[N20-3] Una fuga sbagliata
Posted: Fri Jan 15, 2021 2:01 pm
Pacco 4 Traccia: ricordo quella volta che...
Ti ricordi cos'è successo quella volta? A ripensarci adesso, quella volta hai proprio sbagliato.
Una reazione sbagliata, una parola di troppo, un fraintendimento... Raccontaci di un errore e di un ripensamento.
Avevo 17 anni, tanta voglia di sbagliare e una punizione sulla testa che ritenevo esagerata.
Siccome quell’anno ero stata rimandata in tre materie: filosofia, psicologia e latino, (bocciatura assicurata), i miei genitori mi avevano proibito di uscire.
Immaginati come mi potevo sentire... tutti i miei amici a spasso, al mare, campeggio, sagre, feste, discoteche e io… costretta a stare chiusa in casa. Non potevo incontrare nessuno, parlare con nessuno, solo la mia migliore amica poteva venire da me. Anche lei rimandata, meno materie e genitori leggermente più comprensivi.
Fu così che il secondo giorno, per non impazzire, escogitammo “la grande fuga” e la arricchimmo di così tanti particolari e sfumature che ci sembrò cosa fattibile. Facemmo due conti con i “niente” soldi che avevamo e stabilimmo che, tirando grandemente la cinghia, avremmo potuto vivere fuori casa per dieci giorni.
Ovviamente scegliemmo una data X e anche una meta: Assisi.
Assisi per mille motivi. Intanto la conoscevamo bene perché avevamo fatto lì altri campeggi, era per noi un posto molto ospitale, conoscevamo dei ragazzi che, eventualmente, in caso di guai, ci avrebbero dato una mano, era il luogo nel quale aveva vissuto quel gran figo di San Francesco, c’era la chiesa più bella del mondo, dove eventualmente parlare con Dio, un prato verde sicuro dove conoscere della brava gente e poi c’era Perugia. Perugia nel periodo di Umbria jazz significava: musica nelle piazze, concerti a tutte le ore, gente colorata in giro, giovani arrivati da ogni parte d’Europa, insomma, per noi quel luogo lì aveva un nome solo: libertà.
Per la fuga escludemmo fin da subito la possibilità di grattare il muro con l’unghia e puntammo direttamente alla via più semplice: uscire dalla porta principale. Ovviamente ci voleva organizzazione, calma e lungimiranza, ma all’epoca le tre qualità non ci mancavano, così iniziai a lavorare ai fianchi i miei genitori e a furia di tormentarli, ottenni la mia ora d’aria: al mattino potevo uscire per fare footing.
Ogni giorno, quando la mia amica veniva a prendermi, le consegnavo una maglietta, un paio di pantaloncini, una canottiera, qualcosa che non desse nell’occhio e che fosse facile occultare nel suo zainetto. Quando rincasava, andava a riporlo in uno zaino più grande, in garage, dove era sicura che nessuno sarebbe andato a guardare. Recuperò da amici due sacchi a pelo e vivemmo quel mese di preparazione con emozione, ansia, paura ed eccitazione.
Nel frattempo, i miei genitori si convinsero che fossi maturata, pensavano mi fossi “piegata” visto che non mi ribellavo com’ero solita fare e inoltre, mi vedevano circondata dai libri di latino, filosofia, erano contenti. Invece io, mentre con la chitarra suonavo Simbolum 77, in testa avevo sesso, droga e rock and roll, ma che ne potevano sapere loro? Loro che per me sognavano il principe azzurro, mentre io desideravo uno scapestrato, possibilmente scalzo e capellone? Hai presente l’adesivo di Vagabond, quello che si vedeva su tutte le Diane e le Renault 4 all’epoca? Ecco, quel ragazzo con chitarra e zaino in spalla era il mio ideale di uomo, come potevo andare d’accordo con i miei?
A dire il vero, intuivo il loro punto di vista, ma non riuscivo ad essere diversa e quella punizione mi sembrava, francamente, inaccettabile. Avevo bisogno di volare e loro mi tenevano rinchiusa.
Fossi stata da sola, forse, avrei rinunciato al progetto “fuga”, ma eravamo in due e, io per non deludere lei, lei per non deludere me...
Attacca la musica, va!
Ballad of Cable Hogue - Calexico
Quella mattina uscimmo per il solito footing, lasciammo una lettera nella cassetta della posta spiegando brevemente ai rispettivi genitori le nostre ragioni, dicendo dove saremmo andate e indicando un giorno preciso per il ritorno.
Poi camminammo come facevamo tutte le mattine solo che allungammo un po’, poi un altro po’ e poi affrettammo il passo, iniziammo a correre con lo zaino in spalla, ci guardammo negli occhi, scoppiammo a ridere e… a quel punto eravamo già lontane. Allungai il braccio, alzai il pollice, un’auto si fermò, salimmo, chiacchierammo, scendemmo a Mestre, altro passaggio, parlammo, ridemmo, cantammo, scendemmo, altro passaggio… arrivammo ad Assisi nello stesso tempo che avremmo impiegato con l’auto, se ne avessimo avuta una nostra e la patente, chiaro.
Pensavamo di trovare i carabinieri ad aspettarci, eravamo pur sempre due minorenni in fuga, invece all’accettazione c’era il solito custode che conoscevamo dagli anni prima. Ci accolse come fossimo le sue nipoti preferite, non ci fece nemmeno pagare il campeggio, visto che non avevamo una tenda da piantare e ci offrì da bere. Io chiesi un bicchiere di latte: non ho mai bevuto, né prima né dopo un latte così buono. Mi sembrava anche più bianco. Una sensazione fantastica,
Mi guardavo intorno e sembrava tutto splendido, più colorato, le persone che incontravo celebrità, vivevo con un tale abbandono. In ogni parte del “globo” Vasco cantava “C’è chi dice no” e “Vivere una favola”, che sembrava scritta per noi.
Tutto si muoveva al ritmo dei battiti del nostro cuore. Ci sentivamo far parte di un mondo nuovo, vivo, finalmente.
Ricordo ancora le notti sotto le stelle, in campeggio. Aprivo gli occhi e una notte magica si accendeva sopra la testa. Il mio soffitto d’astri.
Eravamo belle, avremmo potuto ottenere qualsiasi cosa, ma noi volevamo solo esistere. Solo quello e quello facemmo.
Un giorno salimmo su un treno per Roma. Camminammo fino a Piazza di spagna. Passammo la notte sveglie, su quei gradini, conoscemmo dei ragazzi spagnoli con la chitarra. Cantavamo un pezzo noi in italiano, un pezzo loro in spagnolo. A metà notte avevamo creato un assembramento di persone che neanche… che so, i Pink Floyd… Al mattino tornammo in stazione e di Roma non vedemmo nient’altro. Solo occhi, umanità, scarpe. Gente passare, forse qualche canna. A Perugia incontrammo altri ragazzi. Magnifici ragazzi, ci chiesero di passare con loro il resto del tempo e forse della vita. Dicemmo no, quell’estate era solo nostra. Li salutammo una mattina per non incontrarli mai più.
Passammo giorni magnifici, leggeri, allegri, pieni di eccitazione e il pensiero dei nostri genitori ci attraversò solo in alcuni pomeriggi di relax in campeggio, ma non bastò a farci tornare prima dei dieci giorni programmati.
Allo scadere dei giorni, senza capricci, né ripensamenti, raccogliemmo le nostre cose, salutammo tutti, uscimmo dal campeggio e rifacemmo l’autostop in senso contrario. Arrivate a Palmanova il cuore mi batteva forse più di quando ero partita, ma avevo incamerato talmente tanto “bello” negli occhi e nella mente che non m’importava niente, ero pronta anche a morire se fosse stato necessario.
Non fu necessario.
Suonai il campanello, venne ad aprirmi mio padre.
Ricordo che si spostò di lato, mi fece entrare e mi diede un calcio che di peso mi fece fare il corridoio “in volo”.
Stop.
Nessuno disse mai niente di quella storia, nessuno mi chiese nulla e di quell’estate non ne parlammo mai.
A settembre fui promossa e la vita riprese normale. Solo la lettera restò nel cassetto, sai quel cassetto che apri trenta volte al giorno che di solito si trova in cucina? Quel cassetto dove c’è tutto quello che serve? ecco, in quel cassetto per dieci anni almeno è rimasta quella lettera che io non ho nemmeno mai aperto. Poteva anche esserci solo la busta vuota per quel che ne so. Però tutte le volte che aprivo il cassetto vedevo quella busta e non dicevo niente e nessuno diceva niente. L’educazione del silenzio.
Un giorno, dopo tanti anni, ho aperto il cassetto e quella busta non c’era più. Mi avevano perdonata, loro.
E io?
Da quando sono ritornata, ho sempre pensato di aver profondamente sbagliato, ma non ad andare via. quello lo dovevo fare, mi ha formata, è stata un’esperienza straordinaria, giorni stupendi, il contorcimento dello stomaco, le risate, la musica, l’atmosfera, i miei 17 anni… indimenticabili, tutto giusto, tutto da rifare, tutto da augurare a ogni ragazza del mondo e infatti, ho sempre riconosciuto a quei giorni un grande potere.
Il fatto è che se me ne fossi andata dopo aver lottato, dopo aver spiegato e rispiegato le mie ragioni ai genitori, anche senza farmi capire, ma facendolo fino allo sfinimento mio e loro, ai miei occhi sarei stata sempre una combattente, invece così mi sono sentita solo e soltanto… un disertore.
Ti ricordi cos'è successo quella volta? A ripensarci adesso, quella volta hai proprio sbagliato.
Una reazione sbagliata, una parola di troppo, un fraintendimento... Raccontaci di un errore e di un ripensamento.
Avevo 17 anni, tanta voglia di sbagliare e una punizione sulla testa che ritenevo esagerata.
Siccome quell’anno ero stata rimandata in tre materie: filosofia, psicologia e latino, (bocciatura assicurata), i miei genitori mi avevano proibito di uscire.
Immaginati come mi potevo sentire... tutti i miei amici a spasso, al mare, campeggio, sagre, feste, discoteche e io… costretta a stare chiusa in casa. Non potevo incontrare nessuno, parlare con nessuno, solo la mia migliore amica poteva venire da me. Anche lei rimandata, meno materie e genitori leggermente più comprensivi.
Fu così che il secondo giorno, per non impazzire, escogitammo “la grande fuga” e la arricchimmo di così tanti particolari e sfumature che ci sembrò cosa fattibile. Facemmo due conti con i “niente” soldi che avevamo e stabilimmo che, tirando grandemente la cinghia, avremmo potuto vivere fuori casa per dieci giorni.
Ovviamente scegliemmo una data X e anche una meta: Assisi.
Assisi per mille motivi. Intanto la conoscevamo bene perché avevamo fatto lì altri campeggi, era per noi un posto molto ospitale, conoscevamo dei ragazzi che, eventualmente, in caso di guai, ci avrebbero dato una mano, era il luogo nel quale aveva vissuto quel gran figo di San Francesco, c’era la chiesa più bella del mondo, dove eventualmente parlare con Dio, un prato verde sicuro dove conoscere della brava gente e poi c’era Perugia. Perugia nel periodo di Umbria jazz significava: musica nelle piazze, concerti a tutte le ore, gente colorata in giro, giovani arrivati da ogni parte d’Europa, insomma, per noi quel luogo lì aveva un nome solo: libertà.
Per la fuga escludemmo fin da subito la possibilità di grattare il muro con l’unghia e puntammo direttamente alla via più semplice: uscire dalla porta principale. Ovviamente ci voleva organizzazione, calma e lungimiranza, ma all’epoca le tre qualità non ci mancavano, così iniziai a lavorare ai fianchi i miei genitori e a furia di tormentarli, ottenni la mia ora d’aria: al mattino potevo uscire per fare footing.
Ogni giorno, quando la mia amica veniva a prendermi, le consegnavo una maglietta, un paio di pantaloncini, una canottiera, qualcosa che non desse nell’occhio e che fosse facile occultare nel suo zainetto. Quando rincasava, andava a riporlo in uno zaino più grande, in garage, dove era sicura che nessuno sarebbe andato a guardare. Recuperò da amici due sacchi a pelo e vivemmo quel mese di preparazione con emozione, ansia, paura ed eccitazione.
Nel frattempo, i miei genitori si convinsero che fossi maturata, pensavano mi fossi “piegata” visto che non mi ribellavo com’ero solita fare e inoltre, mi vedevano circondata dai libri di latino, filosofia, erano contenti. Invece io, mentre con la chitarra suonavo Simbolum 77, in testa avevo sesso, droga e rock and roll, ma che ne potevano sapere loro? Loro che per me sognavano il principe azzurro, mentre io desideravo uno scapestrato, possibilmente scalzo e capellone? Hai presente l’adesivo di Vagabond, quello che si vedeva su tutte le Diane e le Renault 4 all’epoca? Ecco, quel ragazzo con chitarra e zaino in spalla era il mio ideale di uomo, come potevo andare d’accordo con i miei?
A dire il vero, intuivo il loro punto di vista, ma non riuscivo ad essere diversa e quella punizione mi sembrava, francamente, inaccettabile. Avevo bisogno di volare e loro mi tenevano rinchiusa.
Fossi stata da sola, forse, avrei rinunciato al progetto “fuga”, ma eravamo in due e, io per non deludere lei, lei per non deludere me...
Attacca la musica, va!
Ballad of Cable Hogue - Calexico
Quella mattina uscimmo per il solito footing, lasciammo una lettera nella cassetta della posta spiegando brevemente ai rispettivi genitori le nostre ragioni, dicendo dove saremmo andate e indicando un giorno preciso per il ritorno.
Poi camminammo come facevamo tutte le mattine solo che allungammo un po’, poi un altro po’ e poi affrettammo il passo, iniziammo a correre con lo zaino in spalla, ci guardammo negli occhi, scoppiammo a ridere e… a quel punto eravamo già lontane. Allungai il braccio, alzai il pollice, un’auto si fermò, salimmo, chiacchierammo, scendemmo a Mestre, altro passaggio, parlammo, ridemmo, cantammo, scendemmo, altro passaggio… arrivammo ad Assisi nello stesso tempo che avremmo impiegato con l’auto, se ne avessimo avuta una nostra e la patente, chiaro.
Pensavamo di trovare i carabinieri ad aspettarci, eravamo pur sempre due minorenni in fuga, invece all’accettazione c’era il solito custode che conoscevamo dagli anni prima. Ci accolse come fossimo le sue nipoti preferite, non ci fece nemmeno pagare il campeggio, visto che non avevamo una tenda da piantare e ci offrì da bere. Io chiesi un bicchiere di latte: non ho mai bevuto, né prima né dopo un latte così buono. Mi sembrava anche più bianco. Una sensazione fantastica,
Mi guardavo intorno e sembrava tutto splendido, più colorato, le persone che incontravo celebrità, vivevo con un tale abbandono. In ogni parte del “globo” Vasco cantava “C’è chi dice no” e “Vivere una favola”, che sembrava scritta per noi.
Tutto si muoveva al ritmo dei battiti del nostro cuore. Ci sentivamo far parte di un mondo nuovo, vivo, finalmente.
Ricordo ancora le notti sotto le stelle, in campeggio. Aprivo gli occhi e una notte magica si accendeva sopra la testa. Il mio soffitto d’astri.
Eravamo belle, avremmo potuto ottenere qualsiasi cosa, ma noi volevamo solo esistere. Solo quello e quello facemmo.
Un giorno salimmo su un treno per Roma. Camminammo fino a Piazza di spagna. Passammo la notte sveglie, su quei gradini, conoscemmo dei ragazzi spagnoli con la chitarra. Cantavamo un pezzo noi in italiano, un pezzo loro in spagnolo. A metà notte avevamo creato un assembramento di persone che neanche… che so, i Pink Floyd… Al mattino tornammo in stazione e di Roma non vedemmo nient’altro. Solo occhi, umanità, scarpe. Gente passare, forse qualche canna. A Perugia incontrammo altri ragazzi. Magnifici ragazzi, ci chiesero di passare con loro il resto del tempo e forse della vita. Dicemmo no, quell’estate era solo nostra. Li salutammo una mattina per non incontrarli mai più.
Passammo giorni magnifici, leggeri, allegri, pieni di eccitazione e il pensiero dei nostri genitori ci attraversò solo in alcuni pomeriggi di relax in campeggio, ma non bastò a farci tornare prima dei dieci giorni programmati.
Allo scadere dei giorni, senza capricci, né ripensamenti, raccogliemmo le nostre cose, salutammo tutti, uscimmo dal campeggio e rifacemmo l’autostop in senso contrario. Arrivate a Palmanova il cuore mi batteva forse più di quando ero partita, ma avevo incamerato talmente tanto “bello” negli occhi e nella mente che non m’importava niente, ero pronta anche a morire se fosse stato necessario.
Non fu necessario.
Suonai il campanello, venne ad aprirmi mio padre.
Ricordo che si spostò di lato, mi fece entrare e mi diede un calcio che di peso mi fece fare il corridoio “in volo”.
Stop.
Nessuno disse mai niente di quella storia, nessuno mi chiese nulla e di quell’estate non ne parlammo mai.
A settembre fui promossa e la vita riprese normale. Solo la lettera restò nel cassetto, sai quel cassetto che apri trenta volte al giorno che di solito si trova in cucina? Quel cassetto dove c’è tutto quello che serve? ecco, in quel cassetto per dieci anni almeno è rimasta quella lettera che io non ho nemmeno mai aperto. Poteva anche esserci solo la busta vuota per quel che ne so. Però tutte le volte che aprivo il cassetto vedevo quella busta e non dicevo niente e nessuno diceva niente. L’educazione del silenzio.
Un giorno, dopo tanti anni, ho aperto il cassetto e quella busta non c’era più. Mi avevano perdonata, loro.
E io?
Da quando sono ritornata, ho sempre pensato di aver profondamente sbagliato, ma non ad andare via. quello lo dovevo fare, mi ha formata, è stata un’esperienza straordinaria, giorni stupendi, il contorcimento dello stomaco, le risate, la musica, l’atmosfera, i miei 17 anni… indimenticabili, tutto giusto, tutto da rifare, tutto da augurare a ogni ragazza del mondo e infatti, ho sempre riconosciuto a quei giorni un grande potere.
Il fatto è che se me ne fossi andata dopo aver lottato, dopo aver spiegato e rispiegato le mie ragioni ai genitori, anche senza farmi capire, ma facendolo fino allo sfinimento mio e loro, ai miei occhi sarei stata sempre una combattente, invece così mi sono sentita solo e soltanto… un disertore.