome, Chiara. Avevano parlato di un sacco di cose: della musica, certo, ma anche dei progetti, il suo di andare a Londra, uscire dalla mentalità provinciale e gretta in cui era cresciuto, lei… No, quello non se lo ricordava, ma le sue labbra, come se le toccasse ancora.
Fu un'onda del pubblico in delirio alla comparsa di Strummer sul palco a separarli. Serse perse l’equilibrio e, forse a causa dell'alcool, cadde, anche se di spazio pigiati lì in mezzo non ce n'era molto. Quando si rialzò Chiara era scomparsa. La cercò con gli occhi, ma era impossibile ritrovare qualcuno in quel marasma, e il concerto assorbì presto tutta la sua attenzione. Solo alla fine, dopo quel terzo bis quasi irreale, quando ormai erano rimasti in pochi fedelissimi ancora sul prato, tra cadaveri di bottiglie e spettatori crollati in un sonno alcolico, tentò di ritrovarla, chiese aiuto agli amici, ma quelli non avevano visto nulla e non ricordavano rosse, meravigliose o meno, e invece di dargli una mano cominciarono a prenderlo in giro.
«Cosa hai messo nella birra, coglione? Guarda che alla stazione in spalla non ti ci porto, ripigliati!» lo aveva avvisato Luca.
«Ti giuro che non ho sognato niente, sarà stata qui accanto almeno venti minuti. Siete dei cretini, e mezzi ciecati. Mi sono innamorato.»
Era sicuro di non averla sognata ma non si era innamorato né l’aveva mai più cercata, però quella sera, anche grazie a lei, aveva capito che voleva vivere così: libero, intenso, senza schemi o catene. E se lo era fatto tatuare sul collo.
Darling, you got to let me know
Should I stay or should I go?...
«Questa la mettono sempre a quest'ora, usano la solita playlist da anni, dovrebbero rinnovarsi un po'» osservò Luca mentre seguiva con gli occhi una minigonna di paillettes blu molto ben riempita.
«Ma se tutti la vogliono. Guardati in giro...»
«Lo sto facendo, amico, visto Miss Belculo?»
«Smettila, avrà sì e no vent'anni. Lo sai quanti ne hai tu? Ti dicevo: tutti i presenti tengono il tempo del pezzo. Piace, non si può negarlo. I Clash sono intramontabili. Ti ricordi il concerto a Bologna?»
Luca tornò a fissare l'amico dato che Belculo era ormai fuori dal campo visivo.
«Mi ricordo, eccome: grandioso. Se non sbaglio è stata l'ultima cosa figa che abbiamo fatto tutti insieme prima che ci mollassi da soli in questa merda di paesotto per andare alla conquista di Londra.»
«Alla conquista? Dai, sfottimi ancora.»
Pensare all’esperienza londinese gli rievocava sensazioni che avrebbe preferito dimenticare.
«Cazzo, che schifo, guys!» Serse aveva urlato con tutto lo sdegno possibile. «Chi cazzo di voi ha lasciato nel cesso uno stronzo puzzolente grosso come una boa di segnalazione?»
Trattenne un conato di vomito: il pulsante dello sciacquone era ricoperto da una patina, non voleva nemmeno immaginare di cosa.
Che vita di merda! Anche pisciare era diventato un inferno. Per cosa, poi? Per una misera manciata di sterline a settimana che coprivano a fatica l'affitto di quella topaia divisa con altri tre stronzi come lui.
Scendendo le scale coperte da una moquette che forse in origine era stata celeste, ma ormai di un grigio topo, cercò di ricordarsi con quante aspettative si era buttato in quell'avventura. La musica, la metropoli, la libertà, le opportunità, le ragazze inglesi. Quante illusioni! Era ritornato presto con i piedi per terra e quel suolo era coperto di merda. Lavorava come uno schiavo perché lo stipendio era ridicolo e la città troppo cara, di tempo libero ne rimaneva poco, di energie ancora meno, la musica ormai la sentiva solo nelle stazioni della metro quando aspettava di tornare, sfatto, in quell’appartamento decrepito. E i coinquilini si erano trasformati in una vera piaga.
Si buttò steso sul letto e ripensò alla telefonata della madre la sera prima. Un buon posto, un'azienda solida, vicino a casa. Tutto quello da cui era scappato, eppure ora gli sembrava l’unica isola per il suo naufragio. Non lo avrebbero aspettato molto. Doveva decidersi.
Tre giorni dopo lui e lo zaino, così pieno che non era riuscito a chiuderlo, avevano imbarcato a London Stansted su un volo per l’Italia.
«Luca, vado. Sono stanco. Domani devo rivedere col mio capo alcune questioni in vista della promozione e devo prendere appuntamento per far rimuovere “l'orribile scarabocchio che non si addice a colui che rappresenta l'azienda in Europa”. Ci vediamo.»
***
Serse passò un'altra nottata tra camera da letto e cucina: sudava e sentiva un gran bisogno di bere. Svegliò un paio di volte anche Anna a forza di rimbalzare sul materasso per il nervoso. «Ti senti bene, amore?»
«Sono solo eccitato per le novità sul lavoro.»
Il capo, al mattino, gli fece una battuta sul suo aspetto “poco in salute” e sulle occhiaie bluastre che si intonavano col completo grigio
«Non hai cambiato idea per lo scarabocchio, eh?»
«No» si trattenne dall’aggiungere un coglione e sorrise.
La mattinata passò in fretta, Serse non aveva fame e decise di trascorrere la pausa pranzo facendo una passeggiata. Erano i primi giorni di settembre, il sole era ancora piacevole e limpido come quello estivo.
Al rientro trovò i colleghi in subbuglio appiccicati ai monitor o ai televisori. Nelle stanze rimbombava la voce dello stesso commentatore televisivo: tutti, ma proprio tutti, dal portinaio al grande capo, fissavano le stesse immagini. Che cazzo era successo?
“L'America sotto attacco”
“Un attentato terroristico sta sconvolgendo gli Stati Uniti”
“Il terrore arriva dal cielo”
Immagini di fumo e fiamme riempivano gli schermi. Le urla della gente per strada a New York, le centinaia di morti che aumentavano di minuto in minuto, la paura, l'orrore che non finiva, gli annunci: uno, due, tre aerei dirottati.
Serse si lasciò cadere su una sedia.
Era la fine del mondo come dicevano in televisione? Di sicuro stava finendo il suo, di mondo. La sua carriera stava prendendo una piega importante e lui, finalmente, stava per fare il grande passo che suo padre avrebbe sempre desiderato.
Stava per “mettere la testa a posto” “diventare qualcuno” “un uomo rispettabile”. Era quello che voleva anche lui, e Anna, certo, però quella gente che si buttava dalle finestre dei grattacieli in fiamme gli ricordava come la vita potesse arrestarsi da un momento all’altro, senza preavviso. Doveva davvero rinunciare a tutto, a ogni traccia del sé stesso ventenne, a un pezzo della propria anima, solo per entrare nello stampo del bravo borghese? Non c’erano vie d’uscita? Lavorare, obbedire, adeguarsi?
***
Rientrò a casa più tardi del solito. Katia aveva voluto che il lavoro fosse perfetto, maniacale come ogni artista: «arrossamento e gonfiori spariranno in qualche giorno» gli aveva assicurato.Appena giunto davanti allo specchio slacciò i primi bottoni della camicia e la allargò: il lato destro del collo era ancora un po’ gonfio e rosso ma di scarabocchi neri nemmeno l'ombra. Abbassò le spalle espirando: era andata.
«È stato molto doloroso?» gli urlò Anna dalla cucina. Aveva dovuto alzare la voce perché la ventola della cappa era accesa alla massima velocità. Stasera pesce, ricordò Serse.
«No, tesoro, non è stato poi così terribile». Si accorse di aver parlato con una voce buffa, aveva la lingua un po’ intorpidita.
«Come hai detto, scusa?»
«Dico che mi sento bene» urlò ammiccando allo specchio e concluse con una linguaccia soddisfatta. Sotto la lingua si stagliava un cerchio nero solcato dalla A di Anarchia.